The beat goes on


Una persona si allontana da noi voltandoci le spalle, istintivamente guardiamo nella sua direzione, seguendola per un po’, con un’azione del pensiero. Perché partendo essa ci sottrae, oltre alla sua presenza, molte cose che la sua presenza aveva creato in noi, occupando uno spazio, un volume. È un movimento istintivo e spontaneo il nostro, in-deciso, con certe caratteristiche di un fenomeno fisico, qualcosa di simile al principio dei vasi comunicanti, per cui togliendo da un contenitore parte del suo contenuto liquido, il vuoto che si forma deve al più presto essere riempito, o meglio, proprio formandosi questo spazio disponibile, che prima non c’era, lì si crea un ‘surplus’ di energia potenziale, che si trasmette a tutto il resto, e questo movimento mette bensì tutto lo spazio di quel contenitore in azione, provocando una rivoluzione del sistema di rapporti precedente [lo status quo]. Tutto ciò accade nell’ombra, sotto la superficie, traducendosi appena al di sopra in modificazioni dell’atteggiamento, mentre intere costellazioni di pensiero devono mutare forma e direzione, perché spostandosi il punto di vista cambia anche la percezione delle cose, quelle che abbiamo lasciato partendo (anche solo mentalmente) con chi ci ha lasciati, prendendo la sua stessa direzione e guardando indietro da laggiù, dove siamo arrivati seguendolo, anche solo con lo sguardo.
Innanzitutto, consideriamo come gran parte dei nostri progetti falliscono, e fallendo ci impongono un arresto, quando non ha più senso – improvvisamente lo ha perso – procedere nella direzione predeterminata, ché ha perso di valore e di interesse. Ci sono diverse valutazioni da fare, tutte positive, anche se è molto difficile constatarlo subito, tanto forte è il contraccolpo della delusione. Ad esempio, l’arresto di marcia, per l’impossibilità a procedere, impone di guardarsi intorno cercando una via alternativa, e l’attenzione viene rivolta anche a ciò che avevamo disprezzato e scartato, nel momento della decisione, ma che adesso, ripartendo da zero, riconsideriamo. Così ci troviamo di fronte a cose apparentemente diverse, ma che in verità sono poi le stesse, con un altro nome, e imbocchiamo strade che ci eravamo convinti non potessero interessarci, le imbocchiamo in un punto diverso da prima, venendo da un’altra direzione (stiamo infatti tornando sui nostri passi) e allora sono davvero diverse, altre strade. Ma anche l’inazione che spesso segue al fallimento può essere positiva e feconda, perché si attivano altri strumenti sensoriali, utili per una percezione diversa del luogo in cui ci siamo fermati; perché la nostra immobilità ci mette a confronto col movimento continuo di tutto il resto, e di questo spettacolo ci impregniamo, acquisendo dati preziosi, che ci sfuggirebbero passandovi accanto correndo, lo sguardo fisso verso l’obiettivo.
Fallire un progetto (e non deve per forza trattarsi di un fallimento totale, anzi spesso le imprese, o le opere, parzialmente fallite, o parzialmente riuscite, sono le più forti) significa anche conservarne la maggior parte di energia, quella inespressa, che rimane intorno ai resti dell’insuccesso, pregni di ciò che è rimasto nell’aria, ed è sempre ancora sul punto di manifestarsi, infinitamente disponibile a farlo. Il cosiddetto successo, quando consiste nella totale realizzazione delle premesse, nel completo trasferimento dalla sfera ideale, del possibile, a quella concreta del realizzato, del compiuto, ci espone al pericolo dell’idolatria, dell’adorazione di un simulacro che assorbendo nella sua forma tutta l’energia dell’idea l’ha effettivamente consumata, esaurendola, impotente ormai a suscitarne di nuova in noi.
Infine, la consapevolezza di non essere riusciti a realizzare l’idea mantiene in noi sempre vivo l’interesse per quell’entità sfuggente, che pure riusciamo ogni tanto a riprendere, anche soltanto per il tempo di un battito di ciglia, quando si ricompone davanti a noi nell’aria. Intorno a quei resti pare che resti infatti un alone, un pulviscolo in sospensione che ritrova occasionalmente una forma già perduta, che ancora perderemo, e potremo ancora ritrovare, indefinitamente.
Si potrebbe davvero dire che sta alla cura dell’artefice far sì che l’opera sia difettosa, imperfetta, parzialmente fallita quindi, in modo da lasciarla libera, alleggerita della zavorra della compiutezza, della perfezione, che consiste bensì in una cristallizzazione dell’energia presente nel momento della creazione. Il quale dovrebbe rimanere sempre aperto, permettendole di circolare e di rinnovarsi nel rapporto conoscitivo messo in atto dal fruitore. Sta nel non detto, nel non espresso (seppure intuito) la forza dell’opera veramente riuscita, o meglio nel giusto rapporto fra quella porzione invisibile e quanto si può invece percepire coi sensi (vista, udito, tatto, ecc.).

Momenti che vengono riconosciuti come errori all’interno di un progetto, di un’opera, potrebbero diventare elementi costitutivi di un’altra opera, di un differente progetto. Si verificano casualmente (è questa la natura dell’errore) e sono portatori di possibilità impreviste, che da quel momento in poi sono disponibili. Da lì si può ripartire, cambiando direzione, per seguire la strada che esso ci indica, anche se non sappiamo dove può portarci.

C’è nella fase di elaborazione, e poi nella realizzazione, di un’opera, un’accumulazione di energia che poi vi rimane per qualche tempo, progressivamente dissipandosi. Quindi l’opera rimane a rappresentare quel tempo così vitale, e anche quando nulla rimane, se non una sua descrizione, o la testimonianza, filtrata o rielaborata dal ricordo, proprio il ricordo può riuscire a riattivare quell’energia, rigenerando l’opera e riattivandola . Ma la memoria non distingue tra realtà effettiva (l’opera) e ‘immaginazione’ (il suo progetto, spesso più ampio, o diverso), così può essere ricordata, e perciò ricreata, altrettanto bene la seconda quanto la prima.

(testo scritto nel 2009 e revisionato oggi, 16 marzo 2023)

La mosca sul Monviso

L’altro giorno, mentre stavo dando un’occhiata al sito di e/static, mi accorgo che una certa immagine ha un difetto, una specie di macchiolina, e mi infastidisco un po’, dato che non so usare photoshop, quindi o la eliminavo, oppure me la sarei dovuta tenere così per sempre (il sito è prossimo ad essere, finalmente, ‘congelato’, diventando archivio a tutti gli effetti, non più modificabile). Guardando meglio, ho visto che non era una macchiolina, bensì una mosca, o meglio, un moscone, appoggiato su un vetro della finestra, in una posizione tale da farlo apparire più in alto della punta del Monviso sullo sfondo. Così sono andato a recuperare il file originale, per poterlo ingrandire e vedere bene il moscone, la cui presenza lì in quel punto trasforma l’immagine da quasi banale, nella sua icasticità (quel Monviso maestoso e solenne che pare fluttuare nell’aria a un km dalla casa di Sonia Rosso) a un qualcosa di veramente prezioso, un momento irripetibile di cui non credo mi fossi accorto mentre scattavo la fotografia, quasi dieci anni fa.
La mosca, anche se ci vuole molta attenzione per rendersene conto, una volta individuata come tale, aguzzando lo sguardo, immediatamente ruba la scena al Monviso. Che poi, a dirla tutta, non gliene poteva fregare di meno a nessuno dei due: alla mosca di sicuro, e men che meno al Monviso.

[testo di una mail a un’amica, scritta il 15 aprile 2022]

tre testi del 2019 sull’Isola in città

Primavera sull’isola

L’isola circolare con il bosco sopra, che attraverso spesso durante le mie passeggiate, oggi appariva nel suo pieno splendore, con le piante ormai tutte rigogliose, e per chi ci stava sotto, seduto o in piedi, la sensazione di benessere era intensa. Il vento dei giorni scorsi ha pulito l’aria, che ancora risplende, e sotto le piante l’ombra crea un forte contrasto con la luce intensa del primo pomeriggio. Una ragazza che avevo visto poco prima mentre era ferma su una strada non lontano da qui, mentre chiacchierava con un uomo, è riapparsa all’improvviso, camminando lentamente; si è poi fermata nei pressi di una pianta delle più grandi e si è appoggiata al suo tronco, rimanendovi per qualche minuto a guardare verso il recinto eptagonale al centro dell’isola dove giocano i bambini, oggi particolarmente chiassosi, irresistibilmente felici.

(scritto il 20 aprile 2019)

Tre volte nel bosco

Per una serie di coincidenze, sono passato in largo Montebello tre volte nel giro di 24 ore, fra le 17:15 circa di ieri e le 17:45 di oggi. Ieri ero da S., quando stavo per uscire dal suo laboratorio si è messo improvvisamente a piovere, mentre gran parte del cielo era sgombra di nubi e c’era il sole. Sembrava che avesse smesso, così ho deciso di uscire, ma quasi subito ha ripreso a piovere forte, così mi sono fermato sull’isola al centro del largo, dove avevo individuato alcuni punti in cui il pavimento era ancora asciutto, perché lì la pioggia veniva evidentemente filtrata da molti strati di rami sovrastanti. Non ero il solo lì sopra, c’erano anche due ragazzi, che dopo aver temporeggiato per un po’, mangiucchiando da un sacchetto (forse patatine fritte) se ne sono andati, anche se la pioggia non aveva ancora smesso. Io ho resistito ancora a lungo, alla fine ci sono stato per circa un’ora, e quei due o tre minuscoli posti asciutti sono stati raggiunti a loro volta dalla pioggia, anche se lì ne arrivava un po’ di meno. Mi sono mosso quando sembrava che la pioggia calasse (falso allarme…) dirigendomi verso casa.
Stamattina sono passato di lì intorno a mezzogiorno, splendeva il sole, ma non c’era molta gente, per lo più bambini piccoli con i propri genitori. Si sentiva soprattutto la presenza di un uccello (che non ho saputo riconoscere), invisibile ma molto sonoro, che ha cantato per tutto il tempo (10 o 15 minuti) in cui sono rimasto lì seduto su una panchina. Si stava davvero bene, me ne sono andato soltanto perché era quasi venuta l’ora di pranzo.
Nel pomeriggio, poco dopo le 17:30, ero di nuovo lì, venendo da un negozio che si trova nei pressi. C’era molta gente, neanche una panchina libera, ma per quei pochi secondi durante i quali ho attraversato il boschetto sull’isola ho di nuovo percepito un’intensa sensazione di benessere. Stavolta ho notato quanto profonda fosse la penombra lì sotto (a quell’ora c’era un bel sole) e i volti delle persone si intravedevano appena. Immagino che chi si trovava lì a parlare con altre persone dovesse concentrarsi per vedere bene in faccia il suo (o i suoi) interlocutore, quindi tutto fosse lievemente rallentato. Sì, credo che il senso del trascorrere del tempo, per chi si trovava lì, fosse diverso da chi camminava fuori, più lento, e la parlata, così come l’ascolto, più misurati e attenti.

(scritto il 22 maggio 2019)

Cortei di bimbi verso l’isola

Un giorno d’estate (primi giorni di luglio) ero seduto su una panchina dell’isola quando vidi arrivare dalla strada a sinistra rispetto a dove ero io – quindi da SE – un insolito corteo. C’erano almeno 10/12 bimbi, i più grandi sui 4/5 anni, i più piccoli 2 anni o anche meno, accompagnati da due donne. Evidentemente i bimbi di un asilo, probabilmente privato (anche perché quelli pubblici in estate chiudono) accompagnati da due maestre. Una delle quali era piuttosto giovane, mentre l’altra, che guidava il corteo, doveva avere almeno 50 anni. Tutti erano collegati da una corda, piegata in due parti a metà, a cui ogni bimbo stava attaccato con una mano, mentre la maestra più anziana stava davanti, tenendo la corda nel punto di piegatura, e la più giovane in fondo, tenendone in mano i due capi. La maestra alla guida del gruppo si girava continuamente per tenere sott’occhio i bimbi, dicendogli spesso qualcosa, perché non mollassero la presa sulla corda e continuassero a camminare al passo con tutti gli altri, mentre quella in fondo a sua volta li sorvegliava, ma più discretamente. Il piccolo corteo non poteva passare inosservato, e tutti i presenti sull’isola in quel momento guardarono in quella direzione, incuriositi dall’apparizione. I bambini entrarono poi nel recinto dei giochi al centro della rotonda, riservato proprio a loro, e cominciarono, liberatisi della corda, a sciamare in tutte le direzioni, strillando e ridendo, chi direttamente verso giochi e altalene, chi semplicemente correndo intorno, per il puro piacere della libertà, lì dove nessuno dei pericoli incombenti al di fuori – prima di arrivare sull’isola, e poi anche dopo, prima di entrare nel recinto dei giochi – era più presente. C’erano già altri bimbi nel recinto, e si mischiarono agli ultimi arrivati, così lo schiamazzo aumentò di intensità, e l’aria sotto le chiome della alte piante si riempì di grida e risate. Le maestre facevano il loro lavoro, non perdendo mai di vista neanche un bambino, e intervenendo nelle situazioni più delicate, per sedare un battibecco, oppure per evitare che i più piccoli, soprattutto, rischiassero di farsi male per imprudenza.
Era meraviglioso tutto ciò, e non riuscivo a staccare gli occhi dal recinto, dove tante piccole cose – importantissime per i protagonisti – accadevano continuamente, ed era perfino impossibile seguirle tutte [Playtime di Tati]. Era evidente come per loro quel luogo avesse qualcosa di magico ed esprimevano la loro gioia per trovarcisi dentro con la massima spontaneità e senza mezzi termini, urlando, ridendo, correndo. Ma dovevo andarmene, per un impegno, così mi alzai dirigendomi verso la via a SO, passando però accanto al recinto, perché volevo vedere meglio, più da vicino, quei bimbi. Soprattutto d’estate, quando splende il sole, lì sull’isola c’è sempre una penombra, ma nel recinto essa è puntinata da piccoli raggi di luce che penetrano fra i varchi aperti fra le chiome sovrastanti. La luce che viene così a crearsi ha qualcosa di irreale, è come se quei raggi fossero accuratamente predisposti per illuminare la scena in quel modo unico, probabilmente ipnotico e incantatorio per chi si trova nel recinto. Ed essendoci su quasi tutto il suolo un materiale sintetico, morbido e fonoassorbente, non si sente quasi alcun rumore che non siano grida e risa dei bimbi. Mentre mi stavo allontanando, uno di loro mi si è rivolto per dirmi qualcosa sorridendo, con molta naturalezza, come se mi conoscesse, ma io non ho potuto capire bene le sue parole, e gli ho risposto annuendo e ricambiando il suo sorriso.

Tornando lì dopo circa mezz’ora – stavolta provenivo anch’io da SE – ho incontrato lo stesso corteo mentre tornava verso l’asilo, con la stessa formazione molto composta e organizzata, tutti attaccati alla corda. Ora la maestra più anziana parlava, o meglio cantava a voce abbastanza alta, una specie di canzone/marcia, con voce stentorea, scandendo le parole, faceva sentire la sua presenza ai bimbi rassicurandoli e incoraggiandoli a marciare tutti uniti. C’era qualcosa di strano nel suo comportamento, e in questo canto scandito, qualcosa che, io credo, piaceva ai bimbi, calamitando la loro attenzione e cementando la loro unione, mentre si ritrovavano, dopo l’uscita da quell’oasi, nel mondo pieno di insidie e di pericoli, del tutto ignoti e imprevedibili per loro. Ma non avevano bisogno di conoscerli, non sarebbe neppure servito a molto, e la maestra non gliene parlava, ma li teneva avvinti a sé attraverso quel canto prodigioso, a cui tutti si affidavano, rapiti, trovando così la strada sicura del ritorno.
C’era un forte senso di precarietà, fragilità, assoluta vulnerabilità, in quel gruppo di piccolissimi uomini e donne, io lo percepivo distintamente, soffrendone quasi, mentre li guardavo allontanarsi da me, seguendo fiduciosi le loro due maestre, una nonna e una mamma.

Qualche tempo dopo, ero di nuovo lì quando arrivò un altro gruppo di bimbi, questi più grandicelli degli altri. Ancora, il gruppo procedeva compatto verso il recinto dei giochi al centro dell’isola, ma senza alcun elemento tangibile, come la corda, a cui tenersi aggrappati, come gli altri. C’era apparentemente una maggior disciplina, mantenuta da una maestra che palesemente guidava tutto il gruppo, con un’autorità maggiore rispetto alle altre, due credo. Doveva avere almeno 35 anni, sembrava molto sicura di sé e controllava il movimento dei bimbi (forse una quindicina, se non di più) servendosi di ordini pronunciati a voce alta, impartendo precise regole a cui tutti i bimbi dovevano obbedire. Appena entrati nel recinto, subito, con mio stupore, li fece sedere tutti a terra, formando un cerchio, e ricordando loro – mi sembrò di capire – certe norme che dovevano avere appreso in precedenza, preparando la sortita dall’asilo (ma poteva anche essere una scuola, forse erano bimbi della prima classe elementare, iscritti a una scuola estiva). Intanto le altre due maestre si occupavano di sistemare lì intorno certe borse contenenti forse bicchieri e altro, probabilmente per uno spuntino di metà mattina. Mi allontanai da lì per certi impegni, tornandovi dopo circa mezz’ora, e loro c’erano ancora. Ora si sentiva, a volume abbastanza alto, musica ballabile, una cosa molto pop, corale credo, emessa da due altoparlanti (evidentemente portati anche quelli dalle maestre) e i bimbi, tutti bene organizzati, ballavano battendo le mani sopra la testa, unendosi al canto. Le persone presenti sull’isola in quel momento osservavano la scena, alcune di loro sorridendo compiaciute di assistere a quello spettacolo. Mi parve che i bimbi fossero stati portati lì per fare una cosa che avrebbero potuto fare in molti altri posti, quasi ovunque, ma quello non era proprio il luogo giusto. Per la maestra che guidava il gruppo, credo che la cosa più importante fosse tenerli occupati e irreggimentati, scongiurando eventuali rischi provocati dai soliti giochi molto liberi che tutti i bimbi fanno una volta entrati nel recinto. Non credo che fossero stati invitati ad apprezzare la singolare bellezza del luogo, la sua unicità, e mi sembravano quindi (forse esagero, ma non ne sono così sicuro) disadattati, collocati lì come oggetti, sia pure vivi, mobili e parlanti, per fare cose che piacessero anche a loro, ma soprattutto alle maestre e agli altri adulti presenti in quel momento. Magari non ancora disadattati, ma già incamminati / preparati a diventarlo, da grandi: già abituati a eseguire ordini, e a fare cose che altri avevano deciso, in vece loro, che avrebbero fatto. Non mi sembravano liberi e spensierati, gioiosi, come gli altri, quelli attaccati alla corda prima di arrivare sull’isola e dopo esserne usciti. Tutto ciò mi sembrò piuttosto penoso, perciò, sentendomi molto a disagio, me ne andai subito da lì, senza più voltarmi indietro.

(scritto il 2 agosto 2019)

Un luogo perduto

Questi tre testi li ho scritti circa un anno dopo Un’isola in città (pubblicato su Vita in città), e si riferiscono allo stesso luogo. A quell’epoca lo frequentavo ancora spesso, era un passaggio per me obbligato quando dovevo andare in centro (anche perché l’altra possibilità, un incrocio sullo stesso corso, è scomodo e anche pericoloso da attraversare), oppure andando o tornando dal laboratorio di S., una consuetudine che ho smesso da circa due anni e mezzo.
In questo periodo tante altre cose sono cambiate in modo radicale, ad esempio non vado neppure più, quasi mai, in centro, una zona della città che ora mi appare infida, o addirittura ostile, in cui mi trovo a disagio. Lo stesso luogo è cambiato, divenendo a sua volta meno accogliente per me, quasi estraneo, rispetto a quell’epoca.
Sì, è entrata in vigore una nuova viabilità, non si circonda più completamente la rotonda, ma soltanto in parte, in due diverse direzioni. Ma le case intorno sono sempre le stesse, così le piante che ci stanno sopra, intatte, e le stesse persone che la frequentano, per lo più abitanti nella zona, sono più o meno le stesse. Ora però quel luogo non esiste più, è soltanto un ricordo, e posso ritrovare quella certa atmosfera, ormai perduta, soltanto rileggendo questi quattro testi.

Incontri nel bosco

Quel mattino cadde ben presto preda della sua irresolutezza, e si trovò in auto andando senza convinzione, dopo aver deciso, stancamente, dove si sarebbe diretto. Un ripiego, scelto meccanicamente, senza neppure pensarci troppo (e poi, a che scopo? le alternative erano ben poche).
Poi arrivare là, all’imbocco di un sentiero ben noto, ogni passo, si può dire, già fatto tante altre volte in passato, l’ultima soltanto pochi mesi prima. È anche piuttosto tardi, e non avendo portato niente da mangiare sa che dovrà tornare presto, dopo aver percorso forse neppure la metà della camminata, diversamente da tutte le altre volte. Si sente un imbelle, un senso di delusione, perfino di disgusto, lo invade, togliendogli quasi ogni interesse in quel che sta facendo, e che avrebbe fatto.
Eppure lì, quel giorno, doveva accadere, quei momenti impensati, inattesi, ma come preparati dai primi incontri con esemplari di altre specie, più ordinari, meno ambiti; e poi quegli altri, dai colori bellissimi, che però non si possono mangiare, e nessuno li raccoglie.

loro mi hanno messo sulla via giusta, senza che me ne rendessi conto, vederli, e poi fermarmi ad ammirarli, mi ha preparato a quei due incontri.

Il sentiero, ancorché ben tracciato, è stretto, spesso troppo stretto, e ogni tanto si vede poco, a causa dell’erba alta o dei forti contrasti fra luci e ombre. Ma al di fuori c’è il bosco intricato, scomodo da percorrere, costellato di rovi, con salti improvvisi e rami bassi che si frappongono impedendo di camminare agevolmente. Lì perdersi è piuttosto facile, ci si deve muovere con cautela, misurando ogni mossa prima di compierla, già al primo passo si percepisce l’incertezza, ci si sente insicuri, si esita.

era come se mi stessero aspettando, tutti e due, soltanto io potevo arrivare lì quella mattina, oppure mai, perché già il giorno dopo sarebbe stato troppo tardi, perduto il loro fulgore discreto, la loro forza trattenuta, appena dissimulata; gli animaletti del sottobosco, lumache soprattutto, li avrebbero mangiati.

Sporgevano, con uno strano mix di fierezza e discrezione, dal fitto spessore del sottobosco: la loro forza, crescendo, deve essere irresistibile, tirano su erba, ramoscelli, anche piccole pietre se ce ne sono. Tutti e due li aveva presentiti, attimi prima di vederli una sensazione breve ma intensa lo ha avvertito e così si è diretto, finalmente risoluto, là dove aveva vagamente intuito che ne avrebbe potuto trovare almeno uno, oltre una soglia. Aveva subito capito che quella, quelle, erano soglie per entrare nei due luoghi dove li avrebbe trovati, due piccole radure irregolari, relativamente sgombre di rami e rovi.

il primo era sul pendio a circa 130 cm di altezza rispetto al punto in cui mi trovavo quando l’ho visto; il secondo appena un po’ più in alto, direi 150 cm; non erano in basso, ma a un’altezza umana, così non dovevo piegare la testa per vederli, e loro stessi potevano vedermi bene.
perché, ne sono certo, mi stavano aspettando.

Sono stati momenti, pur nella loro brevità, intensi e galvanizzanti, che lo hanno riempito, e rimarranno in lui ancora per diversi giorni.

percepisco ancora quella sensazione, o quantomeno me la ricordo ancora bene.

Una volta trovati, stare lì a lungo, senza neppure più guardarli, se non per pochi attimi di quando in quando; basta essere lì, a pochi passi, sapere che ci sono: questo soltanto conta.
Ora è al centro del mondo, e quel punto coincide con il suo proprio centro, per una volta.

sì, rimanere lì calmi, rilassati, senza alcuna fretta, perché quello è il posto, finalmente ci sono arrivato, e non c’è fretta di fare l’ultimo gesto, staccarli, prima uno poi l’altro, dalla terra, con delicatezza ma anche forza, per farli uscire integri.

Un gesto ben meditato, preparato, e vissuto con intensità, indimenticabile: una mano per afferrare il grosso e forte gambo, l’altra per facilitare il distacco dalla terra.

prima, per qualche minuto, la silenziosa attesa di quel breve gesto, ma senza troppo pensarci, perché sapevo che sarebbe avvenuto con naturalezza, senza neppure deciderlo, così tutta la sua intensità sarebbe stata percepita, per pochi istanti di assoluta pienezza.

Una volta staccati, tenerli in mano è come tenere in mano la propria vita, con una sicurezza che è altrettanto forte quanto labile, perché non può che durare poco. Ma sarà lungamente ricordata, dopo.

[revisione del 19-20 settembre 2022]

Suonare lo spazio espositivo

In certe esperienze musicali alla fine degli anni ’50, ad esempio, nell’ambito della musica pop, credo si possano riconoscere i primi esempi di installazione organica, ovvero di ciò che, qualche anno dopo, si cominciò a fare nel campo delle arti visive, differenziandosi dall’approccio consueto; il quale consisteva nell’appendere singoli quadri alle pareti e collocare singole sculture sul pavimento, lì nei pressi, compresenti, talvolta, ma senza che si stabilisse realmente una relazione fra di loro, e con lo spazio, che fungeva da mero contenitore. Ecco, in certe produzioni di Phil Spector, e dei suoi collaboratori o epigoni, come Larry Levine, Van Dyke Parks e Brian Wilson, lo spazio non è più un elemento passivo, dove inserire gli strumenti musicali per registrarli, ma diventa esso stesso uno strumento, ovvero suona (o risuona) insieme agli altri strumenti. Ogni creazione, ogni pezzo, anche molto breve, come usava allora, è in effetti un collage di suoni, voci, rumori, echi messi insieme accuratamente (per successive aggiunte, uno dopo l’altro) in quello studio, in un determinato momento, in modo tale da collegare fra loro tutti gli elementi (propriamente ‘musicali’ e non), creando appunto un organismo. Esiste, sì – per lo meno esisteva sicuramente a quel tempo – la composizione musicale, trascritta, o trascrivibile, su uno spartito, come era sempre stato, ma quel che si ascolta sul disco è qualcosa di irripetibile, di cui spesso è impossibile farsi un’idea soltanto leggendo lo spartito (per chi è in grado di farlo). Prima, la registrazione rimaneva fedele alla fonte (lo spartito), qualcuno cantava, altri suonavano, e chi fosse andato a vederli cantare e suonare dal vivo avrebbe agevolmente riconosciuto la canzone, perché era facilmente riproducibile anche in quel contesto. Dopo, a partire appunto da Spector e dagli altri, sarà sempre meno possibile, perché la registrazione si avvarrà, sempre più, di elementi eterogenei che non sarebbe stato possibile riutilizzare dal vivo, soprattutto il luogo, ovvero quella sua propria sonorità – una certa peculiare attitudine a reagire a suoni e voci prodotti al suo interno – che non poteva, ovviamente, essere riprodotta altrove1.
Nel campo delle arti visive, l’installazione, già al suo primo apparire, è allora qualcosa di diverso da prima, senza precedenti, si può dire, nel passato, e questa differenza diventa fondamentale quando, appunto, si attua la trasformazione dello spazio espositivo da semplice, passivo contenitore a co-protagonista, insieme alle opere, di una mostra. E come avveniva in campo musicale, a partire dai succitati e poi sempre più intensamente (George Martin e i Beatles, i Rolling Stones, i Kinks e svariati altri negli anni che seguirono), quando da un certo momento in poi si venne a creare una insanabile e sempre più accentuata diversità fra la registrazione di un pezzo e la sua esecuzione dal vivo, anche nell’arte, se è possibile vedere riprodotti fotograficamente particolari di una certa installazione, è però impossibile esperirla compiutamente, se non si è potuti andare , dove la mostra era allestita. Ciò che è soprattutto – ma non soltanto – evidente quando essa comprende elementi sonori, che pure si potrebbero ascoltare, riprodotti su disco o su nastro, o altro supporto, ma non nello stesso modo che era possibile fare là, in quello spazio espositivo.

Penso a un certo tipo di installazione, dove lo spazio non si limita a contenere una o più opere d’arte ma suona insieme a loro, come loro, a tutti gli effetti un elemento dell’installazione, un suo componente fondamentale.

A proposito di certe registrazioni (Spector ecc.): ne viene una unicità dell’esperienza, che non è più ripetibile. La prima volta è anche l’ultima. Ovvero, se è possibile riascoltarla, per un numero potenzialmente infinito di volte, è impossibile ricrearla. Come avviene per certe performance artistiche, e per certe installazioni, realizzate in quello spazio.

1 In quegli anni si cominciò a fare uso, in certi studi di registrazione, delle cosiddette echo chamber, luoghi appositamente costruiti per creare determinati effetti di riverberazione del suono che prima di allora si potevano trovare sia in natura – grotte o piccole valli – oppure in certi grandi spazi all’interno di edifici, come cattedrali, auditori ed altro; dove spesso tali effetti erano ricercati, per aumentare la potenza, e anche la ricchezza, del suono di voci e strumenti musicali, sicché i costruttori includevano anche tale scopo fra gli altri più convenzionali, come ampiezza, stabilità e solidità. Se si pensa alla musica, soprattutto quella corale polifonica, del Medio Evo e del Rinascimento, essa non poteva, e non potrebbe tuttora, essere eseguita, come le conviene, in luoghi diversi da certe grandi chiese, e addirittura i compositori tenevano conto di certi effetti acustici inerenti alla cattedrale in cui lavoravano (spesso erano monaci), nella creazione delle loro opere. È interessante notare come nella musica cosiddetta popolare si cominciò a sentire, in quel giro di anni, il bisogno di creare, a differenza del passato quando il suono era sempre asettico e secco, senza alcuna impurità, quindi irreale, registrazioni che tendevano a riprodurre le sonorità dei luoghi fisici abituali, in cui rumori e condizioni ambientali concorrono a definire tutto ciò che vi si ode.

[questo testo è stato scritto nel mese di novembre 2021]

Quel che non va

7 novembre 2021, ore 12:28

Un’atrofia intellettiva quanto fisica limita fortemente la capacità, per molte persone, di vivere veramente, direttamente, senza mediazioni. Spesso si guardano gli altri, magari su uno schermo televisivo, si assiste alle loro vite, esperienze, sofferenze, gioie, si demanda ad altri il rischio, ma anche il guadagno, quando c’è, risultante da qualsiasi esperienza oltre i limiti fissati per tutti dalla società. Analogamente, l’esperienza estetica la si lascia fare agli artisti – di arte visiva, cinema, teatro, eccetera – che hanno così il compito, affidatogli (o meglio, riconosciutogli) anche in questo caso dalla società, di mostrare agli altri, la cosiddetta gente comune, quello che fanno, perché essi lo ammirino, seduti o in piedi ma sempre dall’altra parte di uno schermo spesso invisibile (il quarto muro). E le cose fatte, opere, film, performance e altro, si devono andare a vedere negli spazi istituzionali, deputati a svolgere tale funzione: gallerie, musei, teatri… Ma tanto, tantissimo, avviene continuamente ovunque, al di fuori di quei luoghi, ignorato da quasi tutti, che riservano la propria attitudine a cogliere eventi anomali e conturbanti soltanto a ciò che viene presentato in quei contesti. Tanti, troppi, si adattano ad occupare esclusivamente il ruolo di spettatore, un ruolo passivo, limitante al massimo, alla lunga castrante.

Non è neppure questione di luoghi ‘deputati’, non soltanto, ma piuttosto l’ostinarsi a cercare l’insolito, il bello, il sorprendente, chiamalo come vuoi, sempre e soltanto nella direzione indicata dal sistema. Gli artisti indossano tutti una divisa invisibile, senza di quella è come se non succedesse mai niente di particolarmente interessante: non si vede, non ci si fa attenzione.

Ci siamo abituati a considerare più interessante, più degno di attenzione ciò che ci viene proposto all’interno di una cornice, in un luogo istituzionale, preposto al compito, cinema, teatro, galleria, museo. Ma molto altro, spesso ben più interessante e stimolante – anche perché imprevisto, improvviso, che accade al nostro cospetto trovandoci impreparati – avviene, o può avvenire continuamente e ovunque, dentro e fuori le case, per strada, camminando o guidando un’auto, oppure spostandoci trasportati da un treno o da un tram. E chiunque può notare come molta gente compia queste operazioni in uno stato di isolamento dal contesto che la circonda, di disattenzione quindi, aggrappati ai propri dispositivi audiovisivi, che attraggono la massima parte della loro attenzione, sia alle immagini sia a suoni e rumori.
Non sono del tutto contrario all’esistenza di certi luoghi, bensì al loro – di quasi tutti direi – enorme potere di astrarre dal contesto, creando cortine che limitano fortemente vista e udito del visitatore impedendo la percezione sensoriale del mondo (lasciato) fuori. Quindi mi piacciono molto di più i musei, o le gallerie, dove si può vedere fuori nello stesso momento in cui si osserva qualcosa che sta dentro, e magari una proiezione video o cinematografica che non avviene in uno spazio del tutto buio, avulso dal mondo, ma in un altro ‘in between’, dove al massimo c’è una penombra, ma si può vedere e udire anche altro, oltre a quel video, a quel film.

Un’esperienza che ha luogo in forma di rivelazione, come una smagliatura nella normalità. È sempre improvvisa e inaspettata, quindi la possibilità di favorirne o provocarne l’accadere in un luogo deputato, istituzionale, è labile, con qualche rarissima eccezione.

Esiste una volontà precisa, attuata da chi agisce come suo strumento, di incanalare, formalizzare, mettere ogni tassello – o presunto tale – al posto giusto, quello che un’autorità astratta ma potentissima, a cui coloro obbediscono, ha assegnato. Questi agenti sono irresistibilmente attratti da certi luoghi deputati, verso i quali convergono, e sono accompagnati durante le loro azioni dal suono di parole magiche, che designano un certo ambito, quello che insiste in detti luoghi deputati (siano essi fisici o virtuali). L’esempio più calzante di tali parole, o modi di dire, è sicuramente “l’arte contemporanea”, un’espressione che non significa realmente nulla, ma tende bensì a includere in un ambito astratto una moltitudine di cose, spesso del tutto diverse fra loro. Se si chiede a qualcuno che usa questa espressione il suo significato preciso, lo si può mettere facilmente in difficoltà, perché ciò che essa designa non esiste nella realtà.
Un’altra parola magica, spesso associata a quell’altra espressione, è sistema, il sistema dell’arte contemporanea, e quando pronunciano queste poche parole tutte insieme, il tono di voce di detti agenti è grave, addirittura solenne, e ci si aspetta che nessuno dell’uditorio osi controbattere alla potenza di questo ente astratto, rappresentato in tale espressione.

(scritto il 2 ottobre 2021)

Indiani riluttanti

Una volta venuti al mondo, impariamo ben presto a uniformarci a un sistema di norme altamente mistificatorie, che sono peraltro diventate assai probabilmente necessarie e ineludibili per poter vivere nella cosiddetta società. Trascuriamo così di addentrarci nei misteri che ci circondano e che sono anche dentro noi stessi. Ciò che importa è non dimenticarsene, e frequentarli di quando in quando, pur senza abbandonare, non del tutto e non definitivamente, quel rassicurante sistema. C’è sicuramente qualcosa di schizofrenico in questo atteggiamento, ma esso è preferibile a una completa adesione a uno soltanto dei due versanti (quello mistificatorio o quello dell’abbandono ai misteri). Perché nel primo caso saremmo sognatori ancora non desti, e possibili pedine di un gioco gestito da altri, nel secondo ci potremmo perdere, come chi nuota verso il largo senza sapere se troverà un approdo sicuro quando, inevitabilmente, gli mancheranno le forze.
Non è probabilmente possibile fare a meno di percorrere le due vie in parallelo, frequentando ora una ora l’altra, ma senza spingersi mai troppo lontano da ognuna.

(avevo scritto questo breve testo – di cui mi ero dimenticato, fino a oggi – alla fine di marzo del 2017; non ricordo proprio perché volli dargli quel titolo, che peraltro mi sembra arricchirlo, proprio per la sua apparente – o probabile – assoluta estraneità, e perciò glielo lascio volentieri)

Il Chilometro di W.

La foto, bellissima, del bimbo piccolo che tocca con un dito, con grande delicatezza, il capo emergente del Vertical Earth Kilometer [che tradurrei come chilometro verticale terrestre] di Walter De Maria, a Kassel, l’ho trovata sulla pagina svedese di Wikipedia dedicata a quest’opera. Non so quando sia stata scattata, magari trent’anni fa (se non addirittura proprio nei giorni di documenta 6, nel 1977), ora quel bimbo è un uomo (oppure una donna) adulto, magari alto un metro e ottantacinque, è cresciuto, anzi avrà ormai smesso di crescere. Il Chilometro intanto è rimasto fermo, intatto e immutato, sempre lì dove è stato infisso: due situazioni collegate, affini, complementari, ma inconciliabili fra loro. Perché un essere umano si muove, cresce e cambia, e a un certo punto finisce, il tondino di ottone no, niente di tutto questo. Ma lui/lei lo tocca, e forse in una certa misura contribuisce, in maniera infinitesima, ad usurarlo, e se ogni giorno molte persone facessero la stessa cosa, toccassero lì, il chilometro, dopo milioni o miliardi di anni, si consumerebbe, considerando che le persone (ma non soltanto le persone, qualsiasi essere vivente, le stesse intemperie), stando lì nei pressi, con le loro azioni, sia pure involontarie, alla lunga provocherebbero anche un abbassamento del terreno intorno al tondino, sempre maggiore, fino ad arrivare al termine opposto, ora così lontano dal suolo, immerso nel buio più profondo.

Non credo di avere mai visto la faccia emergente del Kilometer, anche se potrei esserci passato vicino, l’unica volta in cui visitai Kassel, nel 1997, venti anni dopo la sua installazione, là dove ancora si trova, nella piazza di fronte al Fridericianum. Potrei addirittura averla calpestata senza avvedermene, dando così il mio contributo a quell’utopica operazione di consunzione.
Vidi invece, l’unica volta in cui andai a New York, il Broken Kilometer realizzato da De Maria due anni dopo. Si può dire sia la stessa cosa, anche se in questo caso il chilometro è diviso in 500 tondini di ottone tutti uguali fra loro, ognuno lungo due metri, largo due pollici (poco più di 5 cm). In questo caso l’energia – non soltanto virtuale, o immaginata, ma reale – dell’opera è come dissipata, attraverso tale minuto frazionamento. O meglio, si trasforma, agendo ora come peso che insiste sul pavimento della sala nella Dia Art Foundation dove è allestita dal 1979. In questo caso, l’opera, privata della sua estensione massima, che le permetteva di entrare nella Terra per un chilometro, è come se avesse acquistato in mobilità1, anche se soltanto presunta, immanente, dato che – per quanto se ne sa – nessuno l’ha mai più spostata da dove si trova, forse neppure una delle sue 500 parti costitutive, peraltro piuttosto pesanti (circa 35 kg)2.
Sicuramente la scelta di De Maria, di realizzare questa versione ‘scoperta’ del Kilometer (volendo, si potrebbero mettere i cinquecento tondini tutti in fila, in modo che si tocchino sui due capi, per ottenere un solo tondino lungo un chilometro) fu del tutto sensata, per mostrare un’altra faccia dell’idea, un’altra possibilità. E quest’opera – nelle sue due versioni – apparentemente così algida, così distante dalla misura umana, a noi aliena e quasi ostile, mi sembra rappresentare molto bene, in maniera non esplicita – e non didascalica –, bensì ineffabilmente, certi caratteri dell’essere. È quindi, indiscutibilmente secondo me, un’opera attinente alla sfera del pensiero, prettamente filosofica.

1: qualche commentatore ha scritto su come i cinquecento tondini, allineati in cinque file parallele di cento, paiano danzare.
2: in verità, ogni due anni tutti i tondini vengono accuratamente lucidati da Patti Dilworth (moglie di Bill, colui che si occupa della cura della Earth Room, dello stesso De Maria) fino a diventare, secondo le sue stesse parole, “… così pieni di luce da non sembrare nemmeno più metallo. È quasi calore radiante. Talmente bello, qualcosa come un bagliore mormorante.”

Un sacello sulla montagna, tornando dal lago

Tornando dal lago, meta della mia escursione, sono su una strada sterrata quando passando accanto a un alpeggio abbandonato e in rovina noto un piccolo, curioso ponticello fatto con lastre di pietra, la più grande delle quali, messa in piano, sormonta un piccolo corso d’acqua del tutto asciutto. Nonostante la stanchezza, dopo una giornata intensa e galvanizzante, ma anche sfinente, sono incuriosito e decido di raggiungerlo, è proprio vicinissimo alla strada. Lo percorro – giusto pochi passi sulle pietre lievemente traballanti, soprattutto quella grande in piano – e mi accorgo, solo quando sono a metà, che porta a una piccola costruzione, a sua volta in pietra, la cui porta è aperta e sembra invitarmi ad entrare. Come mi accorgerò dopo, la casetta è la sola rimasta integra, muri e tetto praticamente perfetti, e un’iscrizione sull’architrave dice che venne sistemata1 nel 1999, unica dell’alpeggio, composto di almeno quattro costruzioni. Ancor prima di entrare mi accorgo, guardando dentro, della sua particolare fattura: i due muri lunghi, perpendicolari all’entrata, si stringono, già a partire dal pavimento, salendo verso il soffitto, come per comporre una volta a botte. Ma non si tratta di quello, dato che il soffitto, interrompendo la curvatura delle due pareti, è piatto: quattro grandi lastroni di pietra, appoggiati sui muri, lo formano, e l’effetto è sorprendente, non credo di aver mai visto niente di simile. A terra, in corrispondenza dei quattro grandi lastroni del soffitto, sono sistemate, messe a loro volta in fila, sei pietre, altrettanto piatte, ma più piccole di quelle del soffitto: le prime due partendo dalla soglia più grandi e più spesse, le altre, oltre che più piccole, più sottili, e due hanno una forma quadrangolare quasi perfetta; soprattutto una, quella al centro della linea, è un perfetto quadrato. Altre pietre sono sparse piuttosto disordinatamente sul pavimento, quasi tutte piccole, e fra di esse spuntano piantine verdi, anche qualche felce; sull’angolo in fondo a sinistra, proprio sotto una mensola triangolare infilata a mezz’altezza fra i due muri, della terra smossa. Nell’angolo opposto, quindi a destra rispetto all’ingresso, una piccola apertura obliqua, allo stesso livello della mensola a destra. Ci sono altre due aperture su quel muro, al centro, una sopra l’altra, la più grande sotto, ma tutte e due sono semi-sigillate da qualche piccola pietra. Dopo aver esplorato il muro di fondo – quello appena descritto – mi siedo nei pressi della porta, su una pietra piatta piuttosto grande messa proprio a sinistra, subito dopo l’entrata, e sto lì, fermo e silenzioso per diversi minuti, almeno dieci, ma forse anche di più, non posso ricordarmelo. Giro lentamente lo sguardo ovunque, sulle pareti e sul soffitto di quel piccolo sacello (a occhio, il pavimento sarà poco meno di due metri sui due lati corti e circa due metri e mezzo quelli lunghi)2 e intanto ascolto. Sento passare sulla strada la comitiva che avevo visto su al lago, e che si era mossa per ridiscendere verso la strada una decina di minuti dopo di me, poi forse un’auto, che avevo visto ferma a una curva poco prima. Non so quale potesse essere la destinazione d’uso di una simile costruzione: si potrebbe pensare a una piccola stalla, forse per poche capre, ma non ne sono convinto, anche a causa di quella strana, bellissima mensola triangolare, là dove si potrebbe appoggiare una candela, o qualche altra cosa di nessun interesse o utilità per capre o altri animali. Piano piano, sempre più intensamente, mi convinco di una destinazione non utilitaristica, ma in qualche modo spirituale, ciò che, me ne rendo conto benissimo, non avrebbe alcun senso in un luogo simile, dove tutto doveva avere un chiaro e concreto scopo, un’utilità, per il bestiame o per gli uomini che l’accudivano: non potrebbe essere altrimenti, vista l’enorme fatica che era necessaria per costruire questi alpeggi, spostando e innalzando pietre anche grandi, spesso pesantissime. Ma quella convinzione rimane in me, rafforzata dal silenzio e dalla poca luce lì dentro, proveniente dall’entrata (ci sono i cardini, ci doveva anche essere una porta in legno, un tempo) nel pieno di una delle più assolate e abbaglianti giornate di questo agosto. Un contrasto, quello fra il dentro e il fuori, che mi sembra fondamentale per accentuare la natura di quel luogo riposto, perfetto, direi proprio, per viverci un’esperienza, lunga o breve (oggi non ho molto tempo, sono anche stanco, ma ci tornerò) intensamente contemplativa e di meditazione, alternando la visione dell’interno a quella verso l’esterno, e intanto ascoltando, sempre. Mi viene ben presto di pensare, come la cosa più naturale, a ciò che accadde circa quattro anni fa in Val Pellice, quando si fece la Stanza della Quiete In Alta Montagna (vedi QUI), con due piccole opere sonore di Julius, quelle che hanno spesso il suono, da lui stesso registrato, di qualche insetto, cavalletta, grillo, oppure una cicala. Ci penso per un po’, mentre guardo assorto un po’ dappertutto, soprattutto verso l’angolo a destra in fondo, quello con la feritoia obliqua. E a un certo punto mi sembra proprio di sentirli, quei suoni, intorno a me, si sentono anzi, realmente, soltanto quelli, oltre al vento che di quando in quando soffia intorno alla casa. Mi accorgo infatti che non è un’allucinazione: attraverso le tante fessure fra le pietre dei muri a secco, proviene da fuori, e si sente benissimo stando lì dentro, il frinire di grilli e cavallette sparsi un po’ dappertutto intorno alla piccola casa. È un piccolo miracolo, come uscire da un sogno portandosi dietro un oggetto che vi avevamo visto, e soprattutto in quel momento mi rendo conto della straordinarietà di quel luogo, e della sua nascosta maestà. Si potrebbe forse rimanere lì per sempre, morti al mondo ma vivi, come mai ci si sentì altrettanto in vita.

(scritto il 23 agosto 2020)

1: dopo la mia visita di ieri, 17 settembre, mi è venuto il dubbio che addirittura la casetta fosse stata bensì costruita nel 1999, anche perché oltre a una sigla (parrebbero una C e una L) e alla data non compaiono altri dati.
2: sempre ieri, ho potuto misurare lo spazio, avendo portato con me un metro estensibile. È lungo, il sacello, 335 cm, e largo circa 240 cm; anzi, il muro opposto all’entrata misura 246 cm (ma è difficile prendere misure precise, essendo i muri non intonacati, e quindi irregolari, come le pietre che li formano). Stando in piedi, al centro, ho potuto misurare un’altezza di circa 184 cm, mentre la larghezza delle quattro lastre che formano il soffitto è di 100 cm.

Il cane nero di T.

Andrej Tarkovskij dovette girare due volte (qualcuno parla addirittura di tre volte) tutte le sequenze in esterno di “Stalker”, perché la prima volta le pellicole, per un errore del laboratorio nella fase di sviluppo, furono danneggiate. Ci sono pareri discordanti: secondo qualcuno le due versioni erano diversissime fra loro, secondo altri praticamente identiche. Comunque sia, esiste (sembra che le pellicole rovinate siano state distrutte, ma esse ‘ci sono’ in qualche modo, anche soltanto nella memoria di qualche sopravvissuto, e comunque si sa, è un fatto noto a molti) un altro “Stalker”, che, essendo il primo realizzato, forse era quello più forte, più intenso, perché fatto con la massima energia, quando certamente non si immagina neanche lontanamente che ci sarà una replica, perché nel cinema è sempre così (a parte rarissime eccezioni, ma sempre per motivi contingenti, non per scelta predeterminata), a differenza del teatro.
Sapendolo, sembra di intravederlo, mentre si guarda la seconda (o terza?) versione, quella definitiva, succeduta all’altra, scomparsa. Trattandosi di un’opera di Tarkovskij, un autore che spesso ha inserito elementi onirici nei suoi film (“Lo specchio” era praticamente un unico lungo sogno) si potrebbe pensare a una doppia apparizione dello stesso sogno, come a molte persone capita di avere un sogno ricorrente.
Nella versione definitiva, che io stesso ho visto sia al cinema sia in dvd, a un certo punto appare, verso la metà del film, un cane nero, che da quel momento rimarrà sempre presente fino alla fine. Bene, quel cane non era previsto dalla sceneggiatura, apparve veramente del tutto inaspettato, come in un ‘vero’ sogno, e Tarkovsky decise di tenerlo, evitando di sospendere le riprese, quando fece la sua comparsa. Il cane – che fu adottato dalla troupe, e poi, alla fine delle riprese, affidato a gente del posto – mi sembra veramente rappresentare la differenza più evidente fra le due versioni, e forse T., che era sempre predisposto agli eventi miracolosi, al manifestarsi del daimon, quella parte di mistero, l’inaspettato e il sorprendente, che per lui non sarebbe mai dovuta mancare nella vita di tutti i giorni, intuì che quell’apparizione, proprio perché differenziava marcatamente le due versioni, era qualcosa di fondamentale, a cui assegnare un valore di conferma e di benedizione.

(scrissi questo breve testo l’11 gennaio 2014 e me ne ero quasi dimenticato fino a ieri, quando l’ho ritrovato in una vecchia cartella; l’ho trascritto qua sopra quasi identico, con una sola minima correzione)