Sono rimasto sorpreso, ieri sera, nel vedere, e apprezzare, il primo degli otto cortometraggi che compongono “Ten minutes older: the cello”. Histoire d’eaux, così si intitola, è di Bertolucci, che io non ho mai molto amato, anzi, una volta uscii dal cinema alla fine del primo tempo di un suo film (“Io ballo da sola”) perché ci riusciva – a me e a chi era con me – insopportabile. Questo no, l’ho visto con interesse, la storia, ambientata nell’attualità del 2001, è antica, antichissima, si ritrova in testi sacri induisti e buddisti, ed ha la stessa struttura che utilizzò Scorsese nel suo film su Cristo, alla fine, quando lui è sulla croce. Intere vite alternative si svolgono davanti ai nostri occhi e alla fine si rivelano improvvisamente illusorie, e così il protagonista si ritrova nel punto da cui era partito, perché soltanto pochi minuti, perfino pochi attimi, erano in effetti trascorsi1. Oppure, altrove, si accorge improvvisamente che una normale passeggiata breve, questione di qualche ora oppure un viaggio di pochi giorni, erano durati decine di anni, e lì dove ritorna, lui o lei sempre giovane, sono tutti morti i suoi contemporanei, introvabili ormai2. Molti autori hanno scritto storie così, sul tempo che si dilata e si restringe come una spugna stretta in una mano, anche nel cinema abbondano. Ovviamente, si pensa subito a “La Jetée”, e non a caso a Chris Marker è dedicato tutto il film ad episodi. Che, a differenza dell’altro, “Ten minutes older: the trumpet”, non mi è piaciuto molto, anzi, mi ha piuttosto depresso, perfino l’episodio di Godard, magistrale, alla fine, è più deprimente che stimolante (purtroppo non riesco a guardare quelle immagini dai lager, a cui mi sembra G. ritorni spesso), mentre gran parte degli altri li ho trovati artificiosi e opachi.
Devo dire che a me interessa particolarmente la fortissima somiglianza di certe storie ad altrettanti sogni – ovvero, esse sembrano proprio sogni, così come i sogni ci appaiono spesso come realtà, mentre li stiamo sognando e anche dopo. Soprattutto in quello di Bertolucci si allude, mi sembra, anche a una dimensione onirica, che è esattamente ciò che accade in “La donna del ritratto / The woman in the window”, di Fritz Lang, rivisto qualche sera fa. Non ricordavo (o meglio, non ci avevo fatto troppo caso la prima volta) la straordinaria sequenza verso la fine, quando E.G. Robinson prima sembra morirci davanti agli occhi, dopo essersi avvelenato, poi li riapre, ridestandosi da un terribile sogno, durato per quasi tutto il film, a partire da quando – come apprenderemo poi – si era assopito dopo aver cenato con gli amici, fino al suo risveglio. L’inquadratura non cambia, semplicemente c’è una lenta zoomata sul volto di Robinson, che alla fine occupa quasi tutto lo schermo, i contorni dell’immagine invece appaiono come sfocati. In quei momenti, alla velocità del fulmine, la troupe tecnica di Lang sostituiva gli arredi della scena, l’appartamento del professor Wanley, con quelli del circolo, così quando lui viene risvegliato dal premuroso maggiordomo si ritrova proprio lì, con il Cantico dei cantici (libro scelto, fra gli innumerevoli possibili, con grande acutezza) ancora aperto sulle sue ginocchia, vivo, e non più dove l’avevamo visto morire pochi secondi prima.
All’epoca, e credo ancora per molto tempo, si disse che il cinico Lang avesse dovuto escogitare la soluzione onirica perché in qualche modo costrettovi da certi codici puritani vigenti a Hollywood, che obbligarono molti registi a modificare i propri film, per lo più con finali alternativi, più consolatori e rassicuranti. Certamente, se il film finisse con la morte del protagonista sarebbe stato terribile, dato che, a sua insaputa, tutto si era risolto per il meglio e non avrebbe più dovuto temere di essere incastrato dalla polizia per il delitto (un omicidio per legittima difesa, peraltro) compiuto all’inizio. Ma Lang smentì questa versione, l’idea fu sua, e io ci credo, anche se, apparentemente (invero, tutto avviene proprio così, davanti ai nostri occhi il rispettato professore si dimostra disponibile a compiere azioni quanto meno discutibili, dal punto di vista etico), contraddice il suo cinismo solito, la sua assoluta sfiducia nell’uomo, nella sua bontà, lealtà, moralità. In effetti, questa soluzione, oltre ad essere del tutto sorprendente e inattesa, gli permise anche di escogitare quel trucco magistrale, che ancora adesso, a vedere il film, affascina ed entusiasma. Ed è anche brillante l’idea di svelare come almeno due dei protagonisti del sogno – i più negativi, l’uomo che stava per ucciderlo e che invece ucciderà e il laido ricattatore – avessero esattamente le sembianze di due dipendenti del circolo, l’addetto al guardaroba e il portiere: Wanley li guarda dapprima stupito, e un po’ turbato, per poi sciogliersi in sorrisi e parole cordiali per entrambi, sollevato.
In questo film insomma, come in innumerevoli altri (mi viene ora in mente “L’invasione degli ultracorpi”) la dimensione onirica è temuta per la sua immane potenza di creare situazioni assolutamente verosimili in cui veniamo a trovarci nel sonno, e alle quali spesso – se si tratta di un incubo – temiamo, mentre le viviamo, nel sogno, di non poterci più sottrarre. Sensazione che spesso perdura anche dopo il risveglio, quando impieghiamo, talvolta, qualche tempo prima di poterci convincere che ne siamo fuori, scampati al pericolo, di nuovo liberi, gli stessi di prima, rientrati nella stessa realtà che avevamo lasciato prima di addormentarci. Quel che capita anche al personaggio interpretato da E.G. Robinson nel bel film di Lang, forse non del tutto rassicurato riconoscendo negli innocenti dipendenti del circolo i più inquietanti personaggi del suo recente sogno, e realmente terrorizzato quando vede apparire, riflessa nella vetrina, alla fine, una figura di donna molto somigliante alla Joan Bennett del sogno. Perciò non può fare a meno di fuggire da lei, quasi correndo.
[scritto il 4 marzo 2021]
ps: recentemente – circa tre mesi dopo aver scritto questo testo – ho potuto vedere, per la prima volta, il secondo film di Bernardo Bertolucci, “Prima della rivoluzione”, uscito nel 1964, ma girato nel 1963, quando aveva 22 anni. Il film mi è piaciuto, credo sia il suo migliore, sicuramente il più importante, per diversi motivi. Ebbene, a un certo punto uno dei personaggi principali, interpretato dall’attrice Adriana Asti, racconta agli altri due proprio la stessa storia che Bertolucci metterà in scena quarant’anni dopo, nel cortometraggio Histoire d’eaux, che farà parte del progetto collettivo “Ten minutes older”.
1: molti anni prima di vedere il film di Scorsese lessi il racconto di Ambrose Bierce An Occurrence at Owl Creek Bridge (scritto nell’800), imbattendomi per la prima volta in un simile stratagemma narrativo.
2: vedi il celebre racconto di Washington Irving Rip Van Winkle, e l’antica leggenda giapponese Urashima.