una poesia di fine anno

E tièntele per te queste sere
dell’anno nel mese ultimo, le nere
le di nafta e di carbone lorde sere!
Tièntele care, ghiaccio prega e neve,
compatte chiuse lunghe notti vere…

Quando tra gli echi estremi degli schianti
sui vomiti che chiazzano gli asfalti
l’Epifania avrà menato via
tutte le feste, il raggio del gennaio
stridendo ai vetri crèmisi sue ire

ti chiederà, vecchia carne, di uscire.

di Franco Fortini, dalla raccolta Composita Solvantur, 1994

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Uccelli fra i rami

Qui davanti alla finestra del mio ufficio-studio c’è una pianta piuttosto alta. Non so bene di quale specie sia, la piantarono più di quindici anni fa, direi, ed è molto cresciuta da allora. Ora, data la stagione, non ha più molte foglie sui rami, e quelle rimaste sono tutte secche. Il suo massimo pregio consiste nella quantità di uccelli, di varie specie, che si vedono sempre fra i rami, i più piccoli – cince, codirossi, passeri – saltellano continuamente di ramo in ramo, è la loro natura, non stanno mai fermi, mentre i merli stanno spesso immobili, come assorti, o forse guardinghi. Ci sono poi spesso delle gazze, ben più grosse, che un po’ stanno ferme e un po’ si muovono da un ramo all’altro, ma in modo molto diverso dagli altri piccoli uccelli, più lentamente e più di rado. Inoltre emettono spesso il loro caratteristico verso, che ha qualcosa di ipnotico ed è forse uno dei miei preferiti fra quelli di tutti gli uccelli. Ogni tanto alzo lo sguardo dal mac a cui sto lavorando e l’albero è lì, immobile per lo più (a meno che non ci sia vento) ma scosso ogni tanto dai movimenti dei suoi temporanei abitanti – che sono poi soltanto dei visitatori, nessun nido fra i rami.
Circa due, tre ora fa, mi trovavo già qui, ero molto, molto triste, avevo appena appreso una notizia che mi aveva sconvolto: un caro amico è morto stamattina, prima dell’alba, per la precisione alle quattro e mezza, l’ora preferita per morire o per nascere, a quanto pare. Ma anche l’ora in cui il condannato a morte di Bresson decide di tentare la fuga dal carcere, in questo caso per sfuggire a una sicura morte. Subito arrivando ho notato un movimento fra i rami, segno inequivocabile della presenza di qualche uccello. Si trattava di un merlo, l’ho intravisto per un attimo, e non ho potuto fare a meno di collegare la sua apparizione a quella notizia, come se vedessi in lui, o lei, il mio amico appena scomparso, venuto un’ultima volta a salutarmi. Si è trattenuto davvero per pochi secondi, prima di sparire per sempre.
Pensavo poco fa che questo albero così rigoglioso, ricco com’è di rami e rametti intricatissimi, dev’essere davvero un mondo per gli uccelli che lo visitano di quando in quando. Lì dentro devono sentirsi protetti, sia dalle intemperie (ora è inverno, fa freddo) sia da eventuali pericoli, come predatori di varia specie, ad esempio, ovvero altri uccelli, oppure gatti, o uomini. È un mondo per noi, per me, inaccessibile, anche se osservandoli quando stanno lì dentro, saltando di ramo in ramo, qualcosa della loro serenità, o della loro eccitazione gioiosa, riesce ad arrivarmi, dandomi un temporaneo senso di benessere.

(scritto ieri, 18 dicembre, poco prima delle ore 17)

IL VENTO DEL SOLSTIZIO INVERNALE

La pianta qui davanti alla mia finestra stamattina è quasi del tutto spoglia: il vento, che deve aver preso a soffiare durante la notte, ha portato via le ultime foglie, quelle che c’erano ancora lunedì. Sembra che siano passati molti più di questi quattro giorni circa. Ora gli uccelli, dai più piccoli ai più grandi, che prima si nascondevano fra i rami, non si vedono più, nemmeno uno. Ma neppure altrove, non soltanto sull’albero. Come se stessero aspettando di capire cosa fare, perplessi.

(21 dicembre, poco prima delle 9)

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per Giovanni

Era un poeta, e odiava quindi ogni espressione approssimativa.
R. M. Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge (trad. Vincenzo Errante)

(fot. P. Palladino, 21/6/2018)

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Come mai dipendiamo tanto dall’arte

Avendo perso il contatto con la natura tendiamo naturalmente a sviluppare le capacità intellettuali. Leggiamo una grande quantità di libri, andiamo a visitare molti musei e ad ascoltare concerti, guardiamo la televisione e ci prendiamo una grande quantità di altri svaghi. Citiamo senza fine idee di altre persone e pensiamo e parliamo di arte. Come mai dipendiamo tanto dall’arte? È una forma di fuga, di stimolo? Se siete direttamente in contatto con la natura; se guardate il movimento delle ali di un uccello, se vedete la bellezza del cielo in ogni momento, le ombre sulla collina o la bellezza sul viso di un altro, pensate che vorreste andare in un museo a vedere dei quadri? Forse è perché non sapete come guardare tute le cose che vi circondano che ricorrete a alle droghe che vi stimolino a vedere meglio.

C’è la storia di un maestro di religione che parlava ogni mattina ai suoi allievi. Un giorno salì sulla cattedra, e stava appunto per cominciare quando arrivò un uccellino che si fermò sul davanzale della finestra e cominciò a cantare, e cantò con tutto il cuore. Poi si interruppe e volò via e il maestro disse: “Per oggi il sermone è finito”.

J. Krishnamurti, Libertà dal conosciuto, Roma, 1973 (trad. di Anna Guaita)

[letto nel mese di agosto 1999, ritrovato casualmente oggi sfogliando il libro dopo averlo tirato fuori dallo scaffale dove si trovava]

due film di Shimizu

Hiroshi Shimizu, un nome giapponese fra altri mille (che fatica, spesso, ricordarseli e distinguere bene fra le persone che li portano) da ieri sera mi è diventato quasi familiare. È a causa del film che ho visto, Ornamental hairpin (titolo internazionale, che traduce il giapponese Kanzashi), che Shimizu girò nel 1941, proprio quando il Giappone era già in piena guerra (ancora non contro gli Alleati, bensì contro la Cina). Nessuno potrebbe dirlo, guardandolo, perché già la prima sequenza ci porta lontanissimo da qualsiasi ipotetico scenario bellico. Ha subito qualcosa di particolare, questa sequenza, qualcosa di inaudito, perfino. Siamo su una strada sterrata, fra alberi altissimi, c’è uno splendido sole, noi è come se precedessimo un gruppo molto gaio, soprattutto donne (geisha) andando nella loro stessa direzione e girandoci verso di loro per osservarli bene. L’immagine traballa un po’, evidentemente la mdp non era su una rotaia o su un qualsiasi supporto fisso e rigido, ma tenuta ‘a spalla’ bensì. Già questo particolare stupisce e spiazza: non sono un esperto di storia del cinema, non ho quindi idea se tale modalità di ripresa venisse già praticata, ma tenderei ad escluderlo. Poi la mdp è come se si fermasse (e noi stessi ci fermiamo) per lasciar avvicinare il gruppo, dopodiché si concentra su due donne, che seguiamo mentre camminano (e anche noi è come camminassimo con loro) ma ora molto più da vicino, così da poter udire bene la loro conversazioni. Sono allegre, si vede che stanno bene, soprattutto una delle due, che poi sparirà per circa una decina di minuti dalla scena per riapparire quindi diventando la vera protagonista del film. Lei è Kinuyo Tanaka, una grande attrice, anche molto famosa, avendo lavorato con Mizoguchi, Ozu, Naruse e appunto il nostro Shimizu (con il quale fu anche, brevemente, sposata). Ecco, quest’ultimo non somiglia a nessuno di quei tre grandi, anche se ogni tanto emerge qualche tratto che può ricordare Ozu (suo coetaneo e grande amico), nelle scene in interno, altre volte Mizoguchi (certe carrellate lente e vertiginose, e poi le parti in esterno, con gli attori spesso molto lontani dalla mdp) altre ancora Naruse, quando i personaggi – come nella sequenza iniziale e in molte altre ancora – camminano attraverso il paesaggio, e intanto conversano, e noi li seguiamo continuamente, vicini ma non troppo. Poi ci sono i primi piani, soprattutto della Tanaka, che invece non mi sembrano ricordare nessun altro autore coevo e sono quindi, forse, i momenti più autenticamente suoi.
La storia è tratta da un racconto di uno scrittore giapponese, ma è molto esile, a contare sono soprattutto i comportamenti delle persone, quello che fanno e quello che (si) dicono. Una buona parte del film si svolge all’aperto, e pare che Shimizu avesse una particolare predilezione per le riprese in esterni, preferendole quasi sempre a quelle in studio, o comunque in interno. È tutto piuttosto leggero, anche se i personaggi sono molto reali (quello della Tanaka in particolare) e anche quando sembrano più spensierati e leggeri – si tratta pur sempre di una commedia – risultano comunque credibili, persone con dei problemi e dei pensieri che possono talvolta angustiarli (è sempre il caso della Tanaka). Per tutti questi motivi a me sembra che si possa sicuramente fare un paragone con certi film di Renoir usciti pochi anni prima, come il celebre La grande illusione e Un partie de campagne. Ma lì c’era un contrappunto più forte e più serrato fra leggerezza e serietà, mentre almeno in questo film di Shimizu prevale la gaiezza, e non si assiste ad alcuna situazione realmente drammatica. I dialoghi sono davvero brillanti, si sorride spesso alle battute di questo o quel personaggio e la situazione – piuttosto poco plausibile, o comunque anomale, ai nostri occhi occidentali – di un gruppo di persone che si trova a passare insieme (addirittura dormendo nella stessa stanza fianco a fianco, pur essendosi da poco conosciute proprio lì) alcuni giorni in una stazione termale, si presta a continue gag spesso divertenti ma anche sempre molto garbate, senza la minima volgarità.

La parte finale, in cui vediamo la Tanaka rimasta sola nelle terme dopo che tutti gli altri sono tornati a Tokyo, è bellissima. Lei prima legge una lettera inviatale dal personaggio interpretato da Chishu Ryu (bravissimo e molto diverso dai personaggi dei film di Ozu, più spigliato, con una recitazione molto più libera) in cui la si invita a riunirsi con lui e gli altri per una rimpatriata. La malinconia traspare dal suo volto, anche se sorride leggendo la lettera, dopodiché, del tutto sola, ripercorre certi luoghi in cui erano avvenute molte cose piacevoli quando c’erano tutti. Lei sa che non potranno più accadere, le può soltanto rievocare così, rifacendo gli stessi percorsi, attraversando il precario ponte di assi sul torrente e salendo la scalinata nel bosco, due luoghi teatro delle situazioni da lei più felicemente vissute. Non dice una parola, tutto traspare dalle sue espressioni facciali, dagli sguardi, e anche da come si muove, fermandosi ogni tanto a ricordare, a rivedere quei momenti perduti per sempre. Il suo futuro è incerto – ha abbandonato il suo lavoro di geisha, rompendo con il suo protettore, si capisce che non vorrebbe più tornare indietro – ma in quei momenti riesce ad essere ancora serena, come quando era stata lì con gli altri. Anche se la malinconia prevale, pure la donna non è depressa, sembra sapere che la sua vita potrebbe forse ritrovare quella serenità, altrove, in altri modi. Oppure no, ma non importa, perché l’esperienza vissuta, pur se irripetibile, l’ha arricchita e forse anche cambiata per sempre
Così come la fine è, secondo me, una delle parti migliori del film – anzi, probabilmente la migliore, la più intensa e la meglio riuscita, tutta senza parole – anche l’inizio è davvero notevole. Dopo le riprese del gruppetto di geisha in cammino nel bosco assolato, quando queste arrivano in albergo la mdp compie una meravigliosa carrellata trascorrendo fra pareti, porte e tende trasparenti mentre segue le donne che invadono le stanze. Qualcosa che avevo già visto in Mizoguchi, ad esempio, ma realizzato qui con una freschezza e una naturalezza che dissimulano perfettamente ogni eventuale pretesa di maestria. Ovvero, la maestria del regista – e del suo operatore – c’è, ovviamente, però, appunto, rimane nascosta, non ostentata.
Mizoguchi disse una volta, per esprimere la sua grande ammirazione verso l’amico e collega:
« Persone come me e Ozu per fare un film devono lavorare duramente, ma Shimizu, lui è un genio…».

In un film precedente di Shimizu, Anma-to-onna (i massaggiatori ciechi e la giovane signora) del 1938, curiosamente assistiamo a una vicenda molto simile a quella di Kanzashi, con svariate ricorrenze (topoi in comune fra i due film): i massaggiatori ciechi, una stazione termale sperduta in una valle montana, una bella e giovane donna e almeno una storia d’amore inespressa, finita ancor prima di sbocciare, fra la ragazza e un massaggiatore che da lei è molto attratto, ma non corrisposto. C’è anche un ragazzino alquanto capriccioso e prepotente, con suo zio (nell’altro film erano due, con il nonno), che fra l’altro simpatizza palesemente per la ragazza, che a sua volta non sembra disdegnare. Lei è Mieko Takamine, all’epoca neppure ventenne, molto bella, di una bellezza misteriosa e affascinante, anche se dietro la sua espressione enigmatica si cela – anche stavolta – un travaglio interiore di natura molto simile a quello di Kinuyo Tanaka nel film del 19411. Lo zio è Saburi Shin, noto per aver fatto diversi film con Ozu, un bell’uomo anche simpatico, seppure sempre piuttosto distaccato e flemmatico. Qui la simpatia appare reciproca, anzi, forse è proprio lei quella più attratta dall’altro (gli chiede, in un moto quasi di spudoratezza, se è sposato, e si capisce che è contenta di sapere che è ancora celibe).
Il film sembra quasi un prototipo di quello di tre anni dopo, ci sono molte situazioni simili, ad esempio anche qui un precario ponticello di assi su un torrente, che per la giovane rappresenta momenti sereni recentemente vissuti e ormai perduti, quando verso la fine del film ci ritorna protetta da un ombrello, dato che sta piovendo (anche Tanaka porterà un ombrello aperto nella scena analoga dell’altro film, ma per ripararsi dal sole – o forse per creare la giusta intimità in un momento di intenso struggimento). La parte iniziale è anche molto simile: stavolta due ciechi, piuttosto sull’allegro, camminano per una strada di montagna in leggera salita e noi li vediamo come se ci trovassimo davanti a loro, a una distanza di pochi metri, ma rivolti appunti verso di loro (come stando seduti su una carrozza o su una corriera). Il loro colloquio è molto piacevole, frizzante, emerge una certa loro fierezza, quasi un senso di superiorità rispetto agli altri, i vedenti, grazie all’estremo affinamento degli altri sensi. Ora sono impegnati (pare lo facciano sempre, qualcuno lo dice) a superare il maggior numero possibile di altri viandanti, contandoli, in una gara a superarsi. Anche qui molte scene divertenti, spesso prendendo un po’ in giro (quasi al limite dello sberleffo) i ciechi, che camminando si scontrano sempre soltanto con i vedenti – per colpa di questi ultimi, secondo loro – e dimostrano spesso la loro eccellente capacità di ‘leggere’ la realtà che li circonda (e perfino i sentimenti delle altre persone) con gli altri quattro sensi, sviluppatissimi per compensazione. In una breve sequenza all’aperto, la ragazza e il cieco innamorato di lei inscenano un curioso balletto2, con lei che evita sempre – per gioco, senza intenzione di deriderlo – le mosse dell’altro quando sta per arrivarle troppo vicino. Lui sa che lei è lì, con un altro uomo, e non capisce perché lo eviti rimanendo silenziosa, perciò soffre, pur senza ammetterlo, per orgoglio. Verso la fine, il cieco le rivela il suo amore e anche che aveva capito – fraintendendo certi segni3 – essere lei chi rubava nelle locande della stazione termale. Lei lo lascia parlare, dopodiché, sorridendo, gli dice che si è sbagliato, sono altri i suoi problemi, altre le cause del suo malessere interiore. Nello stesso tempo lo ringrazia, avendo apprezzato la sua empatia e la sua sensibilità (lui, certo che la polizia stesse per catturarla, la convince a nascondersi – lei pensa che stia arrivando il suo ex-amante e, spaventata, segue il massaggiatore, mettendosi in fuga con lui).
Nella scena finale vediamo lei che sta per partire verso chissà quale meta, è seduta sulla stessa carrozzella che l’aveva portata lì giorni prima e guarda sorridendo il cieco che è venuto a salutarla. Quando la carrozzella parte, lui, che è rimasto sempre lì silenzioso e visibilmente turbato, dopo qualche secondo si mette a correre, in un vano, goffo tentativo di raggiungerla, dopodiché si ferma e rivolge lo sguardo vuoto nella direzione della carrozzella che si sta allontanando per sempre da lui, con lei sopra.

Direi, sulla scorta di questi soli due film su un totale di 160 (!) realizzati da questo autore, che mentre ad esempio Ozu è sempre molto preciso, quasi programmatico (si percepisce sempre, o quasi sempre, che sta trattando un tema, sempre soprattutto di carattere sociale), Shimizu è più sfuggente, le cose importanti le mantiene implicite, facendole emergere per lo più obliquamente. I suoi personaggi (di estrazione sociale affatto eterogenea) spesso sorridono, o ridono perfino, e si vede che sono felici, ma a tratti, fugacemente, una lieve ombra attraversa il loro viso, lo sguardo soprattutto. Questo è molto reale, chiunque sa che anche nei momenti più gioiosi continuiamo a percepire, di quando in quando, la presenza latente delle nostre preoccupazioni, oppure sono ricordi spiacevoli che riappaiono; o pensiamo per un attimo a ciò che ci potrebbe riservare il futuro, e l’inquietudine ci prende.

1 In quel caso si trattava di una geisha stancatasi della vita che faceva e decisa a non riprenderla mai più. Stavolta si capirà alla fine che la giovane donna interpretata da Takamine aveva un amante a Tokyo, un uomo sposato, molto possessivo, dal quale fugge dopo aver capito il dolore che la loro relazione ha provocato alla moglie e al figlio.

2 Nel film ci sono anche altre situazioni simili, dove alcuni personaggi – fra i quali sempre almeno un cieco – si incrociano per strada, o su un ponte e sembrano spesso fare mosse di aikidō per scansarsi.

3 Massaggiandole le spalle si accorge che i muscoli sono tesi e induriti, chiaro segno di tensione e inquietudine.

Un vecchio film davvero sgradevole

Edge of Doom, del 1951, è un film davvero sgradevole, ancora capace, dopo 72 anni, di suscitare disgusto in chi lo vede. Una storia di preti, il primo – veramente un prototipo del peggior modo di fare il suo mestiere – si disinteressa dei problemi del prossimo, è spassionato, vile; insomma, quando il povero Farley Granger gli molla un colpo di crocifisso (in bronzo, bensì) sulla nuca è difficile reprimere un moto di soddisfazione: se l’era davvero cercato, e meritato. L’altro prete, il generalmente ottimo Dana Andrews, potrebbe essere pure peggio, pur apparendo assai migliore: ambiguo, indisponente con la sua flemma, la sua parlata lenta e melliflua e il sorrisetto falso, anche quando compie qualche azione positiva e perfino coraggiosa. Ma alla fine frega il ragazzo, spiando non visto la sua confessione presso la salma della madre morta la notte prima, coprendo anche la presenza, alle sue spalle (ma erano sicuramente venuti insieme) del laido tenente di polizia. Costui assurge a vette di sporcizia morale, arroganza, falsità davvero inarrivabili, sempre con un’espressione bieca che si può guardare a malapena, tanto mette a disagio. Non meno orrendi i due poliziotti che seguono Granger nel ristorantino dove è entrato per mangiare. Insospettiti dai suoi modi, lo prendono in mezzo senza alcun rispetto dei suoi diritti, spietatamente, trascinandolo anche via prima che possa toccare il cibo appena portatogli dal cuoco, e obbligandolo comunque a pagare: una scena da vomito.
Un film americano nell’accezione peggiore della parola, moralista, manicheo, che ci impone di soprassedere di fronte ai comportamenti oggettivamente inaccettabili dei poliziotti, tutti sbirri nell’accezione peggiore della parola (che ha comunque sempre qualcosa di negativo). Tutti si accaniscono nei confronti del poveretto, nessuno lo aiuta, anzi, il vecchio untuoso e ipocrita del negozio di fiori dove lavora reagisce con squallida aridità alle richieste del ragazzo, limitandosi anche a frettolose e insincere condoglianze per la morte della madre, avvenuta da poche ore (stesso comportamento del prete ucciso) e infine licenziandolo in tronco, tanto in America si è sempre fatto così, e nessuno può opporsi. Il prete impersonato da Andrews, poi, sembra aver preso come un puntiglio di dover dissuadere la nipote dell’altro prete dall’intenzione – anzi, c’era già una data fissata in comune per la cerimonia – di sposare un uomo divorziato (Dana, per cortesia, ma perché non ti fai gli affaracci tuoi?). Il bello è che, assurdamente, la ragazza sembra prestargli ascolto, rimanendo nella parrocchia a fare cosa non si sa, ma evidentemente si vuol far vedere allo stupido spettatore medio americano che è pentita e vuole riportarsi sulla retta via.
Ma è tutto all’insegna del moralismo più abbietto, con l’intento di creare un quadretto edificante in cui i cattivi, come sempre, pagano e tutto procede come sempre, nella solita disastrosa ingiustizia. Anzi, forse l’unica figura un pelo simpatica (a parte la fidanzatina, che pure appare poco incisiva e non sembra poter costituire un solido appoggio allo sventurato) è quella del vero cattivone, impersonato da Paul Douglas, che prima mostra empatia per il dolore di Granger e poi gli sta vicino anche dopo, nel corso di quel grottesco riconoscimento dell’assassino da parte di una testimone (una beghina petulante e mezza orba che addirittura dichiara di riconoscere Douglas, diversissimo da Granger).
Davvero un brutto, bruttissimo film, moralmente disgustoso, anche se la regia, va detto, non è malvagia, anzi. Ciò che in fondo aumenta ancora di più il disappunto in chi ha avuto il fegato di guardare questa robaccia dall’inizio alla fine.
Curiosamente, soltanto due sere prima avevo visto L’Age d’Or di Bunuel, del 1930, un film agli antipodi, in quanto a intenzioni in ambito morale, alquanto datato (mi sono un po’ annoiato guardandolo) ma utilissimo per farci capire che c’erano tanti validissimi motivi per sputare su certi presunti ‘valori’, ancora vent’anni dopo. Nel film di Bunuel il perfido protagonista, oltre a schiacciare con la suola della scarpa uno scarabeo di passaggio, sbatte in terra a calci uno strano cieco che passava di lì e infine molla un potente ceffone alla patronessa (altra figura esemplare della rispettabilità borghese) del salotto in cui si trovava, che gli aveva inavvertitamente versato addosso una tazzina di caffè. Rifiuto e ribellione: l’esatto contrario del film americano, esemplare del puritanesimo osceno e micidiale che è alla base di quella malsana società.

Una modesta proposta


Finalmente, dopo svariate peripezie editoriali, Allestire una mostra (e altre attività felicemente inutili) sta per essere stampato e quindi pubblicato per le edizioni leppi lampi labors (un’emanazione di e/static). E’ un progetto a cui ho lavorato per più di quattro anni, un libro sulle vicende di e/static e blank fra il 1999 e il 2018 (v. QUI).
Avrà 256 pagine, per una tiratura di almeno 250 copie, in formato volutamente ridotto (cm 13 x 19), tascabile, per dare la possibilità a chi lo tiene fra le mani di leggerlo agevolmente ovunque. Consta di 35 capitoli (l’elenco completo è incluso nel sample – vedi link qui sotto), oltre ad altri due testi, a un’antologia di documenti in Appendice, a 23 immagini in b/n che inframezzano i capitoli e a 27 immagini a colori raccolte nella sezione Album. Le immagini non avranno, in massima parte, una valenza meramente documentativa, e tanto meno vorranno ‘illustrare’ il testo; semmai, esse sono state scelte, fra le migliaia disponibili, perché considerate in grado di aprire invitanti spiragli sulle pieghe più nascoste, o trascurate, della lunga storia di e/static.
Il libro è quasi pronto per andare in stampa, ora dobbiamo soltanto completare la raccolta del capitale necessario per poterne pagare i costi. Dopo aver fatto tutti i calcoli, sappiamo che ci manca una cifra non inferiore a €3500, che andrebbe a integrare la disponibilità attuale permettendoci di dare il via alle operazioni di stampa all’inizio del 2024.
Mi rivolgo a chi legge, come già fatto con tanti amici e conoscenti che hanno seguito con attenzione e affetto le vicende di e/static, con una precisa proposta. Questo è un nuovo progetto di e/static, e potrà essere realizzato se il maggior numero possibile di persone prenoterà ora una o più copie del libro, versando sul conto corrente di e/static la cifra che vi propongo.
In buona sostanza, chi vorrà prenotarne una copia, pagando un prezzo inferiore a quello ufficiale, lo potrà fare versando, entro mercoledì 31 gennaio 2024, non meno di €25, se vorrà poi ritirarla ‘brevi manu’, magari in occasione di un evento di presentazione del libro (così potremmo vederci, o rivederci), aggiungendo €4, se preferisse farsela spedire a casa.
Ovviamente, è possibile prenotarne anche due o più, nel qual caso le eventuali spese di spedizione sarebbero meglio ammortizzate. È sottinteso che chi sapesse di qualcuno, che magari io non conosco, eventualmente interessato, ha la mia autorizzazione a girargli/le questa lettera.
Si può visionare un sample del libro cliccando QUI; il sample è puramente dimostrativo (dato che presenta alcune parti del libro in una forma ancora non definitiva) ma può sicuramente dare un’idea di come sarà il libro, anticipando l’esperienza di tenerlo in mano per sfogliarne le pagine.

Tutto qui, mi sembra di essere stato sufficientemente chiaro. Ma chi volesse avere qualsiasi ulteriore chiarimento può scrivermi a info@estatic.it.

Carlo Fossati, novembre 2023

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