La distalità

Questo computer qui sul tavolo non è uno strumento; gli manca una caratteristica fondamentale rispetto a quello che nel XII secolo venne scoperto come strumento: la “distalità” fra l’utente e l’oggetto usato come attrezzo. Un martello, posso prenderlo o lasciarlo, questo non mi rende parte del martello. Il martello rimane lo strumento di una persona; ma il sistema no. In un sistema l’utente, il manager, diventa – logicamente, secondo la logica del sistema – parte del sistema stesso. Come mi disse Heinz Von Forster, la prima volta che cominciammo a parlare di queste cose, trent’anni fa, un uomo che porta a passeggio un cane è un sistema uomo-cane – un cyborg, si direbbe oggi.

Da I fiumi a nord del futuro. Testamento di Ivan Illich, raccolto da David Cayley.
(traduzione di Milka Ventura Avanzinelli)

Pubblicato in post

Sotto cieli oscuri

Un manufatto – è questione di mani. E quelle mani poi appartengono soltanto a un uomo, cioè a un’unica mortale creatura, la quale con la voce e con il suo silenzio cerca di aprirsi una strada.
Solo mani veraci scrivono poesie veraci. Io non vedo nessuna differenza di principio tra una stretta di mano e un poema.

Le poesie, sono altresì dei doni – doni per chi sta all’erta. Doni che implicano destino.

Viviamo sotto cieli oscuri, e – di uomini ce n’è pochi. Proprio per questo ci sono anche così poche poesie. Le speranze che ho ancora non sono grandi; cerco di tenermi in serbo quanto mi è rimasto.

Paul Celan, da Lettera a Hans Bender, Parigi, 28 maggio 1960 (tr. di Giuseppe Bevilacqua)

(notizie dall’esilio /12)

Pubblicato in post

La iatrogenesi

Oggi la gente considera gli ospedali come una realtà scontata e tende a dimenticare che, fino a circa centoventi anni fa, gli ospedali erano luoghi dove si mettevano le persone quando dovevano morire. L’idea che si vada in ospedale per farsi riparare e poi essere rispediti a casa è una novità. La gente resta ancor più sorpresa quando la informo che l’antichità non conosceva niente di simile agli ospedali. [I. I.]

Il libro [Medical Nemesis] si apre con una drammatica affermazione – «la classe medica è diventata una grave minaccia per la salute» – e prosegue poi analizzando i vari modi in cui l’egemonia medica depotenzia [disables] i propri pazienti, disfacendo il loro coraggio e la loro capacità di guarire, di soffrire, e di morire. [D. C.]

La iatrogenesi sociale è all’opera quando la cura della salute si trasforma in un articolo standardizzato, un prodotto di consumo; quando tutte le sofferenze sono “ospedalizzate” e le case diventano inospitali per la nascita, la malattia, la morte; quando la lingua in cui le persone potevano fare esperienza dei propri corpi si trasforma in un burocratese incomprensibile [gobbledegook]; o quando sofferenza, lutto e guarigione al di fuori del ruolo di paziente sono etichettate come una forma di devianza. [I. I., da Medical Nemesis]

Per chiunque studi seriamente la storia, l’enigma più grosso è proprio questo: come noi oggi si possa vivere con quello che, agli occhi delle persone di tutti i tempi e luoghi precedenti, sarebbe stato considerato una brutalità spietata e un assoluto nonsenso. [I. I., a proposito dei trapianti di organi]

Ancor più sorprendente, dal punto di vista di Medical Nemesis, è la cronicizzazione di ciò che Illich chiama «iatrogenesi culturale», dato che la gente rincorre ossessivamente immagini della salute definita in termini medici, e sempre crede di vedere effettivamente se stessa negli specchi deformanti della medicina del monitoraggio, dello screening e dell’accertamento del rischio. [D. C.]

[Illich] Credeva infatti che la crescente enfasi sul calcolo del rischio in medicina costituisse l’estrema disincarnazione della persona, perché la spinge a pensarsi non come individuo unico, ma come membro di una classe astratta sulla quale è possibile operare un calcolo delle probabilità. [D. C.]

[Illich] Aveva scritto in Medical Nemesis che la civiltà medica cerca di «abolire il bisogno di un’arte del soffrire» e produce «un progressivo appiattimento della prestazione virtuosa personale». [D. C.]

Per finire, Illich prende in considerazione la iatrogenesi culturale, che «s’instaura quando l’azienda medica mina la volontà della gente di sopportare la propria realtà»; e qui sostiene che il trattamento medico incondizionato toglie alla sofferenza e alla morte il loro senso, e scardina le tradizioni culturali che una volta permettevano alla gente di affrontarle con dignità. Il libro [Medical Nemesis] si chiude con un appello a «contromisure politiche» che contengano e limitino l’egemonia medica, altrimenti, dice, la vita finirà per diventare così medicalizzata da equivalere a «una sopravvivenza coatta in un inferno progettato e pianificato». [D. C.]

Da I fiumi a nord del futuro. Testamento di Ivan Illich, raccolto da David Cayley
(traduzione di Milka Ventura Avanzinelli)

(notizie dall’esilio /11)

Pubblicato in post

Nella catastrofe

Tutto si è incupito, questa stagione esige la massima disciplina, bisogna mantenere il controllo e cavarsela.

Thomas Bernhard, Il mantello di loden (tr. di Giovanna Agabio)

(notizie dall’esilio /10)

Pubblicato in post

Gertrud

In “Gertrud”, il suo ultimo film, Dreyer, servendosi di prodigiose, lievissime carrellate, e qualche zoomata altrettanto leggera e lenta, quasi impercettibile, assecondate, queste e quelle, dai movimenti degli attori, fa meraviglie con uno specchio; che ha una ricca cornice dorata ed è affiancato da due candelabri, appeso a una parete altrimenti nuda, astratta, anche piuttosto in alto, e lievemente inclinato verso il basso. Intorno ad esso, al suo cospetto, è come se i personaggi agissero le movenze di un rituale, soggiogati dalla sua presenza solenne e altera. Lo aveva donato alla stessa Gertrud l’antico suo amante, il poeta ‘laureato’ Gabriel, perché lei potesse, specchiandovisi, confrontarsi con la sua stessa bellezza. Sono passati sette anni, i due si rivedono, conversano per diversi minuti lì nei pressi dello specchio, che ora è bensì testimone della definitiva morte del loro rapporto. Che pure la sancisce, con la sua presenza austera e noncurante, per lo più vuoto, ma talvolta occupato, al suo centro, dalla figura di Gertrud, che si tiene a una certa distanza mentre conversa con Gabriel. Lo specchio è ovviamente una soglia, oltre la quale parrebbe risiedere una realtà altra, sognata, che di quando in quando sembra potersi intravedere, pure del tutto inaccessibile, e forse perduta. Nello spazio al di qua, la stasi, l’immutabilità dei rapporti fra i vari rappresentanti della rigida e altera società alto-borghese della Danimarca: i personaggi vi si muovono con estrema lentezza, inespressivi, spesso senza neppure guardarsi negli occhi mentre conversano (Gertrud, nella scena iniziale col marito, quando infine gli rivelerà la sua volontà di lasciarlo, lo guarda, rare volte, soltanto quando si trova alle sue spalle, e lui non può vederla). Il film è quasi tutto in interni, e l’unica parte in esterni risulta altrettanto soffocante e opprimente, trattandosi di un giardino, appunto, borghese, ordinato e artificiale, pur contenendo elementi naturali, come alberi e acqua (di un piccolo lago). Quando seguiamo i personaggi all’interno delle loro case – che sono spoglie, fredde ancorché eleganti – spesso essi superano soglie, passano di stanza in stanza, ma non si vede mai una vera uscita verso l’esterno, fatta eccezione per la parte in cui lei entra dal giovane amante musicista, dove una grande finestra coperta da un tendaggio emana una luce fortissima, poco meno che accecante. È una presenza ambigua, apparentemente positiva e vitale, rispecchiando lo stato d’animo di Gertrud, ma anche ostile, come se il mondo esterno, il mondo naturale, della libertà, da cui essa proviene, fosse precluso ai personaggi, soprattutto a lei, e quella finestra una barriera che impedisce di accedervi (forse perciò è interamente coperta da una tenda che impedisce di vedere fuori). Una luce poco meno intensa, quasi irreale, si vede appena prima, quando lei percorre un corridoio che conduce alla porta dell’alloggio di Erland, il giovane amante: qui lei sembra davvero felice, è ancora ignara di quel che verrà di lì a poco, e quella luce corona e rappresenta il suo stato d’animo.
Tornando allo specchio, esso costituisce l’unica soglia fluida, virtualmente valicabile, fra due mondi diversi, mentre tutte le altre, quelle fra le stanze, si succedono senza una vera soluzione di continuità, senza cioè permettere ad alcuno di uscire da quegli ambienti claustrofobici. Fa eccezione quella che lei varcherà subito dopo lo scatto d’ira del marito (unica concessione, in tutto il film, all’emotività), per abbandonarlo definitivamente e andare a Parigi dal fedele amico Axel. Che vedremo, nell’ultima parte del film (che si svolge più di trent’anni dopo i fatti precedenti), avviarsi lentamente, con passo regolare, compostamente, verso un’altra uscita, anche questa definitiva, perché dopo i due amici non si rivedranno mai più. Su quella porta, chiusa, dopo una breve zoomata all’indietro, finisce il film.
Gertrud è intransigente, sa ciò che vuole – tutto, niente di meno– cerca di averlo, e quando capisce di non poterci riuscire, se non a prezzo di compromessi che la perderebbero, preferisce rinunciare, scegliendo la solitudine, la lontananza dal mondo, infine la serena preparazione al trapasso. Un personaggio eroico, esemplare, difficilmente emulabile, come tutto questo film straordinario, veramente unico, di una qualità inarrivabile.
Dreyer morirà poco meno di quattro anni dopo l’uscita di “Gertrud”.