Akio a Torino : hana

Questa pubblicazione, stampata nel mese di gennaio 2021 in 15 copie numerate, presenta l’installazione hana, di Akio Suzuki, realizzata nel 2006 all’interno della sua mostra personale per e/static, con la preziosa collaborazione di alcuni amici. Ufficialmente, il libro è stato pubblicato il 24 febbraio di quest’anno, nel giorno in cui cadeva l’80° compleanno di Akio Suzuki. E’ una pubblicazione curata da me, che feci anche tutte le fotografie, in quei giorni fra febbraio e marzo 2016. All’interno, oltre alla riproduzione di un disegno originale dello stesso Suzuki, realizzato all’epoca, un testo scritto da me, tradotto anche in inglese.
Il libro misura cm 16,2 x 23,2; le pagine sono 50, inclusa la copertina; 16 sono le illustrazioni a colori, più una in b/n.

2 marzo 2006 (R. A.)
10 marzo 2006 (R. D. M.)
11 marzo 2006 (J. W.)
16 marzo 2006 (C. F.)
Pubblicato in 2021

Decentrarsi

Moltissimi anni fa, quando ne avevo soltanto venti, anzi neppure, una persona che stavo frequentando con una certa assiduità, ma che di lì a poco avrei perso di vista, mi definì, un giorno. Era una ragazza intelligente (oltre che assai attraente), anche se certe sue scelte erano difficili per me da condividere, ed era perciò inevitabile che le nostre strade si separassero ben presto, una volta per sempre. E comunque, lei disse, certamente per criticarmi e quindi prendere le distanze da me, che io ero «decentrato» (rispetto a lei, soprattutto, dato che era molto impegnata nell’azione politica e aveva le idee molto chiare su cosa fare, e su cosa non fare). Pur non negando la giustezza della sua definizione (anzi, non mi dispiaceva, forse, perché mentre stabiliva le nostre differenze di base conferiva un senso, una motivazione, all’impossibilità oggettiva di portare avanti il nostro rapporto, prima che diventasse una vera relazione), sotto sotto non è che mi entusiasmasse sentirmela affibbiare. Perché dava la stura ai miei vari complessi di colpa, e la prendevo come un sinonimo di indeterminato, irresoluto, cioè di tutti i difetti che mi riconoscevo e che ho continuato, per decenni, a riconoscermi, e che sentivo pesare su di me come una sorta di peccato originale da cui mi era impossibile riscattarmi (un gatto che si morde la coda: se la tua natura è quella dell’irresoluto e dell’indeterminato, come fai a risolvere il problema? Non si può, devi soltanto imparare a conviverci).
Ma ora, oggi – dopo una chiacchierata con un amico, qualche ora fa – mi sembra di vedere la cosa in un altro modo, non più così negativamente, anzi. Con lui mi sono messo a parlare della mia attitudine ad errare (in senso etimologico e nel senso corrente), a non ripetermi, a uscire spesso e volentieri dal solco, dalla strada che sto percorrendo in un dato momento, imboccando il primo sentiero laterale che mi sembra promettente e invitante, senza saper bene dove mi porterà (disponendomi quindi a perdere la strada che stavo percorrendo). E la mia idiosincrasia nei confronti delle categorie e delle definizioni che mi vengono assegnate di quando in quando, sentite come trappole che mi bloccano impedendomi di muovermi, e di sbagliare… La mia attitudine a cambiare opinione su certe cose, la varietà dei miei gusti e delle mie preferenze (che quella mia amica di tanti anni fa definirebbe come un chiaro sintomo di incoerenza – e quella era forse la parola che aveva in mente, preferendo pronunciare, per una specie di delicatezza, forse, il meno duro, più soft, ‘decentrato’) sono altre manifestazioni della mia natura, così come una accentuata volubilità del sentire. Ovvero, sono in grado di esprimere una fortissima ammirazione, perfino amore, per una certa cosa, un’opera d’arte, una persona, un luogo, e poi, anche dopo poco, o pochissimo tempo – questione di attimi, tanto può durare a volte questa alternanza – vedere ognuna di queste cose come un oggetto senza qualità, o una persona sgradevole, con la quale non ho nulla in comune, e con cui mi trovo a disagio, oppure un luogo orrendo, da cui fuggire, per sottrarmi alla pena di frequentarlo. Insomma, non riesco a mantenere la posizione, non ho nemmeno quel senso della proprietà che porta, credo, a non abbandonare ciò che si possiede, un oggetto o un luogo (ma anche una persona, una moglie, se vogliamo) anche quando si è affievolito, o addirittura è svanito, l’interesse o il piacere originari, ciò che ci aveva motivati ad entrarne in possesso.
No, non mi riesce, non posso continuare a stare lì, e non penso a ciò che, molto probabilmente, perderò andandomene, ma sono bensì spinto ad andare in cerca di qualcos’altro, anche se non ho certezze di trovare di meglio. Ma di diverso, e di nuovo, sicuramente sì. E il desiderio – o la curiosità, forse sono sinonimi? – che mi spinge ad andarmene, è sufficiente a darmi la forza di agire, e una ricompensa sicura, anche se non porta con sé alcuna garanzia su come mi sentirò dopo, una volta raggiunto quell’altro luogo, trovata quell’altra persona o quell’altra cosa.
Sì, aveva ragione, perfettamente, sono decentrato, mi muovo spesso e volentieri verso i margini, spesso li oltrepasso, e cambio spesso direzione, ogni tanto mi fermo, poi magari ritorno dov’ero (ed è bello non riconoscere, non completamente, quel luogo, scoprirlo più che riscoprirlo) ma senza fermarmici troppo a lungo. Soprattutto se quella posizione corrisponde al centro.
Ma non ho nemmeno nulla contro il centro, anzi ogni tanto è bello, è fantastico sentirsi al centro del mondo. Ma è una sensazione che non può durare, e non voglio fare niente per contrastare questa impossibilità. Quindi non mi fermo lì, ma mi sposto da un’altra parte, anzi non è nemmeno vero che mi sposto, come conseguenza di una decisione, ma, è così che capita, piaccia o no, ci si trova da un’altra parte, senza che abbiamo veramente deciso di farlo.

scritto il 31 gennaio 2017

[da Osservazioni improprie, 2020, ancora inedito]

Alice nelle città per sempre

Avevo visto “Alice nelle città” (bel titolo) una prima volta al cinema, molti anni fa, e fu forse l’unica in una sala. Poi, due o tre anni fa, presi un dvd inglese, si vedeva decentemente, anche se in un formato – me ne sarei accorto soltanto in seguito – insolito per un film dei primi anni ’70, il 4:3. Così, leggendo sul sito di Wim Wenders che aveva curato il restauro del film, pochi anni fa, portandolo nel formato 1,66:1, perché questo era quello voluto dallo stesso autore e dall’operatore Robby Müller, ma che il film venne costretto nel 4:3 per una pretesa. all’epoca, della televisione tedesca, ho deciso di acquistare questa versione, ben presto ‘riconoscendo’ il film (perché così si era visto nelle sale, all’epoca, mentre evidentemente la versione inglese del dvd utilizzava l’altro, ‘televisivo’). È questo un film speciale, anzi unico, visitato dalla grazia dall’inizio alla fine, un vero miracolo. Quarto lungometraggio di Wenders, veniva dopo il fallimento di “La lettera scarlatta”, e lui dice che se non avesse ottenuto qualcosa in cui riconoscersi appieno, che lo facesse star bene già nelle fasi di lavorazione, avrebbe probabilmente abbandonato il cinema. Fu fatto con quattro soldi, una troupe minima, due attori dei quali uno è una bimba di nove anni, quindi una non-attrice, Yella Rottländer, peraltro straordinariamente brava, proprio perché non recita veramente, ma vive il suo personaggio, grazie anche a molte analogie con la sua ‘vera’ vita, per cui in pratica si può dire che l’unica cosa diversa sia il nome. È un film che, così come fece star bene Wenders e la troupe (Rüdiger Vogler ricorda quei giorni come i più belli della sua vita) fa star bene chi lo vede, come se fosse in viaggio con loro, con Philip e Alice. È anche un film irripetibile, e Wenders non farà mai più niente di meglio (pur provandoci più volte, come peregrinando in cerca di quell’atmosfera), anche se ci arriverà vicino, in “Falso movimento” e, soprattutto, in “Nel corso del tempo”.
L’ho rivisto due sere dopo, nella versione commentata da Wenders, Vogler e Yella, che all’epoca (nel 2005) aveva poco più di quarant’anni, anche se gli altri due, regista e attore protagonista, ancora si rivolgono a lei un po’ come quando aveva nove anni, al tempo delle riprese. Come sempre, vedere un film commentato da chi lo fece è un’esperienza molto particolare, diversa dalla visione consueta, e in questo caso direi che mi ha fatto piacere il film ancora di più. Ci sono tanti momenti freschi e indimenticabili, credo che chiunque lo abbia visto avrà i suoi. A me sono piaciute molto certe scene con Yella, che sembrano davvero vissute, e in effetti lo sono, perché un bambino di nove anni, soprattutto se non influenzato dagli adulti, ma lasciato libero di avere un approccio spontaneo alla recitazione, in effetti non recita veramente, non più, e non così diversamente, di quando racconta qualche bugia per ingannare i grandi; che pure generalmente mangiano la foglia, e fingono di buon grado a lor volta, stando al loro gioco. Ora mi viene in mente quando Philip, incassata con enorme autocontrollo la notizia che la nonna di Alice non abita a Wuppertal, e lei l’aveva sempre saputo, tornando dal bagno le comunica, con fredda calma, senza neppure alzare la voce, che la porterà alla polizia. Lei, che stava mangiando un grosso gelato, si interrompe di colpo, si vede benissimo che le si è chiusa la bocca dello stomaco, come si dice. E dire che poco prima, mentre era lì aspettando che lui tornasse dal bagno, al passaggio di una carrozza del treno sospeso (caratteristica unica di Wuppertal, città che venne scelta proprio per il fatto di avere questo treno) aveva alzato lo sguardo sorridendo compiaciuta: ovviamente, è un effetto del montaggio, ma funziona benissimo, con la massima naturalezza. Poi le ultime due sequenze, collegate fra loro dal montaggio: prima, Yella e Philip seduti nello stesso scompartimento del treno verso Monaco, chiacchierano con molta tranquillità mentre sullo sfondo vediamo il paesaggio scorrere oltre il finestrino. Lei chiede a lui cosa farà dopo, e Philip, dopo averle risposto, piuttosto vagamente, le chiede la stessa cosa: Yella sembra riflettere, fa una specie di smorfia incomprensibile girandosi verso il finestrino, poi si alza in piedi, imitata da lui, e insieme abbassano il finestrino, guardando fuori. Che meraviglia questa risposta senza parole, questa non-risposta! Subito dopo, li vediamo dall’altra parte del finestrino, dall’alto, come allontanandoci, perché la mdp è su un elicottero, evidentemente, che si alza sempre più alto in cielo, e ben presto vediamo tutto il treno mentre, da sinistra verso destra – la direzione del tempo che passa, allontanando le persone da momenti vissuti, da luoghi e persone – corre costeggiando un fiume, e sull’altro alto ci sono dolci colline coltivate1: una sequenza di una bellezza struggente, forse una delle più belle, più toccanti, che abbia mai visto al cinema2. Avevamo già visto qualcosa di simile, ma molto vagamente, in “Prima del calcio di rigore” e lo rivedremo, ancor più somigliante (anche qui un addio, che potrebbe essere un arrivederci, ma quasi certamente no, perché quei giorni vissuti insieme sono perduti per sempre, irripetibili, come loro stessi) alla fine di “Nel corso del tempo”.

1: credo siano le stesse colline di “Falso movimento”, nella valle del Reno, dove Wenders visse molta della sua infanzia”.
2: curiosamente, questa sequenza me ne ha fatto venire in mente un’altra che compare in un film di Aki Kaurismaki, sicuramente molto diverso da questo, più virato su un certo umorismo ‘deadpan’, come di consueto nei film di questo regista. Si trova in “Calamari Union” ed è quella in cui un tipo è seduto, in un locale apparentemente deserto, con una giovane donna che vorrebbe conquistare, mentre una band sta provando, e lei improvvisamente, attratta da un altro che passa di lì, lo abbraccia e lo bacia, abbandonando lì il suo pretendente. Che osserva in silenzio la scena, senza fare nulla, seguendo con lo sguardo i due mentre lasciano il locale; poi si alza, va verso il palco, prende la chitarra da uno dei musicisti e si mette a cantare “Stand by me”. In tutte e due le scene si vede qualcuno rispondere in maniera non verbale a una domanda o a una rivelazione del tutto inaspettata, e sconvolgente. Ovvero, si risponde con un gesto, che poi non è neppure una vera risposta.

[scritto il 23 aprile 2021]

Storie di tempo e di sogni

Sono rimasto sorpreso, ieri sera, nel vedere, e apprezzare, il primo degli otto cortometraggi che compongono “Ten minutes older: the cello”. Histoire d’eaux, così si intitola, è di Bertolucci, che io non ho mai molto amato, anzi, una volta uscii dal cinema alla fine del primo tempo di un suo film (“Io ballo da sola”) perché ci riusciva – a me e a chi era con me – insopportabile. Questo no, l’ho visto con interesse, la storia, ambientata nell’attualità del 2001, è antica, antichissima, si ritrova in testi sacri induisti e buddisti, ed ha la stessa struttura che utilizzò Scorsese nel suo film su Cristo, alla fine, quando lui è sulla croce. Intere vite alternative si svolgono davanti ai nostri occhi e alla fine si rivelano improvvisamente illusorie, e così il protagonista si ritrova nel punto da cui era partito, perché soltanto pochi minuti, perfino pochi attimi, erano in effetti trascorsi1. Oppure, altrove, si accorge improvvisamente che una normale passeggiata breve, questione di qualche ora oppure un viaggio di pochi giorni, erano durati decine di anni, e lì dove ritorna, lui o lei sempre giovane, sono tutti morti i suoi contemporanei, introvabili ormai2. Molti autori hanno scritto storie così, sul tempo che si dilata e si restringe come una spugna stretta in una mano, anche nel cinema abbondano. Ovviamente, si pensa subito a “La Jetée”, e non a caso a Chris Marker è dedicato tutto il film ad episodi. Che, a differenza dell’altro, “Ten minutes older: the trumpet”, non mi è piaciuto molto, anzi, mi ha piuttosto depresso, perfino l’episodio di Godard, magistrale, alla fine, è più deprimente che stimolante (purtroppo non riesco a guardare quelle immagini dai lager, a cui mi sembra G. ritorni spesso), mentre gran parte degli altri li ho trovati artificiosi e opachi.
Devo dire che a me interessa particolarmente la fortissima somiglianza di certe storie ad altrettanti sogni – ovvero, esse sembrano proprio sogni, così come i sogni ci appaiono spesso come realtà, mentre li stiamo sognando e anche dopo. Soprattutto in quello di Bertolucci si allude, mi sembra, anche a una dimensione onirica, che è esattamente ciò che accade in “La donna del ritratto / The woman in the window”, di Fritz Lang, rivisto qualche sera fa. Non ricordavo (o meglio, non ci avevo fatto troppo caso la prima volta) la straordinaria sequenza verso la fine, quando E.G. Robinson prima sembra morirci davanti agli occhi, dopo essersi avvelenato, poi li riapre, ridestandosi da un terribile sogno, durato per quasi tutto il film, a partire da quando – come apprenderemo poi – si era assopito dopo aver cenato con gli amici, fino al suo risveglio. L’inquadratura non cambia, semplicemente c’è una lenta zoomata sul volto di Robinson, che alla fine occupa quasi tutto lo schermo, i contorni dell’immagine invece appaiono come sfocati. In quei momenti, alla velocità del fulmine, la troupe tecnica di Lang sostituiva gli arredi della scena, l’appartamento del professor Wanley, con quelli del circolo, così quando lui viene risvegliato dal premuroso maggiordomo si ritrova proprio lì, con il Cantico dei cantici (libro scelto, fra gli innumerevoli possibili, con grande acutezza) ancora aperto sulle sue ginocchia, vivo, e non più dove l’avevamo visto morire pochi secondi prima.

All’epoca, e credo ancora per molto tempo, si disse che il cinico Lang avesse dovuto escogitare la soluzione onirica perché in qualche modo costrettovi da certi codici puritani vigenti a Hollywood, che obbligarono molti registi a modificare i propri film, per lo più con finali alternativi, più consolatori e rassicuranti. Certamente, se il film finisse con la morte del protagonista sarebbe stato terribile, dato che, a sua insaputa, tutto si era risolto per il meglio e non avrebbe più dovuto temere di essere incastrato dalla polizia per il delitto (un omicidio per legittima difesa, peraltro) compiuto all’inizio. Ma Lang smentì questa versione, l’idea fu sua, e io ci credo, anche se, apparentemente (invero, tutto avviene proprio così, davanti ai nostri occhi il rispettato professore si dimostra disponibile a compiere azioni quanto meno discutibili, dal punto di vista etico), contraddice il suo cinismo solito, la sua assoluta sfiducia nell’uomo, nella sua bontà, lealtà, moralità. In effetti, questa soluzione, oltre ad essere del tutto sorprendente e inattesa, gli permise anche di escogitare quel trucco magistrale, che ancora adesso, a vedere il film, affascina ed entusiasma. Ed è anche brillante l’idea di svelare come almeno due dei protagonisti del sogno – i più negativi, l’uomo che stava per ucciderlo e che invece ucciderà e il laido ricattatore – avessero esattamente le sembianze di due dipendenti del circolo, l’addetto al guardaroba e il portiere: Wanley li guarda dapprima stupito, e un po’ turbato, per poi sciogliersi in sorrisi e parole cordiali per entrambi, sollevato.
In questo film insomma, come in innumerevoli altri (mi viene ora in mente “L’invasione degli ultracorpi”) la dimensione onirica è temuta per la sua immane potenza di creare situazioni assolutamente verosimili in cui veniamo a trovarci nel sonno, e alle quali spesso – se si tratta di un incubo – temiamo, mentre le viviamo, nel sogno, di non poterci più sottrarre. Sensazione che spesso perdura anche dopo il risveglio, quando impieghiamo, talvolta, qualche tempo prima di poterci convincere che ne siamo fuori, scampati al pericolo, di nuovo liberi, gli stessi di prima, rientrati nella stessa realtà che avevamo lasciato prima di addormentarci. Quel che capita anche al personaggio interpretato da E.G. Robinson nel bel film di Lang, forse non del tutto rassicurato riconoscendo negli innocenti dipendenti del circolo i più inquietanti personaggi del suo recente sogno, e realmente terrorizzato quando vede apparire, riflessa nella vetrina, alla fine, una figura di donna molto somigliante alla Joan Bennett del sogno. Perciò non può fare a meno di fuggire da lei, quasi correndo.

[scritto il 4 marzo 2021]

ps: recentemente – circa tre mesi dopo aver scritto questo testo – ho potuto vedere, per la prima volta, il secondo film di Bernardo Bertolucci, “Prima della rivoluzione”, uscito nel 1964, ma girato nel 1963, quando aveva 22 anni. Il film mi è piaciuto, credo sia il suo migliore, sicuramente il più importante, per diversi motivi. Ebbene, a un certo punto uno dei personaggi principali, interpretato dall’attrice Adriana Asti, racconta agli altri due proprio la stessa storia che Bertolucci metterà in scena quarant’anni dopo, nel cortometraggio Histoire d’eaux, che farà parte del progetto collettivo “Ten minutes older”.

1: molti anni prima di vedere il film di Scorsese lessi il racconto di Ambrose Bierce An Occurrence at Owl Creek Bridge (scritto nell’800), imbattendomi per la prima volta in un simile stratagemma narrativo.
2: vedi il celebre racconto di Washington Irving Rip Van Winkle, e l’antica leggenda giapponese Urashima.

Vita e morte sull’isola nuda

Nel film di Kaneto Shindo “L’isola nuda” (Hadaka no shima) del 1960 molta parte è assegnata a un’azione compiuta ripetutamente, per innumerevoli volte, da due persone, marito e moglie, che vivono su una piccola isola nel mare interno del Giappone presso Hiroshima con due figli ancora bambini. Conducendo, a turno, una barca spinta da un solo remo a poppa, raggiungono la terraferma, dove riempiranno due secchi di legno con l’acqua raccolta da un canale (la loro isola ne è evidentemente del tutto sprovvista) che porteranno poi sulle spalle, appesi ai due capi di un bilanciere. L’isola è impervia, il sentiero che sale dal punto in cui attracca la barca è assai ripido, così portare il bilanciere con i due secchi colmi d’acqua (a occhio almeno trenta chili di peso, forse anche quaranta) è un’operazione ardua, da compiere lentamente, calcolando bene ogni passo, perché oltre a sé stessi bisogna tenere in equilibrio l’attrezzo, anzi tutto insieme, perché i vari elementi compongono un’entità organica, dove i secchi sono la parte passiva, da governare. Soprattutto la donna, per ovvi motivi (è anche piuttosto esile, a differenza del marito) si vede che fa molta fatica, e una volta, già praticamente arrivata in cima all’isola, dove i due bagnano una per una le loro piantine, un secchio le sfugge rovesciandosi e disperdendo il prezioso contenuto. Lui, dopo un attimo di fissità – ma già mostrandosi corrucciato – accorre verso di lei soltanto per sferrarle un pugno, che la fa cadere a terra: tanto grave è l’accaduto, e infatti lei non accenna ad alcuna reazione, di nessun tipo, soprattutto non parla, perché nessuno dei quattro parla mai durante tutto il film, fino alla fine (quando la donna avrà un grave cedimento morale, e stavolta rovescerà deliberatamente un secchio). Vediamo fare questa operazione, dall’una o dall’altro, oppure da entrambi insieme, in fila indiana, moltissime volte, negli stessi luoghi, anche se le stagioni cambiano, e le vediamo scorrere tutte una dietro l’altra. Evidentemente, essa è stata caricata dall’autore (regista e scrittore del film) di una forte valenza simbolica, oltre la veridicità dei fatti; infatti, Shindo ammetterà candidamente che le piantine, soprattutto di patata dolce, che costituiscono in massima parte la coltura dei due, non avrebbero bisogno di tutta quell’acqua (che pure serve ad altri impieghi, come la cucina e l’igiene della famiglia). Inoltre, lui sapeva benissimo (provenendo da una famiglia di agricoltori) che non si bagnano mai le piante in pieno sole, come si vede fare nel film, bensì al mattino presto o alla sera. Tali inesattezze sono quindi deliberate, perché non era interessato a rispettare la verosimiglianza, quanto piuttosto a mettere in scena una sorta di apologo, dove certe azioni sono fortemente simboliche. E infatti Shindo ha anche dichiarato la sua intenzione di significare che, come si devono bagnare regolarmente le piante, per farle crescere bene, così andrebbe ‘innaffiato’ lo spirito degli uomini, con la stessa dedizione e sollecitudine. Per quanto poi riguarda la scelta di mostrare tante e tante volte il faticoso e difficile trasporto dei secchi, essa è sicuramente azzeccata, per come quel gesto rimanda a molti miti arcaici, sia giapponesi sia occidentali (quello di Sisifo è, ovviamente, l’esempio che subito ci viene in mente) e non ha quindi alcuna difficoltà ad essere compreso da persone appartenenti a qualsiasi cultura – e lo stesso vale per tutti i gesti compiuti nella vita di tutti i giorni dai due, (soprattutto) all’epoca in cui il film uscì nelle sale ancora consueti per contadini e montanari di tutto il mondo. “L’isola nuda” può apparire come un documentario, per come è girato e per il fatto che i due attori compiono realmente, con genuina fatica, tutti i loro gesti, dal trasporto dei secchi alla conduzione della barca; ma si tratta bensì di un film ‘astratto’, un apologo appunto, che va oltre il dato reale mentre lo mostra con assoluta autenticità e senza alcuno dei soliti escamotage usati normalmente nel cinema («Volevo fare un film puro, anche poetico, e tutto visivo, con soltanto un commento musicale non intrusivo, e senza dialoghi», dirà il regista).
Il film si snoda attraverso questa ripetitività, con poche eccezioni, per lo più felici (vedi la pesca del grosso pesce da parte del figlio maggiore e la successiva vendita al mercato in città, seguita da un pranzo di tutta la famiglia al ristorante). Ma decisiva è l’unica eccezione drammatica, anzi tragica, la morte proprio del bimbo più grande, il bravo pescatore. Dopo, c’è una scena che ho trovato veramente straziante, come raramente mi accade guardando un film, quando dopo l’arrivo della scolaresca di compagni del bimbo morto, accompagnati da una maestra e da un sacerdote, per la cerimonia funebre, dalla casetta in cui vivono si vedono uscire i due, uno dietro l’altro, reggendo, lei davanti e lui dietro, la cassa di legno con il figlio morto. Questa volta la loro fatica non ha un fine vitale, positivo, non è un lavoro proiettato verso il domani, per la sopravvivenza e la conquista del benessere, ma esattamente il suo contrario: quello che ora sentono nelle braccia è il peso della morte, la potenziale fine della speranza, la soluzione di continuità. Credo che questa sequenza, a quel punto del film gli dia un fortissimo guadagno, elevandolo di molto e facendolo diventare qualcosa di davvero intenso e disarmante, nella sua micidiale evidenza, trasmessa allo sguardo dell’osservatore (io ieri sera) educato e preparato dall’ora abbondante che la precede. Quando si era assistito alla ripetizione quasi maniacale di quel gesto, diventatoci sempre meno estraneo, anzi familiare, attraverso il processo di identificazione tipico in chi guarda un film; per cui, ad ogni nuova apparizione di uno dei due caricato con il bilanciere sempre più ci pare quasi di provare quella fatica, e di percepire quel peso sulle nostre stesse spalle, sempre più intensamente. Peso e fatica perfettamente espressi dalla curvatura del bilanciere sulle spalle dei due.
Ancora dopo, proprio alla fine (subito prima è davvero commovente la scena di lei che, dalla sommità dell’isola guarda verso l’isola più grande, abitata da molti, l’esplosione di fuochi artificiali a sera, attonita, per l’infelice coincidenza della morte del figlio con qualche festa locale), la donna, appena giunta sul campo, dove già il marito stava bagnando come sempre le piantine, si ferma per qualche secondo a fissare il secchio pieno d’acqua, posato a terra. Poi, d’improvviso e deliberatamente, lo rovescia, e andando oltre nella sua furia strappa dal terreno molte piantine, incapace di rassegnarsi alla perdita del figlio, rabbiosa verso tutto ciò che vede come la causa vera della tragedia, accaduta soprattutto perché l’isola è lontana da dove vive tutta la gente, e perciò il medico ci ha messo troppo tempo a raggiungerla, arrivando infatti solo quando il bimbo è già morto. Questa volta il marito non osa reagire, smette di lavorare e la guarda a lungo con grande intensità, visibilmente preoccupato (lei è ora a terra, in preda a una crisi di sconforto piangendo disperata), per qualche minuto. Dopodiché si rimette al lavoro, lentamente riprende a bagnare le piantine una ad una, con cura: questo è quanto ritiene di dover dire (senza profferir parola) alla moglie, questa è la sua decisione, dolorosa e non facile da prendere, perché anche lui ha molto sofferto e ancora soffre per la perdita del figlio. Lei allora si riprende, sembra capire, o forse semplicemente si rassegna, e piano piano riprende a sua volta i gesti abituali, che poco prima aveva deciso di ripudiare per sempre, con rabbia.
Di fondamentale importanza, secondo me, la scelta del luogo, il paesaggio meraviglioso che circonda l’isola, ammirabile soprattutto dai punti più in alto, quello dove c’è la casetta e quelli in cui i due accudiscono le loro colture, quando sempre vediamo mare e montagne, e cieli meravigliosi, sullo sfondo. Sembrerebbe un contrasto doloroso, e spietato, ma forse è anche, questo contrappunto idilliaco alla loro enorme e continua fatica, ciò che la alimenta e la legittima1. La piccola famiglia infatti, nonostante stenti e sacrifici continui, appare a suo modo felice, soprattutto i due bimbi, e si può immaginare che soltanto la presenza del figlio superstite dia alla coppia un residuo di energia e di speranza per rimanere ancora lì, dopo la tragedia, riprendendo le abitudini brevemente, e forzatamente, interrotte.

[scritto il 22 dicembre 2020]

1: avevo immaginato qualcosa del genere quando, circa due anni fa durante una passeggiata, mi ritrovai in una piccola borgata di montagna ormai abbandonata, in Val Pellice (ne parlo nel testo Invincibili, contenuto in “Stare fermi”, pubblicato nel 2019). Erano molti i segni evidenti di quanto doveva essere duro viverci, la fatica e i sacrifici ineluttabili, giorno dopo giorno, tutto richiedeva un impegno costante, senza distrazioni. Ma da lì, guardando verso sud, verso il fondovalle e poi il versante opposto, la vista era magnifica, sicuramente quelle persone ci ritornavano spesso con lo sguardo, per sentirsene corroborati, e forse rimanevano in quei luoghi nonostante tutto proprio perché quegli sforzi, la durezza di quella vita, erano il prezzo da pagare per vivere lì, e poter gettare di quando in quando lo sguardo verso quell’ampiezza mirabile e confortante.

Un Racconto di Canterbury del 1943

All’inizio di “A Canterbury Tale”, di Michael Powell e Emeric Pressburger, c’è un momento in cui, nel passaggio (una frazione di secondo) da un fotogramma all’altro sono compressi circa 600 anni. Vediamo un falconiere rilasciare il suo falco, nel XV secolo, e poi osservarlo attentamente mentre volteggia in cielo. Quei volteggi vediamo noi stessi, finché a un certo punto il falco esce dall’inquadratura, dirigendosi verso sinistra, un attimo prima che dall’alto cominci a scendere verso di noi, a grande velocità, la sagoma sempre più vicina e più chiara di un Hurricane.1 Dopo, rivediamo il falconiere, è proprio lui, ma indossa un elmetto, ora è un soldato inglese del XX secolo, siamo nel 1943, durante la Seconda Guerra Mondiale. Questa sequenza davvero stupefacente – subito dopo una bella introduzione in cui vien fuori con chiarezza che quello del film sarà un Racconto di Canterbury aggiunto a quelli creati da Chaucer nel XV secolo – stabilisce con certezza come il tema del film sia soprattutto il tempo, e il tempo, in tutte le sue possibili scansioni e designazioni, strutturerà tutto il film. Sono infatti continui, disseminati praticamente in ogni sequenza, dati temporali spesso molto precisi, senza dei quali il film perderebbe ogni consistenza. Dopo la straordinaria sequenza in apertura, di cui si è detto, assistiamo all’arrivo del treno, sul quale viaggiano due militari, sergenti per la precisione, uno dei quali, americano, è in licenza, si trova quindi in una fase in cui il tempo è sospeso e sta a lui decidere cosa farne, dandogli insomma una struttura. Ecco che, constatato di essere costretto a passare la notte in un paesino nei pressi di Canterbury – dove era diretto, se non fosse sceso dal treno per errore –, si informa subito sul prossimo treno, e apprende che il primo partirà il mattino dopo alle 8:57. Poi, l’episodio della colla nei capelli (che informerò di sé tutta la storia, con le indagini dei tre giovani per individuare l’autore del gesto proditorio) da subito mette sul tavolo un’altra questione legata al tempo, perché l’episodio avviene poco prima della mezzanotte, e questo elemento sarà decisivo per capire quale pista seguire. Ma tutta l’inchiesta dei tre (i due soldati e una ragazza venuta in campagna “per dare una mano” in tempo di guerra) viene costruita man mano soprattutto incrociando i dati orari, quelli delle aggressioni e quelli dei giorni in cui il magistrato locale, Colpeper, era di servizio nella squadra antincendio, autorizzato quindi, nonostante il coprifuoco, a muoversi attraverso il villaggio. Ancora, apprendiamo che la ragazza, Alison, era già stata lì tre anni prima, e che Bob Johnson – il sergente americano – non riceve lettere dalla sua fidanzata da otto settimane. E nel piacevole dialogo fra quest’ultimo e il falegname locale molti elementi di misura temporale affiorano, soprattutto in relazione alla stagionatura del legname. Lo stesso sergente Johnson, alla fine, quando si troverà all’interno della Cattedrale, rapito guardando verso l’alto, pensando a una chiesetta costruita, in legno, dal nonno in Oregon, pronuncerà una data, 1887, come per stabilire una relazione, appunto temporale, fra i due luoghi, uniti dalla sua presenza in quel momento lì a Canterbury. Frequenti sono poi, nelle conversazioni fra i personaggi, le allusioni a date o ad orari, legati ad appuntamenti, per il pranzo o per una proiezione di diapositive a casa del magistrato (quando lui parlerà esplicitamente della presenza, persistente nel paesaggio circostante, di tracce risalenti a molti secoli prima). Poco prima della parte finale, quando i quattro – i sergenti, la ragazza e il magistrato – si ritroveranno insieme nello stesso scompartimento del treno diretto a Canterbury, sappiamo subito, dalla bocca di Colpeper, che il treno impiegherà dieci minuti ad arrivare, e questa informazione crea un istantaneo stato di suspence, perché quel tempo dovrà essere tutto speso per le spiegazioni, dato che i tre hanno ormai capito che lui è l’autore delle aggressioni e lui sa che loro sanno. Si mette quindi subito a parlare, velocemente, per ottimizzare quel poco tempo, ed è convincente, almeno nei confronti dell’americano e della ragazza, mentre l’altro, apparentemente, è irremovibile nel suo intento di denunciarlo alla polizia (ciò che poi non farà). L’aspetto veramente interessante di questa intensa sequenza è la sua durata, che sembra proprio quella reale, dei dieci minuti occorrenti al treno per giungere a destinazione (non è esattamente così, ma sembra esserlo, ciò che è sufficiente). Inoltre, se si compara con quella iniziale col falco e l’Hurricane, là il tempo era compresso all’estremo, seicento anni in una frazione di secondo, qui è dilatato, quei dieci minuti ci paiono davvero lunghi2, i personaggi non vogliono perderne neppure un attimo, e così noi che guardiamo: stiamo attenti ad ogni attimo, concentrati come forse mai prima nel corso del film.
Oltre alla sequenza all’inizio, ce n’è almeno un’altra, verso la metà, in cui emerge, diversamente ma con pari intensità, l’idea di un tempo immobile, dove è possibile trascorrere da un secolo all’altro in una frazione di secondo, rimanendo immobili guardando il paesaggio, e stando in ascolto. La ragazza, mentre sta passeggiando, sbuca in una radura da dove si può vedere un vasto paesaggio intatto, dal quale sbucano le torri della Cattedrale di Canterbury. Lì è un tratto del famoso Cammino dei Pellegrini, e così lei, fermandosi, riesce a udire i suoni, le voci e i rumori che avevamo udito all’inizio del film, vedendo sfilare il corteo dei pellegrini del XV secolo. Dall’erba alta sbuca Colpeper (era lì sdraiato, non visto da lei) il quale fa capire ad Alison di sapere molto bene cosa le è appena accaduto: le dice qualcosa come “ascoltare qualcosa che non è fuori ma dentro di noi”, cercando insomma di dare del fenomeno appena esperito dalla ragazza una spiegazione razionale. Ma noi avevamo udito, distintamente, quegli stessi suoni con lei, quindi non abbocchiamo.

Ps: ho fatto una breve ricerca sul Cammino dei Pellegrini verso Canterbury, mosso da una vaga intuizione, scoprendo che esso fa parte della cosiddetta Via Francigena, che partiva – anzi, parte tuttora – da Londra verso Roma, e della quale Canterbury, con la sua Cattedrale, è una delle prime tappe. La Via passa anche vicino a Torino, in Val di Susa, dove viene indicata bensì come Sentiero dei Franchi, e io ne ho percorso spesso qualche tratto, durante una delle mie escursioni, anche la scorsa estate. Anche questo evento – tutto mio, interiore – ha luogo allo stesso modo di quel prodigioso effetto di montaggio all’inizio del film di Powell e Pressburger, comprimendo il tempo, ma anche lo spazio, in modo subitaneo e vertiginoso. E crea un legame con lo stesso film ancor più saldo ed efficacie.

1: celebre caccia della RAF, prodotto dalla Hawker. Curiosamente, ‘hawk’ significa ‘falco’ in inglese, e qualche dizionario propone anche ‘falconiere’ come traduzione di ‘hawker’ (anche se il significato più comunemente ammesso è ‘venditore ambulante’).
2: trascorrono in effetti 7′ e 16”, ed è forse la sequenza più lunga del film.

[scritto il 1° aprile 2021]

Agire con decisione pur non sapendo che fare

in un certo senso una posizione disperata sarebbe una possibilità
H. Heissenbüttel

Ultimamente vedo o rivedo molti noir americani degli anni ’40 e ’50, tutti in b/n, spesso – e sono quelli che preferisco – girati in esterni, al di fuori degli studi di posa, e se è notte le figure emergono dall’ombra improvvisamente, una parte di loro, il volto o una mano, illuminata da una luce cruda e tagliente, grazie al forte contrasto con il buio fitto. Vi si vedono sempre persone in difficoltà, anche estreme, che devono risolvere, e in fretta, senza poter troppo riflettere o esitare, un problema che non avevano mai affrontato prima, e che si è presentato improvvisamente, cambiando le loro vite. Sanno di fare una scelta rischiosa, le cui conseguenze potrebbero essere fatali per loro, ma se ne assumono la responsabilità, e spesso si vedono perfino costretti a trasgredire la legge. Tutto ciò devono farlo, quasi sempre, da soli, nessuno li può aiutare, quasi mai, e spesso ci lasciano le penne, ma non sempre. Possono essere dalla parte della legge o al di fuori, ma ovviamente quelli a cui ci si sente più vicini, per i quali si prova più simpatia, fino a immedesimarci in loro, sono persone comuni, che si trovano inopinatamente, e senza averne avuto l’intenzione, catapultati in prima linea, accusati di qualcosa che non hanno commesso, oppure minacciati, di morte, loro o i loro cari, moglie o figli (“Desperate / Morirai a mezzanotte”, oppure “Criss Cross / Doppio gioco” – anche se qui una reale intenzione, sia pure venuta fuori forzosamente, c’è, nel protagonista, che poi peraltro, in un soprassalto di buon senso, pentito, si rivolterà contro i gangster a cui si era associato per fare la rapina). Ma possono anche essere fuorilegge, incalliti (il Richard Conte di “Cry of the city”), pentiti (il Victor Mature di “The kiss of death”) o ‘in erba’, come il Farley Granger di “They only live by night / La donna del bandito”. Spesso accade che si simpatizzi per loro, e non credo sia per caso, è evidente come il regista, o gli sceneggiatori, abbiano messo le cose in modo da far scaturire tale sentimento, semplicemente mostrando poliziotti anche troppo zelanti, seriosi o sprezzanti, intrisi di un moralismo che può infastidire, mentre il bandito, pur a sua volta spietato, violento e privo di scrupoli, ha comunque una sua etica, una certa lealtà, e si può innamorare di una giovanissima Debra Paget che sembra una santa, di quelle coinvolte in miracoli, ciò che accade a Richard Conte, ancora in “Cry of the night”. Mentre il suo rivale, il poliziotto, ex-amico d’infanzia, Victor Mature, quasi sempre torvo in volto – mentre Conte è spesso sorridente, fa battute argute, è brillante – davvero esagera a perseguitarlo fino alla fine, quando lo ucciderà, sparandogli alle spalle. Fra l’altro Marty Rome / Conte a un certo punto viene accusato di un delitto che non ha commesso (che non avrebbe mai potuto commettere, per la brutalità e crudeltà dei fatti, che non gli appartengono) e poi uccide lo spregevole avvocato che lo voleva incastrare, coinvolto, lui sì, in quel delitto.
Ma soprattutto mi interessa, di questi personaggi, vedere come si comportano trovandosi in certe situazioni, quando devono agire prontamente, prendere decisioni senza sapere quale potrebbe essere quella giusta, perché non hanno alcuna esperienza di un tale caso, e nessuno, o quasi nessuno, li può aiutare; essi infatti intuiscono che un comportamento ‘normale’, magari chiedendo l’aiuto della polizia, non soltanto non gli sarebbe di alcun aiuto, ma addirittura potrebbe metterli ancor di più nei guai (Steve Brodie in “Desperate / Morirai a mezzanotte”). Mi piace seguirli mentre agiscono, sempre istintivamente, perché non c’è nemmeno il tempo per riflettere, ovvero, la riflessione deve avvenire con estrema rapidità, immediatamente seguita dall’azione (oltre al precedente, ancora il Mature di “The kiss of death”).
Talvolta queste persone riescono a scamparla, sottraendosi a ingiuste persecuzioni (di gangster o poliziotti), altre volte no, gli va male, e comunque, si può anche perdere, ma con la coscienza a posto, dopo aver fatto del nostro meglio dando proprio tutto: mi sembra che questa sia la lezione che si può apprendere guardandoli. Sono passati 70 o 80 anni, ma mi sembra che in certi frangenti si possa ancora capitare facilmente, e si capiterà sempre, e dovremo sempre cavarcela da soli, senza manuali e senza ‘applicazioni’ varie. In quei film questo insegnamento veniva fuori con chiarezza. Credo fossero, e ancora sono, utili e costruttivi, pur senza averne avuto l’intenzione.
C’è un altro aspetto, relativo agli attori che interpretano i protagonisti di certi film, spesso persone che hanno sofferto nella vita vivendo situazioni analoghe e recitando se ne saranno sicuramente ricordati. Mature era veramente un italo-americano (il padre veniva dal Trentino), così come Conte, che aveva entrambi i genitori di origine italiana. Questo potrebbe spiegare perché i due sembrano così autentici, e credibili, nella propria parte – soprattutto Conte, che spesso non pare nemmeno stia recitando – così come due comprimari in “Cry of the city”, italo-americani a loro volta, che impersonano i genitori di Marty Rome.

Ps: ieri sera, 6 aprile, ho rivisto un film dei fratelli Taviani uscito poco meno di quarant’anni fa, “La notte di San Lorenzo”, pieno di personaggi e di piccole storie, quasi tutte innescate dal gesto di Galvano Galvani [Omero Antoniutti]. L’anziano fattore, non convinto, istintivamente, dalle assicurazioni del vescovo – che parla a nome dei nazi-fascisti che controllano il paese – dopo averci lungamente riflettuto, in silenzio, senza parlarne con nessuno, a un certo punto si alza in piedi su una sedia, riesce ad ottenere un minimo di silenzio (colpendo con un piede il cassetto semiaperto di un tavolo lì vicino, per fare rumore zittendo il cicaleccio) e dichiara a tutti i compaesani che lui non si recherà alle tre di notte in chiesa, come richiesto dalle autorità, ma se ne andrà prima, appena fatto buio, verso gli orti, incontro agli americani, dati ormai per molto vicini. Pacatamente, con poche ma ferme parole, propone a chiunque voglia seguirlo di partire tutti insieme a lui e ai suoi familiari, vestendosi di nero per non essere visti. Galvano ha deciso di trasgredire a un ordine emesso da un’autorità (peraltro auto-elettasi tale, quindi illegittima, sebbene potente, nei loro confronti) sentendo con forza la necessità di fare quella scelta, proprio per salvarsi da un molto probabile grave pericolo. Pericolo aggravato dal fatto di trovarsi in una situazione di oggettiva prigionia, dato che sarebbero rinchiusi nella chiesa dagli usurpatori, per favorire l’esplosione delle mine messe nelle case e facilitare così la loro fuga di fronte all’avanzare degli Alleati. Questo conta: come i protagonisti di certi noir americani1, Galvano prende una decisione difficile, disobbedendo a un ordine e uscendo dalla maggioranza; decisione che non gli eviterà – a lui e a chi lo seguirà – seri pericoli. Ma essi saranno affrontati da uomini liberi, sia pure in fuga, ciò che gli darebbe un certo vantaggio, rispetto alla molto probabile sciagura (che infatti poi avverrà) da subire inermi, chiusi dentro la chiesa come animali nella stalla2.

[scritto il 24 marzo 2021]

1: va notato che le vicende del film, ispirate a fatti veri, ebbero luogo nel 1944, nello stesso periodo storico in cui vennero girati molti noir americani. Inoltre, come molti di quelli (“La donna del bandito / They only live by night” in particolare) i fatti salienti avvengono quasi sempre di notte.
2: la chiesa verrà colpita da un proiettile di cannone che esplodendo sterminerà la folla dei paesani lì rinchiusi, uccidendone, o ferendone gravemente, moltissimi.

I baccelli e le gemelle De Havilland

Avevo visto per l prima volta “L’invasione degli ultracorpi” in televisione, moltissimi anni fa, in una rassegna dedicata a Don Siegel (saranno stati gli anni ’70, verso la fine forse). Da allora, in verità, mai più, quindi mai al cinema, per dire. Ho acquistato il dvd, si presentava come un’edizione curata, e che quindi ne valesse la pena, ma soprattutto, vedendolo sul sito di Amazon, mi è venuta voglia di rivederlo, stranamente, perché non ci avevo mai più pensato in tutti questi anni, non che mi ricordi. Il dvd è stato effettivamente restaurato, si vede bene, a parte una zona scura sull’angolo destro, in alto, che appare di quando in quando. Altrimenti l’immagine è nitida e ben contrastata, e sicuramente l’ho visto meglio ieri sera che non la prima volta. Non dura molto, direi un’ora e un quarto circa, eppure non si perde tempo, il regista avrebbe potuto benissimo allungarlo, sfruttare di più certe sequenze, che invece vengono fuori molto secche, concise. L’effetto è stato potente, ero davvero incollato allo schermo, anche se di quando in quando notavo qualche faciloneria, apparente, come se la sceneggiatura avesse delle debolezze, fatti che si verificavano in maniera non del tutto convincente. Non sembra plausibile che i due amici del medico trovino la ‘creatura’ in formazione sul biliardo di casa, arrivata lì non si sa come, e ciò nonostante reagiscano con relativa compostezza, come lo stesso medico e la sua amica. E che non chiamino subito la polizia, o un’ambulanza, anche questo appare poco credibile. Ma poi mi sono reso conto che il film è un lungo incubo, ovvero un sogno che pian piano, poi sempre più rapidamente, e irresistibilmente, si trasforma in un incubo. E in un sogno, o in un incubo, accadono le cose più inverosimili, questo si sa, e mentre le sogniamo, generalmente, le accettiamo senza battere ciglio, tanto siamo avvinti dalla la situazione, senza poterla controllare. Tra l’altro, si tratta di un incubo davvero tremendo, perché coinvolge tutti gli aspetti della vita del protagonista, di chi fa il sogno: gli amici, l’intera comunità in cui vive ‘da sveglio’. Ciò che accade è orribile, forse la cosa più orribile che si possa immaginare, e che pure ha un fondamento nella realtà, perché ogni tanto ci accade di non riconoscere più qualcuno che si conosceva da anni, o da sempre. Infatti, pare che nelle intenzioni degli autori (regista, produttore, sceneggiatori) ci fosse proprio quella di portare l’attenzione sulla progressiva ‘disumanizzazione’ della società, che semmai, secondo la tesi del film, potrebbe suscitare una reazione soltanto identificandone la causa in un agente esterno ad essa, nel caso in questione i mostruosi baccelli provenienti dal cosmo. E a proposito della scarsa considerazione di quasi tutti per i chiari segnali d’allarme mandati da alcuni (la sorella di Becky e il piccolo Grimaldi soprattutto) è interessante come essi – soprattutto ‘grazie’ allo psichiatra, probabilmente fra i primi ad essere ‘doppiati’ – vengano fatti passare per alienati, vittime di una presunta “isteria di massa”, potenzialmente degni di essere curati come malati di mente. In una scena che mi ha colpito molto, il dottor Kaufmann (lo psichiatra) riesce quasi a convincere il collega portando argomenti apparentemente razionali, con la persuasione del ‘buon senso’ che rifiuta tutto ciò che esula dalla cosiddetta normalità. Così smonta le affermazioni del medico e dei suoi due amici su quanto sostengono di aver visto addebitandolo ad allucinazioni “prodotte dalla mente ma irreali”. Mi hanno fatto venire in mente qualcosa, quelle parole, mi pare di averle sentite dire, o lette, anche troppo spesso negli ultimi tempi
Curiosamente, e del tutto incidentalmente, proprio due sere prima avevo visto un film realizzato undici anni prima di “L’invasione degli ultracorpi” che pur non essendo ascrivibile, come questo, al genere delle fantascienza, aveva qualcosa in comune. In “Lo specchio scuro”, la vicenda di due gemelle identiche (interpretate da un’unica attrice) riesce a mettere a disagio lo stesso spettatore, oltre agli altri personaggi del film, che non riescono mai a distinguere una gemella dall’altra, né quando sono insieme e neppure, tanto meno, quando sono sole. Il tenente di polizia si trova in grave difficoltà proprio perché impossibilitato a stabilire l’identità di ognuna, e lo psicologo che accetta la sua proposta di provare, con le sue capacità e la sua esperienza in materia di gemelli, a smascherare l’inganno, dovrà fare moltissima fatica, arrivando molto vicino a lasciarci la pelle, per mano della gemella ‘cattiva’, o folle (anche qui la tendenza inesorabile è sempre quella di assegnare la patente di pazzo a chi devia dall’ordine precostituito, sfuggendo alle strettoie della morale comune – come riesce di fare alle due gemelle per quasi tutto il film, e l’assassina del dottor Peralta non può essere incastrata dalla legge).
Tornando al film di Siegel, una delle sequenze più riuscite, le più impressionanti per lo spettatore, è quella in cui, al mattino presto dopo una notte insonne nascosti nello studio del medico, lui e la fidanzata si accorgono di uno strano – data l’ora – affollamento nella piazza davanti alla finestra da cui stanno guardando. Continua ad accorrere gente verso il centro della piazza, dove il capo della polizia locale impartirà a tutti le istruzioni per diffondere ovunque i terribili baccelli. Così i due nascosti nello studio medico capiscono, con orrore, che tutta la cittadina, ormai, è stata conquistata dai replicanti, e loro sono rimasti gli unici a sfuggire all’invasione del corpo dei cittadini da parte delle presenze aliene prodotte dai baccelli. Poi, la fuga dei due dalla città, soprattutto la prima parte quando corrono affannosamente su per la scala, inseguiti da un folto gruppo di alieni, tutti con le sembianze dei loro concittadini, è davvero angosciante, e la sensazione prosegue ancora a lungo, aumentando quando si trovano, nascosti, sotto le tavole sulle quali passano tutti gli inseguitori, che pure non li trovano. Ma l’apice dell’orrore si raggiunge quando il medico sta baciando la fidanzata, e si accorge, dopo un attimo, che non è più lei, e si ritrae terrorizzato, capendo che ora è diventata un nemico, e infatti lei urla subito in modo di farsi sentire dagli altri, per fargli sapere che è nascosto lì, perché accorrano a catturarlo. In un attimo, la sua vita è cambiata, si è attuato un completo rovesciamento, il colpo è micidiale, peggio che se lei fosse morta. Perché non è più lei, ora.
Ho trovato molto interessante nel film la soluzione escogitata dagli autori per l’invasione vera e propria, da parte degli alieni, nel corpo dei personaggi: essa accade mentre stanno dormendo, e al risveglio nessuno è più sé stesso, sostituito da un’entità altra, spassionata e irriconoscibile, pur avendo assunto il carattere, e la memoria, di quella persona. Quindi, «non dormire!», ripete spesso il dottor Bennell (l‘attore Kevin Mc Carthy) alla fidanzata e agli stessi amici. Non dormire per non sognare, si potrebbe dire, per paura di una realtà altra da quella vissuta da svegli, dove spesso persone che ci sono note e anche care cambiano completamente atteggiamento, diventando ostili e pericolose per noi. Paura – forse ancestrale – del sogno, della possibilità, sempre temuta, che possa catturarci per sempre, impedendoci di ritornare alla realtà che avevamo lasciato addormentandoci. Perciò, io credo, si potrebbe davvero considerare il film come la rappresentazione di un terribile incubo, ciò che sarebbe stato ancor più chiaro – obbligando a identificarci ancor più nel protagonista, diventando noi stessi protagonisti in prima persona del sogno – se si fosse mantenuta la sua primitiva forma, quella voluta da Siegel e dal produttore Wanger. Ma gli studios la rifiutarono, preferendo la sovrapposizione di una cornice narrativa in flash-back, con un finale più o meno rassicurante, in luogo del tremendo «They’re here already! You’re next! You’re next!» rivolto dal dottore direttamente alla platea dei cinema, e a noi che vediamo il film seduti in casa nostra davanti a uno schermo televisivo.

[scritto il 7 marzo 2021]

Andarsene

“Andarsene (storie silenziose e nascoste)” è stato pubblicato a Torino da leppi lampi labors nel mese di luglio 2020, in 50 copie, ha 60 pagine + 4 di copertina, in carta usomano bianca, nel formato (chiuso) cm 13 x 19. All’interno 16 testi (più uno in Appendice) scritti nel 2019, e due immagini fuori testo, una a colori e una in b/n.

Anèddoti in prima persona [estratto da Andarsene]

Alcuni dei testi compresi in questo volume mi sembrano poter essere definiti anèddoti1 ‘in soggettiva’, se è vero che sono narrati usando la prima persona singolare dei verbi – mentre generalmente viene usata piuttosto la terza, singolare o plurale. La modalità ‘in soggettiva’, ovvero le inquadrature tutte dal punto di vista di un’unica persona, che pure non si vede mai – a meno che non si trovi di fronte a uno specchio – viene molto raramente utilizzata nel cinema, e ogni volta per brevi sequenze2, e ne sono stati fatti effettivamente pochissimi tutti così, perché è praticamente impossibile sostenere sempre quell’unico punto di vista, ciò che dopo un po’ stanca e trasmette anche un certo senso di disagio. Ma allora come facciamo noi, ognuno di noi, per un’intera vita, sempre, a vedere e vivere tutto da quell’unico punto di vista perfino mentre si dorme, nei sogni? Perciò i momenti forse più rilevanti di questa raccolta di testi si trovano all’interno di Cadere, e sono quelli in cui descrivo la perdita della consapevolezza di me per un secondo o forse meno, ellissi che non potrò mai riempire con alcun ricordo, perché mentre quei fatti accadevano non ero cosciente, non vedevo le cose dal mio solito, immutabile punto di vista, non vidi infatti niente, e niente potrei mai ricordarmi. Insomma, io credo proprio che a contare di più in questa antologia di testi siano quegli unici istanti sfuggiti al mio controllo, quando accadde qualcosa che non vidi e non vissi e rimane perciò escluso dal racconto, indescrivibile. E che sono perduti per sempre, per quanti sforzi potessi mai fare per recuperarli.
Ma ci sono anche altri momenti notevoli, per motivi analoghi, che ho vissuto e che echeggiano in questo libro, ad esempio quelli descritti in Andarsene, quando per pochissimi secondi non fui in grado di riconoscermi, dato che mi vedevo da dietro, come non può mai succedere. Oppure quelli descritti in Senza titolo, quando, anche lì per qualche attimo, non mi riconoscevo nel riflesso dei finestrini, soprattutto di quelli di sinistra, più lontani da me. Infine, nell’epigrafe a Gli occhi di Bette Davis, nella descrizione fatta da Cormac McCarthy delle mosse del cieco, che sembra guardare nel fondo del bicchiere, parrebbe balenare qualcosa di molto simile ai momenti sopra descritti, tutti vissuti da me, qualcosa che non saprei davvero definire (come forse, credo, nemmeno McCarthy), essendo effettivamente indicibile. Forse in quei pochi attimi fugaci il cieco sembra avere una particolare coscienza, che potrebbe consistere in una momentanea perdita di quella sua abituale, a cui assiste inerme, come è accaduto a me stesso quella mattina.

C.F. , 31 dicembre 2019

1: il termine anèddoto deriva dal greco e significa, etimologicamente. ‘inedito’. Propriamente, cosa inedita, episodio o fatto inedito, quindi ignoto o segreto. (…) In senso più ampio, fatto particolare e curioso della vita privata di qualcuno (cit. Vocabolario Treccani).
2: mi viene in mente ora quella di “L’uomo senza passato” di Kaurismäki in cui il protagonista, pestato a sangue, si rialza e raggiunge barcollando i bagni di una stazione, mentre tutti lo guardano – ed è come se guardassero noi – con occhi atterriti, perché dev’essere sfigurato dalle botte e pieno di sangue. C’è almeno un film tutto girato dal punto di vista del protagonista, che si vede, appunto, qualche rara volta quando passa davanti a uno specchio, credo si intitoli “Una donna nel lago”, ma non ricordo di averlo visto.

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