La vipera di Uusikaupunki

La vipera che si vede al centro dell’immagine qui sopra [che compariva nella homepage sulla barra delle pagine, dal giorno della pubblicazione del blog fino al 15 agosto 2021] ha una storia strettamente connessa al nome stesso del blog, anche se io me ne sono reso conto soltanto ieri. Confesso che quando si trattò di scegliere un’immagine che si adattasse a quel particolare formato, così tanto più lungo che alto, mi trovai in seria difficoltà, finché non mi capitò sott’occhio questa, risalente a parecchi anni fa. D’altronde, lo disse già Fritz Lang (forse proprio nel “Disprezzo” di Godard) che il formato cinemascope, assai simile a questo, è soprattutto adatto a contenere funerali e, appunto, serpenti. Come sa chiunque abbia letto la pagina chi/cosa, l’origine del nome leppi lampi labors era nota soltanto a Rolf Julius, pochissimi altri (forse una, al massimo due persone) ne sono informati, oltre a lui, che pure, come si sa, è scomparso già da più di dieci anni. Posso soltanto dire che all’inizio c’era una certa parola finlandese, piuttosto buffa, che un giorno scoprimmo di conoscere entrambi, e allora divenne importante, per noi due. Lui era molto legato alla Finlandia, terra d’origine di sua moglie Nina, e là, nei dintorni di Uusikaupunki, in un luogo bellissimo, fece costruire la loro casa delle vacanze (anche se lui ci andò spesso anche in altre stagioni, per brevi soggiorni). Nel 2012, quindi un anno dopo la sua dipartita, Nina mi sollecitò ad andarla a visitare prima che fosse messa in vendita, come aveva infine deciso di fare. Me ne aveva parlato già un anno prima, ma quella volta capii che sarebbe stata la mia ultima occasione, quindi organizzai il mio viaggio, all’inizio di luglio, proprio quando là sono ancora nel pieno del fenomeno detto “del sole di mezzanotte”, quando cioè, in pratica, il sole non tramonta mai del tutto all’orizzonte, e ci si vede benissimo anche quando qui è buio pesto. Fu un’esperienza molto coinvolgente, elettrizzante, che mi permise di capire molte cose sul mio amico, e sul suo meraviglioso lavoro artistico: tutto durò pochi giorni, ma intensissimi. Un giorno Nina, come anticipato, mi portò a visitare i luoghi in cui lui aveva girato innumerevoli video, e scattato tante fotografie: i famosi stagni di Uusikaupunki. Che poi erano (soprattutto uno dei due) veramente delle grandi pozzanghere di acqua salata – da quelle parti il mare si insinua un po’ dappertutto, colonizzando la terraferma. Visitammo il primo, che mi sembra di ricordare fosse quello più grande, soffermandoci abbastanza a lungo, io ero veramente molto preso dall’esperienza, quasi sopraffatto, senza parole. Poi ci spostammo verso il successivo, non lontano da quello, giusto qualche minuto di strada a piedi camminando su un bel sentiero ampio, in terra battuta. Improvvisamente mi accorgo che, a pochi metri da noi, una vipera sta attraversando la strada, così dico subito a Nina (che già allora vedeva molto poco, a causa di una malattia degenerativa agli occhi) di fermarsi, per aspettare che la vipera sgombri il cammino. Dopodiché riprendiamo a muoverci, arrivando ben presto al secondo stagno (“pond”, proprio così li chiamava Julius), dove fra le altre cose c’erano, appena emergenti dall’acqua melmosa, due speaker che aveva messo lui, per girare i suoi video, e che gli erano sfuggiti, andando a fondo.
Soltanto ieri ho messo in relazione i due elementi, il nome del blog e l’immagine con la vipera, accorgendomi per la prima volta di quanto strettamente connessi essi fossero da sempre. Così, per la prima volta ho capito cosa era successo, e mi è parso di sentire la voce del mio amico, che forse era apparso davanti a noi quel giorno.

(mi ha tolto ogni dubbio, per rendermi davvero conto di cosa successe quel giorno, la visione della cartella con tutte le immagini che scattai, grazie ai numeri di codice che indicano con precisione la sequenza degli scatti e la scansione temporale degli eventi; ogni file reca infatti l’indicazione dell’ora esatta in cui feci la fotografia)

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Il cane nero di T.

Andrej Tarkovskij dovette girare due volte (qualcuno parla addirittura di tre volte) tutte le sequenze in esterno di “Stalker”, perché la prima volta le pellicole, per un errore del laboratorio nella fase di sviluppo, furono danneggiate. Ci sono pareri discordanti: secondo qualcuno le due versioni erano diversissime fra loro, secondo altri praticamente identiche. Comunque sia, esiste (sembra che le pellicole rovinate siano state distrutte, ma esse ‘ci sono’ in qualche modo, anche soltanto nella memoria di qualche sopravvissuto, e comunque si sa, è un fatto noto a molti) un altro “Stalker”, che, essendo il primo realizzato, forse era quello più forte, più intenso, perché fatto con la massima energia, quando certamente non si immagina neanche lontanamente che ci sarà una replica, perché nel cinema è sempre così (a parte rarissime eccezioni, ma sempre per motivi contingenti, non per scelta predeterminata), a differenza del teatro.
Sapendolo, sembra di intravederlo, mentre si guarda la seconda (o terza?) versione, quella definitiva, succeduta all’altra, scomparsa. Trattandosi di un’opera di Tarkovskij, un autore che spesso ha inserito elementi onirici nei suoi film (“Lo specchio” era praticamente un unico lungo sogno) si potrebbe pensare a una doppia apparizione dello stesso sogno, come a molte persone capita di avere un sogno ricorrente.
Nella versione definitiva, che io stesso ho visto sia al cinema sia in dvd, a un certo punto appare, verso la metà del film, un cane nero, che da quel momento rimarrà sempre presente fino alla fine. Bene, quel cane non era previsto dalla sceneggiatura, apparve veramente del tutto inaspettato, come in un ‘vero’ sogno, e Tarkovsky decise di tenerlo, evitando di sospendere le riprese, quando fece la sua comparsa. Il cane – che fu adottato dalla troupe, e poi, alla fine delle riprese, affidato a gente del posto – mi sembra veramente rappresentare la differenza più evidente fra le due versioni, e forse T., che era sempre predisposto agli eventi miracolosi, al manifestarsi del daimon, quella parte di mistero, l’inaspettato e il sorprendente, che per lui non sarebbe mai dovuta mancare nella vita di tutti i giorni, intuì che quell’apparizione, proprio perché differenziava marcatamente le due versioni, era qualcosa di fondamentale, a cui assegnare un valore di conferma e di benedizione.

(scrissi questo breve testo l’11 gennaio 2014 e me ne ero quasi dimenticato fino a ieri, quando l’ho ritrovato in una vecchia cartella; l’ho trascritto qua sopra quasi identico, con una sola minima correzione)

Vedere un film è come fare una passeggiata

Come a tanti, anche a me piace passeggiare, lungo percorsi nuovi ma anche ritornando su quelli noti, che però possono apparire ogni volta nuovi, perché ogni giorno è diverso dagli altri, oppure accade di passare in un luogo in orari diversi. E poi ci sono le stagioni, e fra una e l’altra, soprattutto qui in Italia, particolarmente al nord, le differenze sono tali da imprimersi anche nell’immagine dei luoghi, che cambiano quindi spesso anche molto. Mi è anche sempre piaciuto molto vedere film, vado al cinema da quando avevo forse 4 o 5 anni, e poco dopo in casa nostra arrivò un televisore, quindi la possibilità di vederne aumentarono di molto, anche stando in casa, davanti a un piccolo schermo in bianco e nero (che poi era piuttosto un tono fra il grigio e l’azzurrino). Poi vennero i cosiddetti dvd (dopo i vhs, che praticamente ignorai) e negli ultimi anni, mentre vado sempre più raramente al cinema, la maggior parte delle mie sere, a parte l’estate, rimango a casa a vedere un dvd, e capita spesso che li riveda.
Trovo che fra il camminare e il guardare un film ci siano molte analogie, e si potrebbe perfino dire che guardare un film di un’ora e mezza, più o meno, sia come fare una passeggiata stando seduti. Così come una passeggiata è sempre un’occasione di vedere qualcosa di nuovo (luoghi o persone) o di rivederlo, notando ogni volta qualche differenza anche lieve, la visione di un film, quando è nuovo, ci permette di stabilire un contatto con luoghi e persone mai prima visti, e quando lo rivediamo, magari a distanza di qualche anno, c’è sempre qualcosa che si nota per la prima volta, anche se è sempre stato lì, in quella posizione della pellicola, dopo quel certo numero di minuti e secondi dall’inizio. Però ogni volta si ha l’impressione di vederlo veramente per la prima volta, come se non ci fosse mai stato prima. Può essere un luogo, un oggetto, una persona, qualcosa che un personaggio fa o dice: lo scopriamo in quel momento, come se proprio in quel momento ci fosse apparso per la prima volta.
Si potrebbe dire che qualcosa di simile accade anche in letteratura, nella musica, o nell’arte visiva, ed è vero, in parte. Ma il cinema è certamente il medium artistico più vicino alla realtà, con la quale arriva a confondersi (accade, o accadeva, soprattutto nel buio della sala cinematografica), perché si vede e si ascolta, e gli unici sensi a non funzionare sono il tatto, l’olfatto e il gusto – che peraltro anche passeggiando non sono, generalmente, molto utilizzati (a parte l’olfatto, e raramente anche il tatto).
Insomma, vedere un film ci permette di vivere un’esperienza analoga a quella che si vive facendo una passeggiata, con le stesse proprietà: la possibilità, cioè, di vedere qualcosa che ci sorprende, che non ci aspettavamo di vedere quando abbiamo deciso di uscire di casa. Qualcosa che, peraltro, già ci apparteneva, che conoscevamo, anche se poi ce ne siamo dimenticati; ma la ritroviamo, questa cosa, in un’altra posizione, dove non avremmo mai immaginato di trovarla, ed è questo che soprattutto ci sorprende, facendoci spesso trasalire.
Cose che notiamo – in un film come in una passeggiata o in libro – e che non sempre, non necessariamente sono state messe lì dall’autore. Che a volte, effettivamente, nasconde accuratamente certi elementi, sia visivi sia, spesso, nel linguaggio, o negli stessi nomi dei personaggi. È un’attitudine ludica, l’autore ci sfida a trovarli, e quando capita in pratica siamo stati al suo gioco, tutto sommato passivamente. Ma altre volte ciò che notiamo era sfuggito allo stesso autore, e in questo caso diventiamo a nostra volta creatori, sfruttando con una modalità parassitaria la materia che lui aveva pazientemente messo insieme. Mi vengono ora in mente certi passi da libri di McCarthy, che avevo anche trascritto, ma ce ne sono certamente tanti altri, e ci sarebbe ampia materia per lavorarci estesamente e in profondità.
Un film, un racconto letterario, un’opera musicale o di arte visiva: ognuna di queste cose può essere un luogo, all’interno del quale ci aggiriamo, una prima volta e poi ancora, trovando o ritrovando ogni volta qualcosa o qualcuno. Anzi direi proprio che esse devono essere altrettanti luoghi, e a quelli meglio caratterizzati, che hanno una forma precisa e ben strutturata, ci si lega, anche strettamente. Davvero, ci si va, e ci si torna, ogni tanto.

(scrissi questo testo nel febbraio 2019, e me ne ero dimenticato; poco fa l’ho casualmente ritrovato, e lievemente ritoccato in alcuni punti)

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Il nuovo mondo

“Era stato un anno di paura, o meglio, di sentimenti più intensi della paura, per i quali non c’è nome sulla terra. Molti prodigi e avvenimenti inconsueti si erano verificati da ogni parte, sulla terra e sul mare. A ben pensarci la città era effettivamente cambiata. Ero io che ancora non me ne ero accorto. In ogni modo, se la città era cambiata, mi occorreva del tempo perché potessi accorgermene.”

“Si avvertiva che qualcosa di strano e inafferrabile aveva toccato la città, le sue strade, i suoi caffè. Le persone agivano in preda ad una specie di sorda e misteriosa isteria. Facevano largo consumo di pasticche dal potere indefinibile ma sicuramente nefasto. Era evidente che ora per ora un oscuro e orrendo male stava lentamente corrompendo la mente umana, anche se in fondo ogni cosa sembrava essere rimasta tale e quale.”

“Da molti giorni non avevo chiuso occhio, quella sera caddi in un sonno profondo, che si protrasse per due giorni. Solo dopo aver comprato i giornali e letto la terribile notizia, in preda al panico telefonai ad Alessandra. Ma tutto pareva andar bene, era tranquilla e decidemmo di incontrarci entro un quarto d’ora. L’aspettai per tutta la mattina, e quando le telefonai, mi dissero che se ne era andata in piscina.”

“Fu in questa occasione che mi accorsi che la città era cambiata. Ancora non mi rendevo conto che cosa esattamente era accaduto, quali danni l’esplosione avesse realmente provocato, che cosa fosse mutato in Alessandra.” ( … ) “Avrei dovuto capire che tutto questo non era che la conseguenza della fine del mondo.”

“Ora so che il nuovo mondo è cominciato. Quale era il miracolo che mi aveva risparmiato? Ma so bene che da un momento all’altro anch’io posso essere contaminato dalla meccanicità orrenda, la morte della logica. Ecco perché mi sono deciso a scrivere queste parole su questo quaderno di scuola. Forse nei tempi che verranno qualcuno le leggerà con curiosità, come l’ultima testimonianza del mondo della libertà.”

Tutti i testi e le immagini pubblicati su questo post sono estratti da Il mondo nuovo, di Jean-Luc Godard, un cortometraggio inserito nel film a episodi “RoGoPaG”, realizzato nel 1962 e uscito nelle sale all’inizio del 1963. Godard girò tutte le riprese del film in un solo giorno, il 24 novembre 19(62), data visibile in testa alla copia di L’Humanité che compare nel film, leggendo la quale il protagonista apprende dell’esplosione atomica al di sopra di Parigi.

N.B.: la frase in fondo all’incipit, immagine di apertura del film, « Saranno dei piccoli e lievi mutamenti che inavvertitamente ci distruggeranno », diventa, se si ascolta la voce fuori campo del protagonista, « Saranno dei piccoli e lievi mutamenti che inevitabilmente ci distruggeranno ».
Il resto del testo non subisce invece alcuna variazione.

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La vita felice

Quando si discuterà su ciò che rende felice la vita non venirmi a rispondere come si fa nelle votazioni per maggioranza e minoranza: «Sembra che la maggioranza stia da questa parte». Proprio per questo ci si trova di fronte alla peggiore delle soluzioni: le cose umane non vanno così bene che il meglio piaccia ai più. La prova del peggio è la folla. Cerchiamo dunque quel che sia meglio a farsi, e non quello che più si usi fare, quel che ci metterà in possesso di una felicità eterna, e non quel che goda il favore del volgo, pessimo interprete della verità. E definisco volgo sia chi indossa la clamide sia chi porta la corona. Non guardo al colore delle vesti che coprono il corpo, non mi affido agli occhi per valutare l’uomo: ho un lume migliore e più sicuro per discernere il vero dal falso: il bene dello spirito, allo spirito spetta di trovarlo.

Seneca, da De vita beata

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La brevità della vita

Ci può forse essere qualcosa di più stolto del modo di pensare di alcuni uomini che ostentano previdenza? Sono faticosamente affaccendati e, per vivere meglio, spendono la vita a predisporre la vita stessa. Estendono progetti per un lungo arco di tempo, ma vivere nell’aspettativa è il più grande impedimento al vivere: si dipende dal domani, si perde l’adesso. Pretendi di disporre ciò che è nelle mani della fortuna, tralasci quel che è in tuo potere. A che cosa miri? Fin dove ti spingi? Tutto quel che deve ancora avvenire è nell’incerto. Vivi subito.

Seneca, da De brevitate vitae

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Nel bosco / In the wood

Stampato nel formato A4 (cm 21 x 29,7) e pubblicato nel 2008 in tre esemplari, consta di 42 pagine, con nove riproduzioni fotografiche a colori fuori testo. Tutti i nove testi sono stati liberamente tratti da “Ise monogatari” (I racconti di Ise). Tutte le immagini sono state scattate nel pomeriggio del 13 aprile 2003, in un luogo imprecisato. Traduzioni dall’italiano all’inglese di Magica Fossati.
Il libro è la prima pubblicazione leppi lampi labors in assoluto.

immagine nr. 1

Tempo fa un uomo decise di partire verso un certo luogo, apparentemente senza un motivo particolare. Poiché non conosceva la strada, procedette con esitazione.

(uno dei nove testi)

Lo spazio espositivo come luogo dell’apparizione improvvisa e inaspettata /1

La sera del 5 novembre 2010, nello spazio blank di via Reggio 27 ci fu la performance Lid, di Giovanni Morbin, un nuovo episodio della serie di campo volo – inaugurata da Alis/Filliol nella primavera dello stesso anno – realizzato in collaborazione con il gruppo Diogene. A partire dalle ore 21 circa, le persone, dopo essere entrate nello spazio, arrivavano nei pressi di una piccola stanza illuminata e apparentemente vuota, subito dopo averne attraversata un’altra con diverse opere alle pareti. Guardando dentro prima di entrarci non era possibile vedere nulla, e si seppe poi che qualcuno non ci entrò proprio. Varcando la soglia, qualcun altro avrà gettato un rapido sguardo alle pareti, e vedendole vuote sarà subito uscito. Bisognava alzarlo, lo sguardo, verso il soffitto, a quasi quattro metri da terra, per poter vedere una figura umana assolutamente immobile, braccia e gambe distese, diritte e ferme, lo sguardo fisso verso qualcosa che nessun altro poteva vedere, oltre il muro che gli stava di fronte – in realtà, un angolo acuto fra due muri. Molti riconoscevano Morbin, e un sorriso affiorava spesso sulle labbra di un visitatore, ben sapendo dell’attitudine eccentrica e audace del performer, che riesce ogni volta a stupire con le sue azioni e con le sue opere. Altri no, non sapevano chi fosse, e ci fu chi rimase incerto – anche dopo, uscendo dalla stanza – sulla natura dell’apparizione, e soprattutto della figura appesa al soffitto: era vivo? O si trattava piuttosto di una statua, magari in cera? Magari una di quelle sculture cosiddette iperrealiste in voga negli anni ’70. Altri, pur percependo la vitalità della figura, si stupivano bensì della sua fissità, e sostavano a lungo ansiosi di cogliere un movimento, un batter di ciglia, il rumore di un respiro, un segno che li rassicurasse. Perché se quello era un essere umano, in carne e ossa, come mai non si muoveva? In che modo riusciva a stare lassù, fermo, come librandosi in un cielo invisibile? Ci fu poi chi, guardando in alto verso il soffitto, ma stando sulla soglia, accortosi in tempo di quella presenza inquietante, non entrò, rimase lì per qualche secondo non osando avanzare. E uno dichiarò poi che Giovanni gli era parso davvero “morto” (qualcuno che lo conosceva molto bene, e non sapeva nulla di questa performance).
Morbin aveva scrupolosamente preparato la sua performance, fabbricando un bustino di gesso (rinforzato) che indossò per attenuare la pressione del suo stesso peso sul torace, permettendogli anche di respirare agevolmente. Aveva poi individuato i punti del suo corpo, e degli arti, dove inserire degli occhielli che sarebbero serviti, facendogli passare dentro del robusto filo di ferro, per agganciarsi a nove tasselli ben fissati al soffitto. Alcuni membri di Diogene, dopo aver installato nella stanza un trabattello munito di ruote, fissarono Morbin al soffitto, agganciandolo ai nove tasselli, e sarebbero stati loro stessi a intervenire alla fine della performance, circa due ore dopo, rimontando velocemente il trabattello per sganciare il performer, ovviamente giunto al limite della resistenza, dopo tanto tempo trascorso in condizioni così difficili, diciamo pure punitive. Lo stesso Giovanni Morbin, come convenuto in anticipo, fece un segno per farci capire che la sua resistenza stava venendo meno ed era quindi giunto il momento di farlo scendere da quella scomodissima posizione, lassù contro il soffitto.
Esiste un video che documenta tutta la performance, girato con una videocamera posta a poca distanza dal punto in cui si trovava Morbin, in modo tale da riprendere le reazioni di tutti coloro che entrarono nella stanza, a naso in sù, osservandolo. Perciò egli non compare nelle immagini, e la sua figura distesa, aderente al soffitto, è soltanto ricordata dai visitatori, avendo effettivamente una funzione strumentale: è il video1 il vero residuo rappresentativo dell’opera, che si può considerare in pratica essere stata realizzata da tutti coloro che, ignari di essere ripresi da una cosiddetta videocamera di vigilanza, vi compaiono. Per una volta, il pubblico convenuto per assistere a una performance annunciata scopriva di essere il vero performer, mentre quello ‘ufficiale’ serviva in pratica per attrarre tutti coloro che avrebbero, involontariamente e inconsapevolmente, preso il suo posto al centro della scena, così come verrà appunto documentato dal video. .

1: quella sera le immagini venivano diffuse in presa diretta da uno schermo allestito nella sala espositiva adiacente, insieme ad altre opere di una mostra collettiva.

[testo scritto nel mese di febbraio 2020, tratto dal libro “Allestire una mostra – e altre iniziative apparentemente inutili (storie di e/static e blank, 1999-2018)”, di prossima pubblicazione]

Giovanni Morbin, Lid, 2010 (i preparativi)