Non è più possibile l’ingannarci o il dissimulare. La filosofia che ha fatto conoscer tanto che quella dimenticanza di noi stessi ch’era facile una volta, ora è impossibile. O la immaginazione tornerà in vigore, e le illusioni riprenderanno corpo e sostanza in una vita energica e mobile, e la vita tornerà ad esser cosa viva e non morta, e la grandezza e la bellezza delle cose torneranno a parere una sostanza, e la religione riacquisterà il suo credito; o questo mondo diverrà un serraglio di disperati, e forse anche un deserto. So che questi parranno sogni e follie, come so ancora che chiunque trent’anni addietro avesse prenunziata questa immensa rivoluzione di cose e di opinioni della quale siamo stati e siamo spettatori e parte, non avrebbe trovato chi si degnasse di mettere in beffa il suo vaticinio ecc. In somma il continuare in questa vita della quale abbiamo conosciuto l’infelicità e il nulla, senza distrazioni vive, e senza quelle illusioni su cui la natura ha stabilita la nostra vita, non è possibile.
Pochissimi convengono che le cose antiche fossero veramente più felici delle moderne e questi pochissimi le riguardano come cose alle quali non si dee più pensare perché le circostanze sono cambiate. Ma la natura non è cambiata, e un’altra felicità non si trova, e la filosofia moderna non si dee vantare di nulla se non è capace di ridurci a uno stato nel quale possiamo esser felici. O sieno cose antiche o non antiche, il fatto sta che quelle convenivano all’uomo e queste no, e che allora si viveva anche morendo, e ora si muore vivendo, e che non ci sono altri mezzi che quegli antichi per tornare ad amare e a sentir la vita.
Giacomo Leopardi, dal Frammento sul suicidio, in Operette morali, 1827
Avevo visto “Un condannato a morte è fuggito”, di Robert Bresson, almeno una volta, o forse due, tempo fa, estraendo anche diversi frames, che poi avevo anche usato per qualcosa che ora non ricordo bene cosa fosse. Ma già da qualche anno non riuscivo più a trovare il dvd, nonostante ripetute ricerche, così mi sono deciso a ricomprarlo. Questa che ho visto ieri sera mi sembra un’edizione molto migliore, evidentemente restaurata, perché altrimenti un film come questo, in bianco e nero, con molte parti girate nella penombra o addirittura al buio, non si vedrebbe così bene. Ho anche il dubbio che il vecchio dvd durasse meno, che mancassero certe parti di cui, comunque, non mi ricordo. Notando, nei crediti, il rilievo dato al tecnico del suono e ai suoi assistenti, stavolta ho prestato molta attenzione al sonoro, di cui effettivamente non avevo un ricordo molto preciso. Che è molto importante, più d’uno ne ha scritto, è veramente un elemento essenziale della narrazione, anticipando ciò che avverrà di lì a poco con “Pickpocket”. La prigione è molto silenziosa, più volte il protagonista dice che vorrebbe calmare il battito del suo cuore in tumulto, per non essere scoperto quando sta facendo qualcosa di molto rischioso, preparando l’evasione. Ma quando si avvicina alla finestrella, là in alto, e soprattutto quando vi si affaccia, si sentono benissimo i suoni e i rumori della città, perché di là, oltre le sbarre, e oltre le mura, la vita procede come sempre: auto, moto, sferragliare e scampanio dei tram, fischiare dei treni (evidentemente la ferrovia passa vicino al carcere, ce ne renderemo conto benissimo soprattutto nell’ultima parte, durante l’evasione). A me è venuto in mente subito l’effetto provato visitando la Torre del Silenzio costruita da Libeskind nel Museo della Shoah a Berlino: altissima, senza finestre ad eccezione di esigue aperture presso la sommità, e da quelle provengono, bene udibili, rumori e suoni della città, perché questa doveva essere la percezione degli internati nei lager, che sorgevano spesso a poche decine di metri dalle città, dove a loro era precluso di andare, e che potevano soltanto immaginare, attraverso l’ascolto di quei suoni. Il film consiste in massima parte nella preparazione, assai lunga e minuziosa, dell’evasione, che il protagonista continua a dilazionare, sia perché deve prima finire tutti i preparativi, sia perché è consapevole di dover aspettare il momento giusto, forse quando il vento soffierà in una certa direzione, quella più propizia (parafrasando il sottotitolo, Le vent souffle où il veut1, una frase tratta dal Vangelo di Giovanni, detta da Gesù Cristo a Giuseppe di Arimatea). All’inizio del film, l’uomo tenta di fuggire dall’auto che lo sta portando alla prigione, è stranamente senza manette (come se qualcuno avesse voluto indurlo in tentazione), esita, cercando l’attimo giusto, che non arriva, e forse si muove quando non dovrebbe, così viene subito ripreso. Se mai ce l’avesse fatta, sarebbe stato un affare di pochi secondi. Ma non va così, e la vera evasione, quella che riuscirà, gli richiederà grandissimo impegno, dedizione, concentrazione, lungo molti giorni, settimane, mesi. Credo che questo soprattutto premesse a Bresson, mostrare come la via più breve è difficilmente quella giusta, forse perché troppo facile – perciò alletta –, mentre l’altra, quella più tortuosa, difficoltosa, faticosa, richiede molto più tempo, ma arrivati alla fine si ottiene veramente la salvezza, forse la grazia, o quanto meno la consapevolezza (ciò che accade spesso nell’opera di Bresson, come poi in “Pickpocket”, ad esempio, e nello stesso “L’argent’, l’ultimo suo film). La parte finale, con tutte le fasi dell’evasione, è lunga e lenta, tutta scandita da vari suoni e rumori: del campanile che batte le ore, del fischiare dei treni, dello sferragliare degli stessi treni quando passano nelle vicinanze del carcere. Soprattutto prima dell’azione decisiva, quella che porterà fuori dalla prigione Fontaine e Jost, su un viottolo che circonda il carcere, il tempo sembra fermarsi, e l’attesa dei due, fermi lì, nascosti dal buio, sul margine del tetto, osservando il muro di fronte, ultimo ostacolo sulla strada verso la libertà, sembra interminabile. Lì sul tetto, per ore, l’immobilità assoluta, poi alle quattro l’azione, fulminea. Improvvisamente, Fontaine decide di entrare in azione, subito dopo aver ascoltato il campanile battere quell’ora del mattino, l’ora in cui tutti dormono, nemmeno più treni passano, c’è un silenzio assoluto e ancora non è sorto il sole (credo fosse agosto, mancava quindi poco all’alba). Sveglia Jost che si era assopito, butta la corda che subito si aggancia dall’altra parte e va, aggrappato a quella, tesa fra i due muri, sospeso nel vuoto, si muove con sveltezza, sicuro come un gatto, coprendo la distanza fra il tetto del carcere e il muro perimetrale in pochissimi secondi. Jost lo seguirà subito dopo e finalmente i due atterrano fuori, oltre il muro della prigione, liberi. Una preparazione laboriosa, lenta, difficile, per un’esecuzione rapidissima, un gesto eseguito a mente finalmente sgombra, svuotata. Ore di attesa, dopo i primi passi furtivi, spesso strisciando, prima del breve volo liberatorio.
Mi ha molto colpito la scelta dell’ora, proprio quella, le quattro del mattino, subito dopo i rintocchi del campanile, per compiere l’azione definitiva e risolutoria. Questa, lo so, è anche l’ora in cui molte persone muoiono, in quella zona del tempo umano in cui tutto è fermo, ponte fra ieri e domani. Credo che mia madre (sono passati quasi 17 anni, ma ne sono abbastanza sicuro) morì all’incirca a quell’ora, e proprio lei mi aveva sempre detto che io nacqui proprio alle quattro del mattino, il 4 agosto. Poco dopo, quando Fontaine getta la corda verso il muro, e quella subito si aggancia, tendendosi, si sente nitido un suono insolito, arcano, diverso da tutti gli altri che rappresentavano la normalità e perciò stesso aiutavano il tenente a capire come e quando agire. È un suono vibrante, ipnotico, in condizioni ordinarie forse i due si sarebbero fermati, come incantati, ad ascoltarlo2. Invece in quel frangente esso agisce come un segnale propizio, fatidico: la corda è tesa, terrà sicuramente il peso di chi vi si aggrapperà, per i pochi secondi necessari a passare dal tetto al muro. È forse questo il suono del vento lungamente atteso, che “va dove vuole” e si deve cogliere e assecondare, per compiere, nel silenzio e nell’oscurità, l’azione da tempo preparata.
[testo scritto il 31 gennaio 2019]
1: in italiano, “Il vento soffia dove vuole”. 2: udendolo, mentre risuonava per pochi istanti, l’ho riconosciuto subito: è il suono prodotto dall’analapos di Akio Suzuki, lo strumento da lui stesso inventato, formato da una lunghissima molla di acciaio che, tesa, percossa e strofinata dalle sue mani, risuona all’interno di due cilindri metallici posti ai due capi. Glielo ho visto suonare molte volte, una volta anche a casa mia, e sempre gli astanti zittivano, rapiti, finché il suono continuava a librarsi nella stanza.
Le trou di Jacques Becker è un film massimamente agito dalle mani – mani abili, forti, precise nei loro movimenti1 – e dei loro utensili, quasi sempre non ortodossi, inventati, auto-fabbricati per ottenere uno scopo ben preciso. Privati dell’uso di gambe e piedi per camminare, spostarsi ovunque, obbligati a stare rinchiusi giorno e notte nei pochi metri quadrati di una cella, le mani sono l’unica possibilità per loro di essere liberi, lo strumento che, bene usato, potrebbe permettergli di riacquistare la libertà. Con le proprie mani danno inizio all’impresa, scoprendo l’angolo della cella dove scaveranno; una mano – quella di Manu – uscirà per prima dal buco aperto nel tunnel, dopo giorni e giorni di lavoro; infine, saranno le mani di uno di loro – ancora Manu – a sollevare la piastra del tombino dal quale uscire per rientrare nel mondo libero. È anche un film degli oggetti, tutti strettamente legati alle persone con le quali convivono, che ne fanno uso, anche trasformandoli (per ottenere quei certi utensili). Perciò, la modalità di ripresa più praticata nel film è il primo, spesso il primissimo, piano, che permette di ingrandire al massimo certi dettagli – delle mani, degli utensili, degli oggetti – che assumono in questo modo, oltre alla massima evidenza, anche una forte drammaticità; ciò che fa, appunto, delle mani, degli oggetti e degli utensili i veri protagonisti del film2. Insieme, ovviamente – trattandosi di un film che si può ascrivere al genere cosiddetto carcerario – agli spazi, che sono quasi sempre angusti (i reclusi che tentano di evadere vivono in cinque in una piccola cella, dove si trovano anche un lavabo e un wc), e sono comunque sempre chiusi, e il compito – si potrebbe dire la missione, per usare un’espressione attualmente abusata – dei cinque è di crearvi delle aperture, che permettano di uscirne, per recuperare la libertà perduta. Libertà che diventa virtuale, e sempre più vicina a materializzarsi, fintanto che i cinque sono impegnati nel loro complesso, difficilissimo ed estremamente impegnativo tentativo di evasione dalla sinistra prigione della Santé, a Parigi. Ciò che rende arduo il progetto, e che anche li stimola ad affinare al massimo le loro qualità intellettive (quelle di Roland soprattutto, il vero artefice del progetto, intelligentissimo, abilissimo, creativo, dotato di un eccezionale auto-controllo, ma anche saggio, e giusto, basti vedere come si comporta con Geo e poi quel che dice al traditore Gaspard, alla fine) è proprio la consapevolezza dell’immane potenza dell’azione di controllo da parte dei loro carcerieri. Essa viene espletata con controlli minuziosissimi e ripetuti – vedi la scomposizione accurata di tutti i viveri inviati ai reclusi dai familiari, in una lunga e bellissima sequenza – e con osservazioni spietate in ogni ora del giorno e della notte, attraverso un foro praticato nella porta della cella, e poi le ronde, che pattugliano tutto l’edificio della prigione, perfino i sotterranei, abitati soltanto da qualche ragno. A fronte di tutto ciò, un piano di evasione da quella tremenda galera deve essere perfetto, curato in ogni dettaglio, e portato avanti con la massima decisione e accuratezza.
Il piano ideato da Roland – che lo avrebbe messo poi a punto strada facendo, grazie alla sua straordinaria capacità di improvvisare di volta in volta le soluzioni più adatte in ogni circostanza – e messo in pratica grazie alla preziosa e indispensabile collaborazione dei suoi tre compagni di cella, era perfetto, e avrà, come dirò più avanti, successo, sia pure parziale. Ma, come spesso capita, l’imprevisto interviene a scompaginare anche i migliori piani, e in questo caso esso è impersonato da Gaspard, il quinto, aggiunto un giorno, inaspettatamente e d’improvviso, nella loro cella e che si rivelerà il deus ex-machina, in senso negativo, della storia. Costui è, come potremo capire in seguito, un debole, soprattutto nei confronti di se stesso, e Manu, più degli altri, è sospettoso nei suoi confronti. Ma i quattro non hanno scelta, devono metterlo a parte del piano, al quale peraltro lui quasi subito aderisce, perfino con un certo entusiasmo, più o meno genuino (anche se parrebbe tale, agli stessi quattro). Ed è interessante come la mdp, in alcuni momenti – mi sembra di ricordarne almeno due, prima della svolta finale, quando Gaspard viene convocato nell’ufficio del direttore – indugi con dei primi piani sul volto del quinto uomo, e sembri cogliere dei momenti ineffabili: è come se il regista stesso, presente nella cella ma invisibile, lo scrutasse per capire se non stia nascondendo qualcosa, se ci si può fidare, ovvero se i quattro si possono fidare di lui. Ma poi tutto fila liscio, Gaspard dà una mano come tutti gli altri, sembra galvanizzato, riesce a convincere perfino Manu, che dentro di sé aveva sempre nutrito qualche sospetto – e comprensibilmente, come si vedrà. Insieme, i due, compiono l’impresa, facendo crollare l’ultimo mattone che li separa dal tunnel che li porterà fino al tombino su boulevard Arago, che solleveranno, all’alba, osservando per qualche minuto la prigione, lontana un centinaio di metri, potenzialmente liberi. Ecco perché l’impresa è effettivamente riuscita, perfettamente, anche se i due si asterranno dalla fuga, che avrebbe voluto dire abbandonare gli altri tre in galera, con tremende conseguenze. Così ritornano in cella, proprio all’ultimo momento prima che il secondino apra la cella per il caffè dl mattino, e nella notte successiva ci sarà la catastrofe, con l’agguato ordito dal direttore, che impedirà la fuga di tutti i cinque – comprendendo nel numero Gaspard, il traditore, e Geo, che non avrebbe seguito gli altri, per non rischiare, con la sua evasione, di mettere a repentaglio la salute della vecchia madre, già prostrata dalla sua carcerazione.
Coerentemente con la sobrietà a cui è improntato in ogni sua parte (la recitazione soprattutto, svolta da soli attori esordienti o addirittura non-professionisti, e poi i mezzi produttivi impiegati), nessuna musica è presente nel film fino alla fine, quando compare sui titoli di coda, e prevale spesso il silenzio, rotto dal rumore del movimento della lima, dei rudimentali martelli o dei passi della ronda che si avvicina, oppure si allontana. Questa scelta è fondamentale, e distingue Le trou da analoghi film soprattutto americani, che di musica – per di più sopra le righe, eccessiva, invadente – sono pieni, ciò che li rende irrealistici. Anche se nel caso di questo film è bene riflettere prima di parlare di realismo: spesso, si può avere la sensazione di assistere a una liturgia, in cui tutti i gesti hanno un significato e un obiettivo di natura astratta, soprattutto per quanto riguarda le parti in cui i detenuti lavorano di notte, nei sotterranei, scavando per aprire un varco che li porti fuori dalla prigione. Momenti che dal punto di vista di noi spettatori facilmente possono assumere valenze simboliche, o metaforiche3.
La prigione della Santé, un edificio ottocentesco, si trova nel XIII arrondissement parigino, sul boulevard Arago, che prende il nome da un grande astronomo e fisico vissuto nell’800 (morì qualche anno prima della costruzione del carcere), che abitava nel vicino Osservatorio Reale, dove perseguì i suoi studi sulla velocità della luce nell’aria, nell’acqua e nel vetro. A partire dai primi anni del ’900 all’angolo con rue de la Santé, per diversi decenni, si allestivano i palchi delle esecuzioni capitali, tramite ghigliottina. Questo luogo compare prima indirettamente, nel sottosuolo (e vediamo le targhe delle due vie) quando Manu e Gaspard, dopo aver abbattuto l’ultimo diaframma aprendo il fatidico buco, si avviano verso il tombino lì vicino, uscendo dal quale avrebbero potuto fuggire con i compagni la notte successiva: proprio lì, dove si eseguivano le condanne, essi spuntano dopo aver sollevato la piastra per guardare fuori, verso il mondo libero. Anche se la prima cosa che vedono (prima di un taxi) è proprio la prigione lì nei pressi, da dove non riusciranno, infine, a fuggire.
1: spesso le mani, soprattutto quelle di Roland, si muovono con la stessa destrezza di quelle dei borseggiatori in Pickpocket, il grande film di Bresson uscito pochi mesi prima di questo, nel dicembre del 1959. 2: è giustamente famosa la sequenza, lunga quasi 4′, in cui assistiamo prima all’asportazione di quattro assicelle dal pavimento, per scoprire il pavimento in cemento, poi all’azione, a forza di decise martellate, per potervi aprire il primo buco. Non c’è un solo stacco, e vediamo soltanto gli avambracci di tre del gruppo – e le loro ginocchia – mentre a turno eseguono l’operazione. 3: in questo film, come nel succitato Pickpocket, e ancor di più in Un condannato a morte è fuggito, entrambi di Bresson, a me sembra spesso di assistere a una performance assai simile, nella gestualità, a quelle che si vedranno fare, da parte di artisti visivi, a partire dagli anni ’70. Penso soprattutto a quelle di Terry Fox, di Joseph Beuys, poi di Tehching Hsieh e, in tempi assai recenti, di Alis/Filliol, o di Giovanni Morbin, nelle quali il performer fatica e si espone spesso a un rischio reale. Peraltro, tutto ciò che vediamo in questi film è stato realmente eseguito dagli attori (o, nel caso di Pickpocket, comunque da veri borseggiatori all’opera) senza ricorre all’uso di alcun trucco. Addirittura, uno dei cinque, proprio Roland, fa la parte di sé stesso – sotto un falso nome – avendo partecipato, nel 1947, al tentativo di evasione ricostruito prima nel romanzo di Josè Giovanni, quindi nel film di Becker
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