Come e perché ho scritto questi testi

Questo non è un libro sul cinema, nonostante la parola ‘film’ compaia nel titolo. E soprattutto, non nasce da un progetto, poiché non era mia intenzione fare qualcosa del genere quando iniziai, nel 20181, a scrivere, generalmente il giorno dopo aver visto un film, qualcosa sull’esperienza della sera prima, o di qualche sera prima, talvolta. Nel tempo, i testi si andarono pian piano accumulando, così da un certo momento in poi iniziai a pensare di raccoglierli per, infine, pubblicarli tutti insieme in un libro. Questa procedura è qualcosa di consueto per me, nel senso che non faccio mai realmente niente a partire da un progetto. Recentemente ho letto un libro che raccoglie tutte le interviste fatte a Robert Bresson (incidentalmente, uno dei maggiori protagonisti di questo libro, come chiunque lo abbia letto avrà potuto notare), il quale descrive spesso il suo modo di lavorare, con frasi come «Prima lavoro / faccio le cose, dopodiché penso», oppure «Non ho teorie, rifletto dopo il fatto. Prima faccio, e [poi] mi sorprendo». Ma forse quella che preferisco è «Un film dovrebbe essere qualcosa continuamente nascente. Una sorta di equilibrio si stabilisce nel corso del tempo». Ecco, Bresson descrive molto bene il mio stesso modo di fare le cose, un modo del tutto naturale, perché io sono così e non potrei agire diversamente.
In questo periodo, che copre all’incirca quattro anni, dal 2018 al 2022, questa consuetudine quotidiana è stata tale perché era la cosa che mi piaceva di più, e anche quella che mi riusciva di fare più facilmente, senza pensarci troppo, soprattutto senza troppi preparativi, e nessun tipo di compromesso. Per un insieme di circostanze, la mia vita era come se si concentrasse lì, in quell’ora e mezza circa, più raramente due ore o più, e tutto emergeva quindi, prima durante la visione, in modo inconsapevole, e dopo, scrivendone: pezzi della mia vita passata, riflessioni su altre cose che apparentemente non c’entravano molto col film, e poi, soprattutto fra il 2020 e il 2021, riflessi ed echi della mia vita in quel momento.
Credo che, dopo averci pensato per la prima volta, la convinzione che avesse senso pubblicare tutti – o quasi tutti – i miei testi su film che ho visto, sia nata, rafforzandosi sempre più con il passare del tempo, proprio quando mi accorsi che parlando di un film che avevo appena visto parlavo anche di me, della mia vita, soprattutto la mia vita in quel momento, senza peraltro esplicitare più di tanto questo aspetto. Infatti, quasi sempre, quando alludo a fatti che stavano avvenendo in quel periodo, e al loro effetto su di me, evito di descriverli con troppa chiarezza. Anche se io so, sapevo bene a cosa mi riferivo.
In massima parte quel che ho scrivo sui vari film è relativo a una visione solitaria, in casa mia, e non in una sala cinematografica (anche se emergono in alcuni testi, resoconti di visioni avvenute in quel contesto, risalenti a molti anni prima, generalmente). Sarebbe troppo lungo, e faticoso, spiegare perché ciò avviene, ovvero perché io non vada più, ormai da qualche anno, a vedere un film in un cinema. Ma è così, e dubito che in futuro ci sia un cambiamento; semmai, potrebbe accadere che veda meno film (al momento si può dire che non passi quasi mai una sera senza la visione di un film in formato video), se ad esempio la mia vita registrasse dei forti cambiamenti, ora come ora del tutto imprevedibili. Peraltro, l’intensità che segnava ogni esperienza di visione, e che mi spingeva a scriverne, ora, già da qualche tempo, si è un po’ affievolita, tanto è vero che l’ultimo testo, quello su Truffaut (i testi compaiono in ordine cronologico, perciò quello chiude l’antologia) risale, quasi esattamente, a quattro mesi fa [oggi è il 16 ottobre 2022, il testo risale al 17 giugno]. Dubito che ci sia mai stato, soprattutto negli anni di maggior frequenza dei testi – fra il 2019 e il 2021 – uno iato di tale ampiezza, e comunque, la mia sensazione è che difficilmente scriverò altri testi simili, in futuro. Ma poi chissà, non si può mai dire. Ad esempio un film rivisto ieri sera, un’opera considerata minore di Nicholas Ray, aveva alcuni momenti particolarmente intensi, sono tornato spesso a ripensarli, dopo averlo visto. Anche se finora non ho sentito quello stesso bisogno, quasi impellente, di scriverne.
Vorrei anche dire che, se pure io scrivo sempre di getto, mosso da un’urgenza e senza un piano troppo ben tracciato (anzi, spesso senza alcun piano), questi, a differenza di altre tipologie di testi, non li ho quasi mai modificati o corretti – a parte quando notavo qualche svista, o una ripetizione troppo vistosa – ma li ho sempre lasciati praticamente intatti, perché istintivamente percepivo il rischio di sciuparne la freschezza, se li avessi troppe volte riletti e sottoposti a verifica.
Ecco, ora non saprei più cosa scrivere su questo argomento, anzi, forse ho già detto troppo, e credo che mi convenga chiudere qui. È ancora Bresson a confortarmi nella mia convinzione, con una frase pronunciata nel corso di non so quale intervista pubblicata in quel libro: «Il ritmo di un film dovrebbe essere lo stesso della scrittura, di un cuore che batte». Perciò quando il battito comincia ad affievolirsi è giunta l’ora di smettere.

1 In verità, quello su Blow-up lo scrissi ancora prima, nel 2016, ma rimase un caso del tutto isolato per un paio di anni, e non pensavo, dopo averlo scritto, che sarebbe stato il primo di una serie. È proprio a partire dal 2018 che presi a scrivere con una certa frequenza su un film appena visto, o, come è spesso accaduto, ri-visto. Lo stesso testo sul Processo a Giovanna d’Arco, di Bresson, è ancora precedente (2015), e comunque è qualcosa di diverso da tutti gli altri, come appare con chiarezza a chiunque lo abbia letto. A voler essere molto precisi, al limite della pedanteria forse, avevo scritto molti anni prima qualcosa su un film di Kiarostami, Dov’è la casa del mio amico?. Ma quel testo, scritto a mano su un quaderno, probabilmente negli anni’90, quando vidi il film, non l’ho mai più ritrovato, purtroppo, e ad oggi ne conservo un ricordo molto vago.

Vite silenti fra l’erba

L’ampio prato, adagiato fra un filare di alberi d’alto fusto e una bassa collina boscosa, è stato evidentemente lasciato riposare, non vi sono colture particolari, niente soia, e nemmeno mais, così diffuso da queste parti. Solo erba vi si trova, di molte specie, tutta piuttosto bassa, con qualche fiore qua e là (quest’anno ha fatto molto caldo, ancora adesso, a metà ottobre, si superano quasi sempre i 20° nel pomeriggio). Non si vede nessuno nei dintorni, a parte qualche rara automobile sulla provinciale a circa trecento metri, c’è molto silenzio, si sente bene il fruscìo provocato, camminando, da scarpe e pantaloni. Ogni tanto un punto bianco a terra, fra l’erba, a volte sono in gruppetti di tre o quattro al massimo, ma non troppo vicini fra loro, quasi mai (a parte quando sono coppie unite, come gemelli siamesi). Sono funghi cosiddetti ‘prataioli’, sicuramente spuntati nella notte – i più bianchi, dalla forma circolare quasi perfetta – e continuando a camminare se ne incontrano molti: il sole è spesso velato dalle nubi, creando così una luce diffusa che li mette ancor più in risalto, piccoli cerchi bianchi sparsi nell’erba verde scuro. Si percepisce in loro una vitalità lenta eppur sicura, e serena, favorita dalla solitudine e dal silenzio del luogo, non si potrebbe mai urtarli, o staccarli da terra (uno o due si vedono in quello stato, forse un animale passando li ha urtati). Essi sembrano, anzi sono vivi, e traggono il massimo piacere dallo stare proprio lì, nel silenzio e nella solitudine. Presenze quiete e silenziose, timide, che soltanto in quel contesto possono, dopo essere spuntate nella notte, protette dall’erba umida, persistere sotto il sole. Trovandoli durante il cammino ci si sofferma ad osservarli, piegandosi un po’ per avvicinarsi a loro, ma con discrezione, senza neppure toccarli: così delicati come appaiono essere, è evidente che ne patirebbero. Non si vuole disturbare queste creature silenti, fragili, effimere, nemmeno con le parole, se non sussurrate. Si lasciano allora lì, dove sono nate e presto finiranno, e si fa ritorno in città. Di loro si porterà via soltanto il ricordo, persistente ben più a lungo della loro breve vita.

[ieri, 16 ottobre]

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tre testi del 2019 sull’Isola in città

Primavera sull’isola

L’isola circolare con il bosco sopra, che attraverso spesso durante le mie passeggiate, oggi appariva nel suo pieno splendore, con le piante ormai tutte rigogliose, e per chi ci stava sotto, seduto o in piedi, la sensazione di benessere era intensa. Il vento dei giorni scorsi ha pulito l’aria, che ancora risplende, e sotto le piante l’ombra crea un forte contrasto con la luce intensa del primo pomeriggio. Una ragazza che avevo visto poco prima mentre era ferma su una strada non lontano da qui, mentre chiacchierava con un uomo, è riapparsa all’improvviso, camminando lentamente; si è poi fermata nei pressi di una pianta delle più grandi e si è appoggiata al suo tronco, rimanendovi per qualche minuto a guardare verso il recinto eptagonale al centro dell’isola dove giocano i bambini, oggi particolarmente chiassosi, irresistibilmente felici.

(scritto il 20 aprile 2019)

Tre volte nel bosco

Per una serie di coincidenze, sono passato in largo Montebello tre volte nel giro di 24 ore, fra le 17:15 circa di ieri e le 17:45 di oggi. Ieri ero da S., quando stavo per uscire dal suo laboratorio si è messo improvvisamente a piovere, mentre gran parte del cielo era sgombra di nubi e c’era il sole. Sembrava che avesse smesso, così ho deciso di uscire, ma quasi subito ha ripreso a piovere forte, così mi sono fermato sull’isola al centro del largo, dove avevo individuato alcuni punti in cui il pavimento era ancora asciutto, perché lì la pioggia veniva evidentemente filtrata da molti strati di rami sovrastanti. Non ero il solo lì sopra, c’erano anche due ragazzi, che dopo aver temporeggiato per un po’, mangiucchiando da un sacchetto (forse patatine fritte) se ne sono andati, anche se la pioggia non aveva ancora smesso. Io ho resistito ancora a lungo, alla fine ci sono stato per circa un’ora, e quei due o tre minuscoli posti asciutti sono stati raggiunti a loro volta dalla pioggia, anche se lì ne arrivava un po’ di meno. Mi sono mosso quando sembrava che la pioggia calasse (falso allarme…) dirigendomi verso casa.
Stamattina sono passato di lì intorno a mezzogiorno, splendeva il sole, ma non c’era molta gente, per lo più bambini piccoli con i propri genitori. Si sentiva soprattutto la presenza di un uccello (che non ho saputo riconoscere), invisibile ma molto sonoro, che ha cantato per tutto il tempo (10 o 15 minuti) in cui sono rimasto lì seduto su una panchina. Si stava davvero bene, me ne sono andato soltanto perché era quasi venuta l’ora di pranzo.
Nel pomeriggio, poco dopo le 17:30, ero di nuovo lì, venendo da un negozio che si trova nei pressi. C’era molta gente, neanche una panchina libera, ma per quei pochi secondi durante i quali ho attraversato il boschetto sull’isola ho di nuovo percepito un’intensa sensazione di benessere. Stavolta ho notato quanto profonda fosse la penombra lì sotto (a quell’ora c’era un bel sole) e i volti delle persone si intravedevano appena. Immagino che chi si trovava lì a parlare con altre persone dovesse concentrarsi per vedere bene in faccia il suo (o i suoi) interlocutore, quindi tutto fosse lievemente rallentato. Sì, credo che il senso del trascorrere del tempo, per chi si trovava lì, fosse diverso da chi camminava fuori, più lento, e la parlata, così come l’ascolto, più misurati e attenti.

(scritto il 22 maggio 2019)

Cortei di bimbi verso l’isola

Un giorno d’estate (primi giorni di luglio) ero seduto su una panchina dell’isola quando vidi arrivare dalla strada a sinistra rispetto a dove ero io – quindi da SE – un insolito corteo. C’erano almeno 10/12 bimbi, i più grandi sui 4/5 anni, i più piccoli 2 anni o anche meno, accompagnati da due donne. Evidentemente i bimbi di un asilo, probabilmente privato (anche perché quelli pubblici in estate chiudono) accompagnati da due maestre. Una delle quali era piuttosto giovane, mentre l’altra, che guidava il corteo, doveva avere almeno 50 anni. Tutti erano collegati da una corda, piegata in due parti a metà, a cui ogni bimbo stava attaccato con una mano, mentre la maestra più anziana stava davanti, tenendo la corda nel punto di piegatura, e la più giovane in fondo, tenendone in mano i due capi. La maestra alla guida del gruppo si girava continuamente per tenere sott’occhio i bimbi, dicendogli spesso qualcosa, perché non mollassero la presa sulla corda e continuassero a camminare al passo con tutti gli altri, mentre quella in fondo a sua volta li sorvegliava, ma più discretamente. Il piccolo corteo non poteva passare inosservato, e tutti i presenti sull’isola in quel momento guardarono in quella direzione, incuriositi dall’apparizione. I bambini entrarono poi nel recinto dei giochi al centro della rotonda, riservato proprio a loro, e cominciarono, liberatisi della corda, a sciamare in tutte le direzioni, strillando e ridendo, chi direttamente verso giochi e altalene, chi semplicemente correndo intorno, per il puro piacere della libertà, lì dove nessuno dei pericoli incombenti al di fuori – prima di arrivare sull’isola, e poi anche dopo, prima di entrare nel recinto dei giochi – era più presente. C’erano già altri bimbi nel recinto, e si mischiarono agli ultimi arrivati, così lo schiamazzo aumentò di intensità, e l’aria sotto le chiome della alte piante si riempì di grida e risate. Le maestre facevano il loro lavoro, non perdendo mai di vista neanche un bambino, e intervenendo nelle situazioni più delicate, per sedare un battibecco, oppure per evitare che i più piccoli, soprattutto, rischiassero di farsi male per imprudenza.
Era meraviglioso tutto ciò, e non riuscivo a staccare gli occhi dal recinto, dove tante piccole cose – importantissime per i protagonisti – accadevano continuamente, ed era perfino impossibile seguirle tutte [Playtime di Tati]. Era evidente come per loro quel luogo avesse qualcosa di magico ed esprimevano la loro gioia per trovarcisi dentro con la massima spontaneità e senza mezzi termini, urlando, ridendo, correndo. Ma dovevo andarmene, per un impegno, così mi alzai dirigendomi verso la via a SO, passando però accanto al recinto, perché volevo vedere meglio, più da vicino, quei bimbi. Soprattutto d’estate, quando splende il sole, lì sull’isola c’è sempre una penombra, ma nel recinto essa è puntinata da piccoli raggi di luce che penetrano fra i varchi aperti fra le chiome sovrastanti. La luce che viene così a crearsi ha qualcosa di irreale, è come se quei raggi fossero accuratamente predisposti per illuminare la scena in quel modo unico, probabilmente ipnotico e incantatorio per chi si trova nel recinto. Ed essendoci su quasi tutto il suolo un materiale sintetico, morbido e fonoassorbente, non si sente quasi alcun rumore che non siano grida e risa dei bimbi. Mentre mi stavo allontanando, uno di loro mi si è rivolto per dirmi qualcosa sorridendo, con molta naturalezza, come se mi conoscesse, ma io non ho potuto capire bene le sue parole, e gli ho risposto annuendo e ricambiando il suo sorriso.

Tornando lì dopo circa mezz’ora – stavolta provenivo anch’io da SE – ho incontrato lo stesso corteo mentre tornava verso l’asilo, con la stessa formazione molto composta e organizzata, tutti attaccati alla corda. Ora la maestra più anziana parlava, o meglio cantava a voce abbastanza alta, una specie di canzone/marcia, con voce stentorea, scandendo le parole, faceva sentire la sua presenza ai bimbi rassicurandoli e incoraggiandoli a marciare tutti uniti. C’era qualcosa di strano nel suo comportamento, e in questo canto scandito, qualcosa che, io credo, piaceva ai bimbi, calamitando la loro attenzione e cementando la loro unione, mentre si ritrovavano, dopo l’uscita da quell’oasi, nel mondo pieno di insidie e di pericoli, del tutto ignoti e imprevedibili per loro. Ma non avevano bisogno di conoscerli, non sarebbe neppure servito a molto, e la maestra non gliene parlava, ma li teneva avvinti a sé attraverso quel canto prodigioso, a cui tutti si affidavano, rapiti, trovando così la strada sicura del ritorno.
C’era un forte senso di precarietà, fragilità, assoluta vulnerabilità, in quel gruppo di piccolissimi uomini e donne, io lo percepivo distintamente, soffrendone quasi, mentre li guardavo allontanarsi da me, seguendo fiduciosi le loro due maestre, una nonna e una mamma.

Qualche tempo dopo, ero di nuovo lì quando arrivò un altro gruppo di bimbi, questi più grandicelli degli altri. Ancora, il gruppo procedeva compatto verso il recinto dei giochi al centro dell’isola, ma senza alcun elemento tangibile, come la corda, a cui tenersi aggrappati, come gli altri. C’era apparentemente una maggior disciplina, mantenuta da una maestra che palesemente guidava tutto il gruppo, con un’autorità maggiore rispetto alle altre, due credo. Doveva avere almeno 35 anni, sembrava molto sicura di sé e controllava il movimento dei bimbi (forse una quindicina, se non di più) servendosi di ordini pronunciati a voce alta, impartendo precise regole a cui tutti i bimbi dovevano obbedire. Appena entrati nel recinto, subito, con mio stupore, li fece sedere tutti a terra, formando un cerchio, e ricordando loro – mi sembrò di capire – certe norme che dovevano avere appreso in precedenza, preparando la sortita dall’asilo (ma poteva anche essere una scuola, forse erano bimbi della prima classe elementare, iscritti a una scuola estiva). Intanto le altre due maestre si occupavano di sistemare lì intorno certe borse contenenti forse bicchieri e altro, probabilmente per uno spuntino di metà mattina. Mi allontanai da lì per certi impegni, tornandovi dopo circa mezz’ora, e loro c’erano ancora. Ora si sentiva, a volume abbastanza alto, musica ballabile, una cosa molto pop, corale credo, emessa da due altoparlanti (evidentemente portati anche quelli dalle maestre) e i bimbi, tutti bene organizzati, ballavano battendo le mani sopra la testa, unendosi al canto. Le persone presenti sull’isola in quel momento osservavano la scena, alcune di loro sorridendo compiaciute di assistere a quello spettacolo. Mi parve che i bimbi fossero stati portati lì per fare una cosa che avrebbero potuto fare in molti altri posti, quasi ovunque, ma quello non era proprio il luogo giusto. Per la maestra che guidava il gruppo, credo che la cosa più importante fosse tenerli occupati e irreggimentati, scongiurando eventuali rischi provocati dai soliti giochi molto liberi che tutti i bimbi fanno una volta entrati nel recinto. Non credo che fossero stati invitati ad apprezzare la singolare bellezza del luogo, la sua unicità, e mi sembravano quindi (forse esagero, ma non ne sono così sicuro) disadattati, collocati lì come oggetti, sia pure vivi, mobili e parlanti, per fare cose che piacessero anche a loro, ma soprattutto alle maestre e agli altri adulti presenti in quel momento. Magari non ancora disadattati, ma già incamminati / preparati a diventarlo, da grandi: già abituati a eseguire ordini, e a fare cose che altri avevano deciso, in vece loro, che avrebbero fatto. Non mi sembravano liberi e spensierati, gioiosi, come gli altri, quelli attaccati alla corda prima di arrivare sull’isola e dopo esserne usciti. Tutto ciò mi sembrò piuttosto penoso, perciò, sentendomi molto a disagio, me ne andai subito da lì, senza più voltarmi indietro.

(scritto il 2 agosto 2019)

Un luogo perduto

Questi tre testi li ho scritti circa un anno dopo Un’isola in città (pubblicato su Vita in città), e si riferiscono allo stesso luogo. A quell’epoca lo frequentavo ancora spesso, era un passaggio per me obbligato quando dovevo andare in centro (anche perché l’altra possibilità, un incrocio sullo stesso corso, è scomodo e anche pericoloso da attraversare), oppure andando o tornando dal laboratorio di S., una consuetudine che ho smesso da circa due anni e mezzo.
In questo periodo tante altre cose sono cambiate in modo radicale, ad esempio non vado neppure più, quasi mai, in centro, una zona della città che ora mi appare infida, o addirittura ostile, in cui mi trovo a disagio. Lo stesso luogo è cambiato, divenendo a sua volta meno accogliente per me, quasi estraneo, rispetto a quell’epoca.
Sì, è entrata in vigore una nuova viabilità, non si circonda più completamente la rotonda, ma soltanto in parte, in due diverse direzioni. Ma le case intorno sono sempre le stesse, così le piante che ci stanno sopra, intatte, e le stesse persone che la frequentano, per lo più abitanti nella zona, sono più o meno le stesse. Ora però quel luogo non esiste più, è soltanto un ricordo, e posso ritrovare quella certa atmosfera, ormai perduta, soltanto rileggendo questi quattro testi.

Riti religiosi

… i riti religiosi con i quali l’uomo crede di conciliarsi la natura, diventati troppo numerosi e troppo complicati per essere conosciuti da tutti, diventano il segreto e di conseguenza il monopolio di alcuni sacerdoti; il sacerdote dispone allora, benché si tratti solo di una finzione, di tutte le potenze della natura, e in nome loro comanda. Nulla di essenziale è cambiato per il fatto che questo monopolio non consiste più in riti, ma in procedimenti scientifici, e coloro che lo detengono si chiamano scienziati e tecnici piuttosto che sacerdoti.

La scienza è un monopolio non a causa di una cattiva organizzazione dell’istruzione pubblica, ma per la sua stessa natura: i profani hanno accesso soltanto ai risultati, non ai metodi, cioè possono solo credere e non assimilare.

Tutta la nostra civiltà è fondata sulla specializzazione, la quale implica l’asservimento di coloro che eseguono a coloro che coordinano; e su un simile fondamento non si può che organizzare e perfezionare l’oppressione, di certo non alleviarla.

da: Simone Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, 1934
(traduzione italiana di Giancarlo Gaeta)

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Il presente

Il presente è uno di quei periodi in cui svanisce quanto normalmente sembra costituire una ragione di vita e, se non si vuole sprofondare nello smarrimento o nell’incoscienza, tutto va rimesso in questione. (…) Quanto al progresso scientifico, non si vede bene a che cosa possa servire accatastare ulteriormente conoscenze su un ammasso già fin troppo vasto per poter essere abbracciato dal pensiero stesso degli specialisti, e l’esperienza mostra che i nostri antenati si sono ingannati credendo nella diffusione dei lumi, poiché non si può divulgare fra le masse che una miserabile caricatura della cultura scientifica moderna, caricatura che, lungi dal formarne la capacità di giudizio, le abitua alla credulità. L’arte stessa subisce il contraccolpo dello smarrimento generale, che la priva in parte del suo pubblico, e con ciò stesso lede l’ispirazione. (…) Viviamo in un’epoca priva di avvenire. L’attesa di ciò che verrà non è più speranza, ma angoscia.

da: Simone Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, 1934
(traduzione italiana di Giancarlo Gaeta)

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