Stare fermi

A poco a poco tutta la sua vita diventa ricordo. Anche il presente diventa ricordo. Anche le cose che gli stanno davanti e il suo corpo stesso, egli da un misterioso avvenire li vede nel passato.

Alberto SAVINIO, Il signor Mūnster

Sono qui sospeso, inerte si può dire, il tempo trascorre in me con la massima lentezza. Non succede nulla, niente che sia l’effetto di una mia decisione, di un mio gesto deliberato, propositivo. Assisto a questo nulla, di quando in quando acceso da un evento minimo, qualcosa che fa un insetto, o un uccello, oppure un refolo d’aria, quando improvvisamente muove una parte delle chiome di un albero, soltanto quella. Il caldo è spesso quasi insopportabile, considerando che mi trovo a un’altitudine di 900 metri abbondanti; così evito di uscire da questa angusta e scomoda tana nelle ore centrali del giorno, quelle più calde appunto. Aspetto, continuamente, che qualcosa succeda al mio corpo, ora così debole e inane, da settimane ormai. Sarà un piccolo miracolo, che ne provocherà altri, in serie, e allora mi rialzerò da questo stato di morte apparente, o di vita apparente, perché da fuori sembrerò, agli altri, vivo, ma veramente morto io mi sento, trattenuto in questa immobilità. Non mi muovo quasi – se non a prezzo di grande fatica, che dopo rimane a lungo nei miei arti, appesantendoli – ma neppure riesco a pensare, a muovermi in quell’altro senso, che sempre mi è stato così congeniale, quanto e anche più dell’altro (ma nella vera vita vanno insieme, sempre, in osmosi).
Ogni tanto mi sembra di percepire quella scintilla miracolosa, come se stesse per liberarsi, e liberarmi. Una sensazione fugace, che provo raramente, ma che forse è un preavviso, e prima o poi la scintilla verrà, e io mi rialzerò.

24 luglio 2022, B.

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L’arte che mi interessa

Quando ero bambino andavo spesso dai miei zii. Avevano una bella casa con l’orto, il pozzo, galline e conigli. Una volta mio zio prese una coppia di anatre selvatiche, e la femmina ben presto rilasciò molte uova fecondate, da cui spuntarono altrettanti bellissimi anatroccoli. Li adoravo guardandoli sguazzare in una specie di tinozza, o camminare in fila dietro la madre. Finché un giorno di fine estate, quando erano ormai cresciuti, si alzarono tutti insieme in volo, con i genitori, per migrare verso sud. Credo di aver imparato, da quell’esperienza che mi rattristò molto, che la bellezza è effimera, e soprattutto non ci appartiene, mai.

La sola arte che mi potrebbe interessare ormai è una che si mischia con me, mi sta vicino, o a cui posso avvicinarmi, per osservarla, ascoltarla, annusarla, talvolta perfino toccarla. Come per qualsiasi altra cosa: oggetti, animali, persone, fenomeni naturali come la pioggia il vento la neve. Un’arte in cui mi imbatto, che non mi aspettavo, qualcosa che in un dato momento mi attrae particolarmente, ma che non mi appartiene, e nello stesso tempo non conta più di me, non mi impone di stare sottomesso, mentre la guardo o ascolto. Conta come tutte quelle cose, animali, persone, pietre, gocce di pioggia, raggi di luce che si spostano lentamente sui muri: niente di più niente di meno.
Ovviamente, come per tutte quelle cose, anche per quest’arte il massimo rispetto, niente di più niente di meno.
Ma non voglio più avere a che fare con un’arte che se la tira, che si mette in posa e cerca di mettermi in soggezione, di incutermi un certo timore reverenziale. Mi è ormai del tutto estranea.

(una meditazione dei giorni neri; 3 luglio 2022)

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