Si dice che chi sta per morire, soprattutto in caso di morte violenta, come per un incidente, quando capisce che sta arrivando velocemente e senza scampo la fine, riveda tutta la sua vita trascorsa in quei pochi istanti prima di chiudere per sempre gli occhi. Poco fa credo di aver capito, per la prima volta, cosa significhi questa cosa, e soprattutto mi sono convinto della sua veridicità, di quanto sia del tutto plausibile che ciò accada. Mi sono infatti reso conto di una cosa: ogni giorno, continuamente, anche quando non ne sono consapevole, io ripenso alla mia vita passata, essa è sempre presente in me, anche se non ci penso davvero (ovvero, se non ci penso direttamente e consapevolmente). A momenti me ne rendo bensì conto, ritorno col pensiero a un certo episodio lontanissimo nel tempo, rivedo le facce di certe persone a me vicine, che spesso non vedo più da molti anni (perché magari sono morte nel frattempo), torno ad ascoltare le loro voci, rivedo me stesso in una certa situazione, la rivivo. Ma anche se non è così, anche se non ne sono consapevole, io sono sempre ancora là, in tutti quei luoghi dove ho vissuto la mia vita, ancora in presenza di quelle persone, mentre sto compiendo azioni che risalgono a molti anni prima: torno, oppure continuo a compierle, ed è come se cercassi di modificarle, quando mi sono pentito di averle fatte, di aver detto quelle parole. È come se tutto fosse ancora in gioco, incompiuto e quindi perfettibile, e anche se so bene che non è così, non può esserlo, non posso fare a meno di dedicarmi senza sosta a questa attività segreta, non rivelabile ad alcuno, che a ben pensarci è la mia stessa coscienza, io sono in questa attività, io sono questa attività.
In quei momenti niente potrebbe più distrarci da essa, e ovviamente la certezza, percepita, che ci restano ancora soltanto pochi attimi, comprimerebbe il tempo e la memoria, in maniera tale da permetterci di condensare in essi tutta una vita.
Quando finalmente tutto sarà, sarebbe, davanti ai nostri occhi, per la prima e ultima volta.
Archivio mensile:novembre 2022
La mosca sul Monviso

L’altro giorno, mentre stavo dando un’occhiata al sito di e/static, mi accorgo che una certa immagine ha un difetto, una specie di macchiolina, e mi infastidisco un po’, dato che non so usare photoshop, quindi o la eliminavo, oppure me la sarei dovuta tenere così per sempre (il sito è prossimo ad essere, finalmente, ‘congelato’, diventando archivio a tutti gli effetti, non più modificabile). Guardando meglio, ho visto che non era una macchiolina, bensì una mosca, o meglio, un moscone, appoggiato su un vetro della finestra, in una posizione tale da farlo apparire più in alto della punta del Monviso sullo sfondo. Così sono andato a recuperare il file originale, per poterlo ingrandire e vedere bene il moscone, la cui presenza lì in quel punto trasforma l’immagine da quasi banale, nella sua icasticità (quel Monviso maestoso e solenne che pare fluttuare nell’aria a un km dalla casa di Sonia Rosso) a un qualcosa di veramente prezioso, un momento irripetibile di cui non credo mi fossi accorto mentre scattavo la fotografia, quasi dieci anni fa.
La mosca, anche se ci vuole molta attenzione per rendersene conto, una volta individuata come tale, aguzzando lo sguardo, immediatamente ruba la scena al Monviso. Che poi, a dirla tutta, non gliene poteva fregare di meno a nessuno dei due: alla mosca di sicuro, e men che meno al Monviso.
[testo di una mail a un’amica, scritta il 15 aprile 2022]
Elogio di Francis Fredrick von Taschlein

Frank Tashlin ha diretto diversi film con Jerry Lewis, ma ancora prima aveva fatto (ossia diretto dopo averli disegnati) moltissimi corti animati delle serie Merrie Melodies e Loony Tunes, giustamente celebri. Questo background emerge spesso nel suo lavoro come regista di lungometraggi (feature films), che svolse nella seconda parte della sua carriera nel cinema, fra i primi anni ’50 e la fine dei ’60, soprattutto, appunto, nei film con Jerry Lewis. Recentemente ne ho rivisto uno,The Geisha Boy, in italiano, curiosamente, Il ponticello sul fiume dei guai1. Si nota, per prima cosa, la cura dell’inquadratura, che è sempre un po’ squilibrata, apparentemente, ma in realtà ben bilanciata, e pure, nello stesso tempo, quasi sbilenca, ripudiando ogni tentazione di simmetria e di staticità, e riuscendo così ad ottenere miracoli con il nuovo, per l’epoca, formato, con base decisamente più lunga dell’altezza, diversamente da ciò che accadeva con il 4:3. Il fulcro dinamico dell’azione non è mai al centro, oppure quando c’è – come l’inquadratura con il baule, alla fine – gli elementi di contorno (ammesso che abbia senso parlare di contorno nell’inquadratura tipica di questo autore) sono disposti in modo da ‘squilibrarla’, scongiurando così il rischio di avere un’immagine piatta e statica.
Poi, il colore di tutti gli elementi, costumi degli attori compresi, ovviamente: essi vengono scelti accuratamente, in modo da creare inquadrature vive, dinamiche, in cui l’attenzione non è ostinatamente costretta a dirigersi sull’attore protagonista, o sugli attori protagonisti2. Il film che ho appena rivisto, e molto apprezzato – una visione che mi ha veramente procurato un genuino piacere – è del 1958, e guardandolo, e notando questa caratteristica, ho subito pensato a certi film di Kaurismaki, come Nuvole in viaggio, L’uomo senza passato e altri, che mostrano chiaramente una particolare attenzione del regista nella scelta degli arredi e dei loro colori, molto simile a quella di Tashlin. Ma anche nei film a colori di Ozu (all’incirca negli stessi anni dei film di T. con Lewis), soprattutto gli ultimi, accade un po’ la stessa cosa; e mi viene ora in mente quel che ha fatto Bresson nei suoi film a colori, soprattutto Così bella, così dolce e L’argent.
Analogo il lavoro su tutti gli elementi che concorrono a formare un’inquadratura, scelti sempre con la massima accuratezza (anche qui, come gli stessi autori citati prima) e disposti in maniera tale da ottenere gli stessi effetti perseguiti con i colori; ovvero, essi tendono tutti ad assumere la stessa importanza degli attori, e contribuiscono all’ottenimento di quel certo effetto dinamico e di ‘sbilanciamento controllato’. C’è una scena che io trovo bellissima all’inizio di The Geisha Boy, quando Jerry si muove carponi lungo il corridoio dell’aereo, e mentre lui si vede sempre intero, o quasi, ogni tanto compaiono, in primo piano o dietro di lui, pezzi di corpi appartenenti agli altri passeggeri, tutti dormienti. Si vedono soprattutto gambe e piedi, qualche testa, e queste membra paiono staccate dai corpi a cui appartengono, quindi utilizzate dal regista per comporre l’inquadratura. È un po’ la tecnica del collage, e credo proprio che sia stata affinata da Tashlin nel suo lungo periodo di lavoro nel cinema di animazione, quando componeva le inquadrature, e quindi le sequenze, giustapponendo parti di personaggi e di cose, ognuna con un colore ben diverso, e scelto per combinarsi con gli altri senza appiattire l’immagine, bensì vivacizzandola3.
Talvolta – e sono momenti che mi hanno particolarmente elettrizzato l’altra sera – sono gli stessi abiti, o costumi, degli attori a prevalere sullo stesso, anche se si tratta del protagonista, che è poi Jerry Lewis, uno che davvero riempiva lo schermo e non poteva passare inosservato, calamitando tutta l’attenzione sulle sue mosse ed espressioni. Penso soprattutto a una sequenza (credo sia quella in cui si presenta al cospetto del maggiore, che lo scaccerà dalla tournée, dopo le tante sue, sia pure involontarie, malefatte) in cui Lewis indossa una stupefacente giacca rosso cupo in lamé, un capo veramente molto bello, al punto di attrarre irresistibilmente la mia attenzione, quasi ignorando l’attore.

Peraltro, Jerry Lewis è Jerry Lewis, campione della smisuratezza (peraltro, sospetto, appresa, o quanto meno coltivata proprio lavorando tante volte con Tashlin) e non può mai essere del tutto ignorato, neanche in un film come questo, esempio riuscitissimo della particolare metodologia di Tashlin, volta, come detto, a ‘democratizzare’ (ovvero, a ricomporla, appunto, ‘democraticamente’, senza quasi rispettare alcuna gerarchia precostituita, dopo averla destrutturata) ogni inquadratura, e quindi la sequenza di cui fa parte. Ma le sue smorfie e le sue movenze sono un retaggio del cinema muto – Lewis adorava Stan Laurel4, ne studiò ogni mossa di ogni suo film – così come la tecnica di Tashlin, con l’uso ricorrente della cosiddetta sight gag (una scena che fa ridere mostrando situazioni soltanto visive, spesso senza parlato)5 deriva a sua volta dal cinema muto oltreché dalle sue esperienze in quello di animazione. E anche perciò si può dichiarare, senza alcun timore, che questo è un grande autore cinematografico, insomma uno di quelli che riuscirono a liberare sempre più quest’arte dagli iniziali condizionamenti del teatro arrivando a definire le modalità stilistiche che sono sue proprie, del cinematografo, anche se tante e tante volte, nel corso della sua già lunga storia, ci fu chi volle ritornare a scimmiottare quel tipo di espressione, smettendo così automaticamente di fare vero cinema ma piuttosto del ‘teatro filmato’6.
Infine, non credo che nessuno si possa stupire sapendo che Jean-Luc Godard era un ammiratore veramente sfegatato del cinema di Tashlin (e poi di quello del suo allievo Lewis, i primi film che fece, all’inizio degli anni ’60), considerandolo un autentico maestro, sia pure ‘minore’, di quest’arte. E indubbiamente la sua maestria nella costruzione di ogni inquadratura, attraverso la scelta accurata, e mai banale, di tutte le componenti – collocazione degli oggetti e degli stessi attori, con una particolare attenzione nella scelta di tutti i colori, adozione di angolature di ripresa spesso inusitate – è innegabile, e salta particolarmente agli occhi in un film come The Geisha Boy.
1. Ma con ragione, essendo il celebre film di David Lean, Il ponte sul fiume Kwai, uscito nelle sale un anno prima, ripetutamente citato, in vari modi.
2. In questo modo essi vengono ‘declassati’ e portati al livello di tutti gli altri elementi, che diventano a loro volta protagonisti: una oggettiva ‘democratizzazione’ dell’inquadratura, e quindi dell’intera pellicola, con qualche comprensibile eccezione (se hai Jerry Lewis, o Bob Hope, nel tuo film, devi tenerne conto e dar loro comunque il giusto risalto).
3. Un altro evidente legame con il cinema d’animazione creato da Tashlin per molti anni, con le tante Merrie Melodies e Looney Tunes, è la presenza del coniglio bianco, utilizzato generosamente lungo tutto il film per creare situazioni tipiche di quel cinema. In molte di esse Harry sembra uno di quei personaggi, improvvisamente diventato ‘vero’.
4. Incidentalmente, Tashlin, agli inizi della sua carriera, ancora negli anni ’30, scrisse la sceneggiatura di un corto di Laurel and Hardy.
5. Anche in questo film esse abbondano, soprattutto molte di quelle in cui appare Harry, il coniglio – che poi si rivelerà essere una coniglia (“Hey, you’re not a Harry; you’re a Harriet!”).
6. Robert Bresson, in molte delle sue interviste (vedi Bresson su Bresson) batte su questo punto, sul cinematografo che non è teatro filmato, e deve essere realizzato in modo del tutto diverso, a tutti i livelli, compresa ovviamente la recitazione degli attori.
la vita vera
Rimbaud si lamentava perché «noi non siamo al mondo» e perché «la vita vera è assente»; in quei momenti di gioia e di pienezza incomparabili si sa a sprazzi che la vita vera è lì, si prova con tutto il proprio essere che il mondo esiste e che si è al mondo.
da: Simone Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, 1934
(traduzione italiana di Giancarlo Gaeta)
faccia a faccia
In Tools for Conviviality, uno degli esempi che Illich porta è il modo in cui la lingua viene logorata e svuotata di senso, nella sua adozione a fini istituzionali: nella grande impresa [corporation] con la sua infinita iterazione e reiterazione di missioni, visioni, principii e valori, ma anche nel giornalismo, in politica e nelle professioni, le parole sono plasmate per fini strumentali, finché, alla fine, quasi non ne resta nemmeno una che non introduca automaticamente chi parla in un qualche discorso preformato o non si appelli a qualche autoritario verdetto periziale. Illich voleva difendere quel che restava della autodeterminazione della gente, ripristinare il dialogo faccia a faccia in parole non predefinite da consiglieri professionisti, e fare dell’espansione della libertà – e non della crescita dei servizi – il criterio del progresso civile.
David Cayley, in I fiumi a nord del futuro. Testamento di Ivan Illich; raccolto da A. Cayley
(traduzione di Milka Ventura Avanzinelli)
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