Doppia corsia

Dopo la corsa notturna che precede la fuga della ragazza con GTO, il pilota dice al meccanico che l’auto è andata abbastanza bene, anche se le ruote avevano pattinato un po’ durante l’accelerazione. Glielo dice così, senza enfasi, fa parte della routine del loro rapporto: dopo ogni corsa il pilota indica al meccanico quali sono i pregi e soprattutto i difetti riscontrati, così che quello possa intervenire prima della corsa successiva. Poi viene l’ultima corsa del film, forse l’ultima in assoluto, come potrebbe farci capire l’autocombustione in presa diretta, davanti ai nostri occhi, della pellicola. E si potrebbe ripensare a quelle ruote che pattinavano “un po’ (troppo)”, all’auto che sbanda, perde l’attrito sulla pista e salta via.
L’ultima parte è la più intensa del film, quasi come se tutto quello che l’ha preceduta avesse il compito di prepararla, ovvero prepararci a vederla.
Siamo all’interno della Chevrolet ’55, molto vicini al pilota, ci sentiamo come fantasmi che stanno lì accanto a lui senza che possa vederci o udirci, del tutto inavvertiti. Il silenzio è assoluto, il pilota guarda chissà dove, non soltanto davanti a lui, in attesa del segnale di partenza. C’è un momento, molto breve, in cui guardiamo fuori con gli occhi del pilota, verso sinistra, un paesaggio appena un po’ mosso, prati e boschi un capannone col tetto di lamiere ondulate, qualche persona e cose molto lontano, indistinguibili, e poi colline sullo sfondo, ancor più lontano. Uno sguardo assolutamente oggettivo, senza scopo, vuoto, utile forse soltanto a distrarsi dal momento così intenso, teso. Il silenzio continua, intatto, finché il pilota – la partenza è ormai imminente – chiude con un movimento improvviso, rapido e sicuro (lo avrà fatto centinaia di volte) il finestrino alla sua sinistra, quello attraverso il quale stava guardando qualche attimo prima. Un breve clang! [onomatopeico], secco, metallico, riverberante in modo quasi impercettibile per una frazione di secondo, nel vuoto e nel silenzio all’interno dell’abitacolo. Quel suono separa definitivamente il pilota dal mondo esterno, è come se si fosse chiuso il coperchio di una bara, l’effetto su di noi che stiamo guardando, e che lo udiamo, è raggelante, spaventevole. Poi ecco il segnale, l’auto parte, sempre nel silenzio assoluto, e ci accorgiamo che lo scorrere delle immagini è leggermente rallentato, anche se ora l’auto sta raggiungendo la velocità massima. Poi l’immagine si sgrana, cominciamo a udire qualche debole rumore dei motori che si stanno scatenando, e improvvisamente la pellicola comincia a bruciare, ci mette pochissimo a scomparire, non vedremo più il pilota, la sua auto (dove ancora ci troviamo, dietro di lui) e intanto il volume del suono sale sempre di più, raggiunge il massimo dopo la scomparsa dell’immagine, persiste ancora per un paio di secondi dietro lo schermo nero, prima di interrompersi bruscamente, alla fine del film, e di tutto.

John C. (4)

Non mi interessa se sei un pittore o un architetto, non puoi combattere il sistema. Per come la penso io, se lo combatti vuol dire solo che vuoi unirti ad esso.

Credo che la maggior parte delle persone siano come me: non sanno cosa gli piace finché non l’hanno visto.

Fare un film è un mistero. Se sapessi già qualcosa sugli uomini e le donne non lo farei, perché mi annoierebbe.

La cosa importante è lavorare con attori a cui piace il loro lavoro e che sono pronti a esplorare insieme a me qualcosa che non sappiamo ancora.

Il dialogo dovrebbe essere così strettamente legato all’evento che non lo avverti come dialogo, non avverti il fatto che le persone stiano parlando, ne avverti le emozioni. Sono più interessato alle motivazioni del dialogo, alle emozioni espresse in quel momento, che alle parole giuste.

Devi combattere contro quello che sai, perché una volta che sai diventa molto più difficile rimanere aperti e creativi.

L’idea è di avere un teatro in cui la gente non sa cosa va a vedere, va e basta. (…) Il pubblico di oggi non prova il brivido dell’attesa.

In questo film, ogni volta che qualcuno pensa che stia per succedere qualcosa succede qualcos’altro.

Non puoi venderti per dieci centesimi e aspettarti di ricavare un milione. Devi essere pronto a tutto. Sia che tu riesca sia che tu fallisca, devi cercare quello che ti renderà migliore quando avrai finito. Mi piace lavorare con gli amici, e per gli amici, su qualcosa che potrebbe aiutare qualcuno. Qualcosa che sia pieno di senso dell’umorismo, di tristezza, di cose semplici.

John Cassavetes, s.d. (estratti da “John Cassavetes. Un’autobiografia postuma”, a cura di Ray Carney; traduzione di Silvia Castoldi)

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Sull’amicizia

Ho considerato mio compito verificare in che modo la vita dell’intelletto, la disciplinata e metodica ricerca comune di una visione chiara – si potrebbe dire filosofia, nel senso di amare la verità – possa essere vissuta così da diventare occasione per suscitare philia (consentitemi di usare la parola philia, per evitare le buffe implicazioni che “amicizia” assume nelle diverse lingue moderne. Volevo capire se fosse possibile creare legami umani di reale, profondo coinvolgimento in occasione e con i mezzi della ricerca condivisa; e volevo anche spiegare come la ricerca della verità possa essere perseguita in modo ineguagliabile intorno a una tavola da pranzo, davanti a un bicchiere di vino, e non in una sala conferenze. Se l’espressione “ricerca della verità” fa sorridere la gente e fa pensare che io appartenga a un qualche Vecchio Mondo, ebbene sì, vi appartengo.

… le cose davvero importanti devono essere suscettibili di condivisione con altri che io amo, prima di tutto, e con i quali poi sento il bisogno di parlare; e questa convinzione avrà un impatto significativo sul modo in cui valuto ed esprimo le mie intuizioni.

Ci deve dunque essere, prima di tutto, una soglia, e poi un riconoscimento che quella soglia definisce uno spazio che è personale, ma mai esclusivo. Un terzo requisito per coltivare l’atmosfera di cui ho parlato è la disponibilità ad accettare la disciplina senza avere fissato formalmente delle regole. I piatti devono essere lavati e, se a cena saltano fuori quindici persone in più del previsto, qualcuno deve provvedere a che la zuppa basti. La questione di come questo debba essere gestito, e da chi, è qualcosa che si deve definire senza il ricorso a regole, perché nel momento in cui stabilisci delle regole sei già sulla strada dell’istituzionalizzazione.

Lungo il percorso che ho descritto, ho avuto la fortuna di raccogliere degli amici con cui le conversazioni sono andate avanti per cinque decenni ormai. Quando queste persone si sono incontrate, spesso si sono sviluppati tra loro intensi legami e talvolta si sono sentite chiamate a rivedere in profondità le loro idee. Con mia grande sorpresa, l’appartenenza a una stessa fascia di età non è determinante, quando le persone sono attente a mettere in pratica ciò che ho descritto. Ho visto amicizie fra persone che potevano essere nipote e nonno diventare forti e feconde.

Le amicizie corrono su strade separate che si incrociano, corrono parallele e tornano a incrociarsi.

Da “I fiumi a nord del futuro”. Testamento di Ivan Illich, raccolto da David Cayley
(traduzione di Milka Ventura Avanzinelli).

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il sole risplende alla fine della strada

Certa musica (ora: Paint it black, We love you, Let’s spend the night together, She’s a rainbow, Child of the moon, altre volte Gloria, l’intro di Land, I am free, Waterloo Sunset, ecc.) si deve ascoltare stando in piedi – se seduti ci si deve alzare – come le partite di calcio allo stadio1, dove infatti ho smesso da tempo di andare. E così, in piedi, sento il vento scompigliarmi i capelli, e lo sguardo arriva lontanissimo.
Tutte le altre si possono ascoltare – quindi non veramente vivere – stando seduti.

1: molti anni fa, non mi ricordo bene quando e dove, ero allo stadio per vedere una partita, e dopo il primo tempo molti si erano seduti in attesa dell’inizio, così quando quelli davanti a loro, alla ripresa del gioco, si alzarono in piedi, se ne lamentarono. Allora un uomo anziano, che forse non si era neppure seduto, girandosi a metà, senza alzare la voce disse: «La partita si vede da dritti» (lo disse in piemontese, che fa tutt’altro effetto rispetto all’italiano; infatti me ne ricordo ancora adesso, dopo decenni).

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Quel che non va

7 novembre 2021, ore 12:28

Un’atrofia intellettiva quanto fisica limita fortemente la capacità, per molte persone, di vivere veramente, direttamente, senza mediazioni. Spesso si guardano gli altri, magari su uno schermo televisivo, si assiste alle loro vite, esperienze, sofferenze, gioie, si demanda ad altri il rischio, ma anche il guadagno, quando c’è, risultante da qualsiasi esperienza oltre i limiti fissati per tutti dalla società. Analogamente, l’esperienza estetica la si lascia fare agli artisti – di arte visiva, cinema, teatro, eccetera – che hanno così il compito, affidatogli (o meglio, riconosciutogli) anche in questo caso dalla società, di mostrare agli altri, la cosiddetta gente comune, quello che fanno, perché essi lo ammirino, seduti o in piedi ma sempre dall’altra parte di uno schermo invisibile (il quarto muro). E le cose fatte, opere, film, performance e altro, si devono andare a vedere negli spazi istituzionali, deputati a svolgere tale funzione: gallerie, musei, teatri… Ma tanto, tantissimo, avviene continuamente ovunque, al di fuori di quei luoghi, ignorato da quasi tutti, che riservano la propria attitudine a cogliere eventi anomali e conturbanti soltanto a ciò che viene presentato in quei contesti. Tanti, troppi, si adattano ad occupare esclusivamente il ruolo di spettatore, un ruolo passivo, limitante al massimo, alla lunga castrante.

Non è neppure questione di luoghi ‘deputati’, non soltanto, ma piuttosto l’ostinarsi a cercare l’insolito, il bello, il sorprendente, chiamalo come vuoi, sempre e soltanto nella direzione indicata dal sistema. Gli artisti indossano tutti una divisa invisibile, senza di quella è come se non succedesse mai niente di particolarmente interessante: non si vede, non ci si fa attenzione.

Ci siamo abituati a considerare più interessante, più degno di attenzione ciò che ci viene proposto all’interno di una cornice, in un luogo istituzionale, preposto al compito, cinema, teatro, galleria, museo. Ma molto altro, spesso ben più interessante e stimolante – anche perché imprevisto, improvviso, che accade al nostro cospetto trovandoci impreparati – avviene, o può avvenire continuamente e ovunque, dentro e fuori le case, per strada, camminando o guidando un’auto, oppure spostandoci trasportati da un treno o da un tram. E chiunque può notare come molta gente compia queste operazioni in uno stato di isolamento dal contesto che la circonda, di disattenzione quindi, aggrappati ai propri dispositivi audiovisivi, che attraggono la massima parte della loro attenzione, sia alle immagini sia a suoni e rumori.
Non sono del tutto contrario all’esistenza di certi luoghi, bensì al loro – di quasi tutti direi – enorme potere di astrarre dal contesto, creando cortine che limitano fortemente vista e udito del visitatore impedendo la percezione sensoriale del mondo (lasciato) fuori. Quindi mi piacciono molto di più i musei, o le gallerie, dove si può vedere fuori nello stesso momento in cui si osserva qualcosa che sta dentro, e magari una proiezione video o cinematografica che non avviene in uno spazio del tutto buio, avulso dal mondo, ma in un altro ‘in between’, dove al massimo c’è una penombra, ma si può vedere e udire anche altro, oltre a quel video, a quel film.

Un’esperienza che ha luogo in forma di rivelazione, come una smagliatura nella normalità. È sempre improvvisa e inaspettata, quindi la possibilità di favorirne o provocarne l’accadere in un luogo deputato, istituzionale, è labile, con qualche rarissima eccezione.

Esiste una volontà precisa, attuata da chi agisce come suo strumento, di incanalare, formalizzare, mettere ogni tassello – o presunto tale – al posto giusto, quello che un’autorità astratta ma potentissima, a cui coloro obbediscono, ha assegnato. Questi agenti sono irresistibilmente attratti da certi luoghi deputati, verso i quali convergono, e sono accompagnati durante le loro azioni dal suono di parole magiche, che designano un certo ambito, quello che insiste in detti luoghi deputati (siano essi fisici o virtuali). L’esempio più calzante di tali parole, o modi di dire, è sicuramente “l’arte contemporanea”, un’espressione che non significa realmente nulla, ma tende bensì a includere in un ambito astratto una moltitudine di cose, spesso del tutto diverse fra loro. Se si chiede a qualcuno che usa questa espressione il suo significato preciso, lo si può mettere facilmente in difficoltà, perché ciò che essa designa non esiste nella realtà.
Un’altra parola magica, spesso associata a quell’altra espressione, è sistema, il sistema dell’arte contemporanea, e quando pronunciano queste poche parole tutte insieme, il tono di voce di detti agenti è grave, addirittura solenne, e ci si aspetta che nessuno dell’uditorio osi controbattere alla potenza di questo ente astratto, rappresentato in tale espressione.

(scritto il 2 ottobre 2021)

John C. (3)

Mi dà un gran fastidio suscitare manifestazioni di affetto. Non c’è nessuna sfida nel suscitare affetto. È una forma di accordo, e spesso andare d’accordo in realtà non ti porta da nessuna parte. Ho sempre la sensazione che quando qualcuno dice: «Ti amo», in realtà voglia dire: «Ti odio». Mi sembra che se qualcuno sente il bisogno di esprimere una cosa del genere, o vuole sentirsela dire, ci sia qualcosa che non va. In realtà sta esprimendo una paura, o un dubbio.

La verità è il momento. Non lasciare che il momento passi.

La vita, matrimonio compreso, è fatta di uomini contro donne. È in corso una guerra costante, e, credo, deliziosa. Uomini e donne sono fondamentalmente diversi. Le donne sono protettrici, e gli uomini non possono avere bambini e non hanno l’istinto materno, perciò proteggono le protettrici. Gli uomini sono fatti per l’avventura. In un matrimonio l’infelicità è assicurata quando le donne non capiscono le differenze di fondo fra loro stesse e il fatto che gli uomini hanno bisogno di avventura.

Dobbiamo smettere di intellettualizzare troppo e basarci, invece, sui nostri sentimenti. Se provi qualcosa, allora è vero. L’unica verità che potrai mai conoscere risiede nell’emozione che provi. Quando perdiamo la consapevolezza istintiva della verità, non ci resta più niente. (…) L’amore avviene in un tempo anteriore a quello dell’intelletto.

È vero che nei miei film le donne vengono continuamente ingannate dagli uomini. È così nella realtà, e loro se ne accorgono. Il mio punto di vista nel presentare questa situazione è: «D’accordo. Cosa avete intenzione di fare? Volete trincerarvi dietro un muro oppure combattere per proteggere almeno in parte la vostra innocenza? ». Non ha importanza quali siano le attuali tendenze di pensiero: una donna deve sempre combattere per mantenere viva la sua sensibilità.

Mi piace che nelle persone ci siano dei segreti, che possono essere più interessanti di una «trama». In realtà tutti hanno dei segreti – come film-maker e sceneggiatore ti rendi conto che questa è la regola fondamentale: le persone hanno dei segreti.

Detesto il separatismo in tutto. Il movimento femminista non fa altro che spargere sfiducia tra le persone e allontanarle anche di più l’una dall’altra. A me piacciono le persone, e non condivido nessuno di questi pregiudizi, non mi piace che si allontanino da me. Mi piace che siano disponibili. Credo che oggi davvero esista un’ostilità sotterranea fra i sessi.

Qualunque cosa io veda, sono io che la vedo. Cerco di vederla dal mio punto di vista e non come mi hanno detto di vederla, o come la dovrei vedere, o come la vedono altri, o perché dovrei vederla. Detesto quando mi viene detto che cosa è una certa cosa. Voglio sempre scoprirlo da solo, voglio esprimere ciò che un personaggio sente veramente, e non solo cosa sente nella storia.

Io non sono capace di vivere. Non mi so vestire, non so andare d’accordo con gli altri. Non ci capisco proprio niente. Mi fa impazzire.

Le cose non sono mai chiare come al cinema. Nella maggior parte dei casi la gente, me compreso, non sa cosa sta facendo. Non sa cosa vuole o cosa prova. Solo nei film sa qual’è il suo problema e ha un piano per affrontarlo. Perché dobbiamo essere come la gente non è? La vita è più strana del cinema. Le cose della vita sono molto più interessanti di quelle con cui fanno i film.

Non sono molti oggi a mettersi in gioco, perché tutti hanno paura. Mi dà la nausea questa piccola città vigliacca, in cui la gente va a vedere solo i film che sa già che avranno successo, quelli che gli studios definiscono bellissimi.

Il concetto di accessibilità mi dà davvero fastidio. Non credo che la gente voglia una vita facile; credo che sia una malattia degli Stati Uniti. Mostro agli spettatori sprazzi di idee che li confondono, li destabilizzano e li disturbano, e così fornisco loro cibo per la mente. Per tutta la mia vita ho combattuto contro la chiarezza – contro tutte quelle stupide risposte definitive. Al diavolo le formule. Credo che se il mondo non fosse così incasinato e pieno di fraintendimenti, lascerei perdere. I conformisti non valgono niente.

Non è mai possibile andarsene via prima. Pensi sempre: «Adesso scappo e me ne vado da questa città», ma se hai una moglie sai che anche lei deve prepararsi, e se hai un figlio o due sai che anche loro devono prepararsi. Se poi hai due figli e una nonna, ci sono un sacco di bagagli da fare. Così potrai dire a tua moglie e alla tua famiglia «andiamocene» un milione di volte, ma loro saranno comunque in ritardo.

Mi piace il movimento, il cambiamento, e odio le risposte, perché interrompono il cambiamento.

La vera comunicazione fra due menti avviene molto di rado e dura solo per un attimo, anche con quelli che ti sono più vicini, con cui sei molto intimo. Per il resto la vita è solo una serie di incontri superficiali. È così che funziona. È difficile fare un film che superi questo ostacolo, che scavi in profondità nella vita.

John Cassavetes, s.d. (estratti da “John Cassavetes. Un’autobiografia postuma”, a cura di Ray Carney; traduzione di Silvia Castoldi)

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La rinuncia

La certezza di poter fare a meno di qualcosa è uno dei modi più efficaci per convincersi di essere liberi, quale che sia il nostro gradino nella scala intellettuale o emotiva. I limiti autoimposti forniscono una base e una preparazione per discutere di cosa possiamo fare a meno come gruppo di amici o di vicini. L’ho visto e posso testimoniarlo. A molte persone che soffrono di grandi paure e di un senso di impotenza e di alienazione, la rinuncia offre un modo molto semplice per tornare a un sé che si ponga al di sopra delle costrizioni del mondo.

Da “I fiumi a nord del futuro”. Testamento di Ivan Illich, raccolto da David Cayley
(traduzione di Milka Ventura Avanzinelli)

(notizie dall’esilio /9)

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John C. (2)

Io lavoro meglio come dilettante, lontano dal sistema convenzionale degli studios. Credo che l’opportunità di lavorare come dilettante attiri molte persone – se per «professionista» si intende uno che è costretto a fare un lavoro, e per «dilettante» uno a cui piace farlo.

Non stiamo costruendo una casa o qualcos’altro di tangibile. È soltanto qualcosa che vedi su uno schermo. E che scompare in un attimo. E che sia bello o no è solo un’opinione. Devi mantenere in continuazione l’atmosfera, e devi farlo con onestà.

Come fai a “adorare” quel film? Non puoi! Non voglio che la gente dica: «È un bel film». Lo detesto. Perché se qualcosa ti piace davvero, allora è un fatto personale. Il miglior complimento è il silenzio assoluto. Odio l’intrattenimento. Non sono un intrattenitore.

Non mi interessa se alla gente piacciono o meno i nostri film, purché riesca a farli, a dire quel che voglio e a lavorare con persone a cui voglio bene, che non hanno paura di esprimere se stesse e a cui non importa della fama. Se vogliamo far vedere “Faces” nelle università, lo faremo. Se vogliamo seppellirlo e non farlo più vedere a nessuno, possiamo farlo. In altre parole, è nostro. Perciò, se lo proiettiamo ai festival, bene. Se no, bene lo stesso. Se alla gente piace, bene. Se non gli piace, bene uguale.

L’espressione «adattarsi» si usa molto a Hollywood. «Adattarsi» significa rinunciare alle tue idee in cambio di una buona posizione.

Se muori per il tuo paese non è un granché, ma se si tratta di un film, anche se è l’ultima cosa che farai, vuoi che sia finito. Con quell’atteggiamento, se lo fai così, allora vivi la tua vita in maniera fruttuosa, riesci davvero a realizzare qualcosa.

Quello che cerco di ottenere dagli altri è ciò che loro vogliono davvero. Li critico solo quando non mi danno quello che vogliono.

Oggi molti registi, attori e sceneggiatori si preoccupano più di quello che dicono i critici che del lavoro che hanno per le mani. Una volta odiavo la censura. Ora c’è qualcosa che odio più della censura, ed è la commercialità. Quando qualcuno fa qualcosa per i soldi, penso che non sia un artista. Lo disprezzo, lo odio e penso che sia un pompinaro.

Potrei lavorare anche in una fogna piuttosto che fare un film che non mi piace. Se dovessi dirigere un film come “Il ritorno dello Jedi”, o anche solo recitarci, mi verrebbe da svenire – morirei dalla vergogna, e non rinverrei più. Se avessi diretto “L’inferno di cristallo”, sarebbe tutta pellicola non impressionata. Niente. Mi verrebbe da vomitare.

Mi piace fare film difficili, che facciano urlare il pubblico. Il mio mestiere non è l’intrattenimento. Se non piace a nessuno, allora evidentemente non va bene. Ma questo non cambia il mio atteggiamento verso ciò che sto facendo. Sento che c’è tanta gente che vuole apprezzarlo, così come ce n’è altrettanta che è felice di odiarlo. Io non sono un film-maker convenzionale e non cerco il successo in quell’area. Ma non dico nemmeno che se la gente non capisce allora è stupida. Forse le mie idee e i miei metodi non sono in linea con ciò che certi spettatori si aspettano, ma in ogni caso, se vogliamo un cineasta che li faccia sentire a loro agio, quello non sono io. A me interessa scuotere le persone, non blandirle per farle contente.

Non chiamo il mio lavoro intrattenimento. Il mio lavoro è esplorazione. È porre continue domande alle persone: quanto intenso è il tuo sentimento? Quanto sai? Sei consapevole di questo? Puoi affrontare questo? Un buon film ti pone domande che non ti sei mai posto prima, a cui non pensi tutti i giorni. Oppure, se ci hai pensato, non te le sei poste in quel modo. Il film è un’indagine sulla vita. Su ciò che siamo. Su quali sono le nostre responsabilità nella vita, se ne abbiamo. Su cosa stiamo cercando; che problema hai tu che potrei avere anch’io? Di quale aspetto della vita vorremmo entrambi sapere di più?

Stiamo cercando un modo diverso di dire le cose, diverso dal solito linguaggio convenzionale e noioso amato dalla maggior parte del pubblico, solo perché vive una vita insignificante. È così! Il mondo è popolato di persone che hanno opinioni ma non emozioni.

In ogni caso, sono contento di non avere successo, perché quando ce l’hai, anche se sei convinto di avere più libertà, in realtà ne hai molta di meno. Come fai a fare quello che vuoi quando hai dieci milioni da spendere per un film? Dove andrà ora Spielberg dopo “Lo squalo” e “Incontri ravvicinati del terzo tipo”? Mi va bene continuare a essere un fallimento molto stimato, credo.

Se i miei film non vi piacciono, non ci posso fare niente, ma sono un uomo della strada, perciò la stima degli altri non mi interessa. Se la stima ti aiuta a fare il prossimo film, benissimo. Se invece è l’antipatia ad aiutarti a fare il prossimo film, chi se ne frega. Io voglio essere me stesso. Voglio fare un film di cui essere orgoglioso.

Sono disorientato dalla vita. Non so niente della vita. Faccio un film, e non so nemmeno il perché. So solo che in quel film c’è qualcosa. Solo dopo, attraverso le opinioni degli altri, riusciremo a capire di cosa parlava.

Lotterò per fare un film che non sia di moda. Non voglio un film di moda. A me piace occuparmi di storie pericolose. Economicamente pericolose. Voglio il film che sento in quel momento. Se vi serve qualcuno che faccia film impersonali, ci sono un sacco di film impersonali in giro. Quelli con cui lavoro io sono individui personali, ed è per questo che ci mettiamo insieme per fare film personali.

Fare un film non è come stare in chiesa, almeno per me, è come un’arrampicata. (…) I registi, e io sono uno di loro, non hanno il minimo rispetto per niente e per nessuno all’infuori del film, e dal primo giorno delle riprese fino all’uscita la situazione non cambia, se non in peggio.

Tutte le mie idee migliori provengono dal fatto di non avere risposte – dal non sapere. Non sai mai qual è la verità finché non ti metti all’opera. E proprio quando pensi di sapere come andrò un film, ecco che tutto comincia a cambiare e a diventare qualcos’altro. E tu devi capire che non sta andando male. Che è proprio così che vanno le cose.

Per come la vedo io, per fare un film perfetto bisognerebbe girare per dieci settimane e poi buttare via tutto e ricominciare da lì. È quello il momento in cui inizi davvero, e di solito è anche il momento in cui il film è finito, in cui tutto diventa facile.

John Cassavetes, s.d. (estratti da “John Cassavetes. Un’autobiografia postuma”, a cura di Ray Carney; traduzione di Silvia Castoldi)

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Momenti in alcuni film visti recentemente

Quando non sai quale sia la via giusta scegli la più difficile.
(da “Il Generale Della Rovere”, di R. Rossellini)1

Recentemente ho visto film, che pure mi sono piaciuti, il più delle volte, dei quali ho soprattutto notato certe scene, magari brevi, che mostrano un comportamento del protagonista davvero impressionante, per la sua singolarità – e, in alcuni casi, per l’istintiva saggezza di chi lo attua. In due vecchissimi film di Frank Capra2, prima James Stewart e poi Gary Cooper, accusati ingiustamente da gruppi importanti di persone appartenenti al potere costituito (una commissione d’inchiesta del Senato, nel primo caso, e la corte di un processo giudiziario nell’altro), con argomentazioni pretestuose frutto di malafede, o quanto meno di disinformazione, rispondono col silenzio, rifiutandosi di controbatterle. Essi capiscono che se assecondassero gli accusatori, ribattendo a tali affermazioni, per difendersi, oltre a dover spendere enormi quantità di energia e di tempo, inutilmente (tanta è la sproporzione fra le parti avverse, uno solo contro molti o moltissimi), ciò sarebbe sicuramente pernicioso per la tutela dei propri interessi, perché se rispondessero a domande capziose e si opponessero ad accuse del tutto infondate finirebbero per legittimare queste e quelle. Perciò Mr. Smith (James Stewart) preferisce abbandonare l’aula rifiutando di confrontarsi con chi lo accusa ingiustamente e Mr. Deeds (Gary Cooper) rimane al suo posto muto e assente, del tutto disinteressato a difendersi da insinuazioni talmente assurde e prive di fondamento. Mi è parso, il comportamento dei due personaggi, assolutamente condivisibile, dignitoso, rispettoso della propria integrità morale.

In un altro film, “The Damned”, di Joseph Losey, del 1961 – film che non mi è piaciuto, devo dire – emerge proprio alla fine l’idea che un gruppo paramilitare, peraltro governativo, al servizio di una specie di scienziato tanto privo di senso etico quanto sicuro di sé, abbia messo in atto un’operazione oggettivamente mostruosa (isolare dalla nascita un gruppo di bambini, tutti nati lo stesso giorno dello stesso anno con una intensissima radioattività assunta durante la gravidanza delle rispettive madri, soltanto per preparare un’ipotetica cellula di umanità che sopravviverebbe a una catastrofe atomica data per sicura e imminente) frutto di una allucinazione, presa però per realtà certa e inconfutabile. Infatti il titolo della versione italiana del film è “Hallucination”, e per una volta è successo che il titolo italiano fosse migliore, più pregnante, di quello originale. Ecco, questa cosa, che vien fuori proprio alla fine di un film che, come detto, non mi è piaciuto, e ho trovato davvero invecchiato male, come si dice, per come è, penosamente, attuale, lo riscatta in parte, e mi fa sentire come non sia stato tempo del tutto sprecato, quello passato guardandolo, spesso infastidito dalla recitazione degli attori, probabilmente anche piuttosto mal diretti da Losey. Un autore che ultimamente – l’anno scorso ho rivisto “L’incidente” – mi è parso assai sopravvalutato, e che un tempo consideravamo invece, io e qualche amico, un grande.

Gene Tierney e Cornel Wilde in una scena all’inizio di “Femmina folle” (che titolo! Quello originale sarebbe “Leave her to heaven”, una citazione scespiriana), di Lewis Stahl, del 1945, quando sono sul treno, seduti uno di fronte all’altra, coprono, a turno, la parte del voyeur: lui la guarda mentre lei dorme, e lei lo fissa a lungo, ostentatamente, dopo essersi svegliata. Da quella seduta di ‘voyeurismo reciproco’ prenderà avvio tutta la storia, tragicissima, del film.

In “Dark Passage” (bellissimo titolo, in italiano diventa, didascalicamente, “La fuga”), di Delmer Daves, del 1945, che fino a oltre la metà è girato ‘in soggettiva’, per cui vediamo con gli occhi del protagonista, e gli altri personaggi guardando lui è come se guardassero anche noi, che condividiamo il punto di vista di Humphrey Bogart. Mi ha preso in particolare la parte quando lui rimane solo, per poco tempo, in casa di Lauren Bacall – all’epoca giovanissima e molto bella. Bogart è da poco arrivato in questa bellissima casa, di nascosto, essendo ricercato dalla polizia, come evaso da San Quentin; lei, Lauren-Irene, gli parla, guardandolo negli occhi, quelli di Bogart ma anche i nostri. Poi lei se ne va (per compragli dei vestiti) e lui si guarda in giro, curiosando un po’ ovunque, e si sente – grazie forse a una certa lentezza nei movimenti dello sguardo – la sua ammirazione per quella casa così bella e particolare, fra l’altro una vera casa di San Francisco, credo esista ancora, anche se sono trascorsi quasi ottant’anni. Oltretutto lui viene da un carcere notoriamente piuttosto inospitale, e anche questo influisce sulla sua percezione del luogo, del tutto nuovo, in cui ora si trova. Per qualche secondo ho provato, credo, le sue stesse sensazioni, era come essere lì, e la sua ammirazione, e il suo compiacimento, erano anche i miei.

In “Cenere e diamanti”, un film polacco, di Andrzej Wajda, del 1959, molto famoso ma che non avevo mai visto prima di qualche giorno fa, i fatti avvengono tutti o quasi tutti praticamente per caso. I due attentatori, che vediamo subito all’inizio del film mentre stanno in attesa del passaggio delle vittime designate, compiono un tragico errore assalendo una camionetta che casualmente precedeva quella che aspettavano, e così uccidono a colpi di mitra due innocenti. Soltanto dopo, mentre si trovano in un caffè della cittadina nei pressi del luogo dell’attentato, uno dei due (l’altro sta telefonando al mandante, per comunicargli l’avvenuta esecuzione dell’ordine) si rende conto, dalle parole che si scambiano alcune persone entrando nel caffè, che hanno commesso un fatale errore: uno di loro è proprio il principale bersaglio dell’attentato – qualcuno gli si rivolge pronunciandone il nome. Ancora dopo, Maciek, il più giovane dei due attentatori – e il vero protagonista del film – aprendo la finestra della stanza d’hotel in cui è appena entrato coglie al volo, e del tutto casualmente, un dialogo fra due persone, una delle quali, una prostituta, dice, fra le lacrime, di essere la fidanzata di uno dei due assassinati. Ciò che, inevitabilmente, insieme ad altri fatti successivi, lo porterà a ripensare la legittimità del suo coinvolgimento in quelle azioni terroristiche, mettendola seriamente in discussione (anche se poi non rinuncerà all’ultima, che gli sarà fatale). In una scena successiva, il giovane attentatore e la ragazza che sta corteggiando escono per fare due passi, ma la pioggia piuttosto intensa li costringe a riparare in una chiesa semidistrutta dai bombardamenti sovietici durante la guerra appena finita. Mentre conversano fra loro, arrivano in una sala dove scoprono, anche qui per caso, sotto due lenzuoli, le salme dei due uccisi, ‘vegliate’ da un uomo armato di fucile che si era assopito e risvegliandosi d’improvviso, e scoprendo la coppia nei pressi delle salme, inveisce contro di loro, rivelando l’identità dei due morti.

Ed è sempre per caso che Maciek scopre, mentre si trova, in piena notte, ancora all’interno del caffè, che Szczuka, colui che deve uccidere, inopinatamente è uscito dalla sua stanza (dove M. aveva previsto di irrompere per assassinarlo), e resta in attesa, sulle scale, che un’auto mandata dalla polizia lo venga a prendere. Poco prima l’uomo politico era stato informato che il figlio diciassettenne, perso del tutto di vista da prima della guerra, ora diventato anche lui un “terrorista”, quindi un suo nemico, è stato arrestato insieme ad altri compagni, catturati nel corso di un rastrellamento. Maciek seguirà, di soppiatto, l’anziano segretario del Partito Polacco dei Lavoratori che, non riuscendo più a sopportare l’attesa, decide di uscire da solo dall’albergo per raggiungere a piedi il commissariato di polizia. Lo abbatterà scaricandogli addosso l’intero caricatore della sua pistola, e i colpi si confonderanno con le improvvise, e assolutamente inattese (anche per noi spettatori), esplosioni dei fuochi artificiali sparati per festeggiare la fine della guerra, appena comunicata alla nazione.
Dopo ancora, alla fine del film, del tutto casualmente il giovane si imbatterà in una pattuglia di soldati, e preso dal panico si darà alla fuga, durante la quale, pur sfuggendo agli inseguitori, rimarrà colpito mortalmente da un proiettile sparato da uno di loro.

Di “Giorni perduti” (The Lost Weekend) vecchio film di Billy Wilder che avevo visto alla televisione quando ero molto giovane, a Novi Ligure, non ricordavo la lunghissima camminata del protagonista, lo scrittore interpretato da Ray Milland, attraverso New York, alla ricerca di un banco dei pegni in cui lasciare, in cambio dei soldi necessari per comprarsi del whisky, la sua macchina per scrivere. Dopo il primo, il secondo, il terzo, e così via: li trova tutti chiusi, e non se ne capacita, nessuno pare in grado di dirgliene la ragione, si sente perseguitato dalla sorte, eppure non cede, prosegue nella sua ricerca, camminando per ore, invano. Finché, finalmente, apprende da due ebrei – uno dei quali è il titolare dell’ennesimo banco dei pegni trovato chiuso – che quel giorno, un sabato, cade la ricorrenza di Yom Kippur, importante festa ebraica. In quel giorno, tutti sono chiusi, anche quelli gestiti da cristiani, e in cambio gli ebrei chiudono sempre il loro banco a Natale, perciò ogni anno in quei due giorni i banchi dei pegni (contraddistinti dalla ben nota insegna con tre palle, esibita all’esterno) sono sempre tutti chiusi.
La sequenza venne girata in gran parte nella Terza Avenue, in East Manhattan, tutta in incognito, per ottenere la massima freschezza, con le reazioni del tutto spontanee dei passanti che si accorgevano dell’uomo vagante, con un’espressione allucinata, con la macchina per scrivere tenuta per il manico della scatola che la contiene. Per ottenere lo scopo, la macchina da presa era nascosta all’interno di un camion pieno di casse, e così nessuno potè accorgersi che si trattava di una finzione cinematografica. Credo sia la parte migliore del film, soprattutto sapendo del particolare della mdp nascosta; film che, francamente, mi è piaciuto assai meno di quella prima volta, trovandolo spesso eccessivamente melodrammatico, piuttosto inverosimile (soprattutto il finale, frettoloso e ben poco credibile) e decisamente, direi, datato, ben più di altri film girati in USA in quegli anni (i ’40, questo è del 1945). Era quella l’epoca d’oro del noir, cosiddetto, e di film così ne ho visti moltissimi negli ultimi due anni, e quasi tutti mi sono piaciuti, alcuni anche molto, e se li ho trovati, inevitabilmente, un po’ datati, mi sono però sembrati anche freschi e convincenti.

1: la frase viene pronunciata nel film da un detenuto che la legge su una lettera inviata dalla moglie del vero generale Della Rovere a quello fittizio, impersonato da Vittorio De Sica, e palesemente ha un effetto decisivo sulle sue successive azioni; fino all’ultima, quando si presenta, senza esservi costretto, di fronte al plotone d’esecuzione tedesco. Io mi sono permesso di modificarla leggermente, e la frase ‘giusta’ sarebbe “Quando non sai quale sia la via del dovere scegli la più difficile”.
2: rispettivamente, “Mr. Smith goes to Washington”, del 1939, e “Mr. Deeds goes to town”, del 1936.