Decentrarsi

Moltissimi anni fa, quando ne avevo soltanto venti, anzi neppure, una persona che stavo frequentando con una certa assiduità, ma che di lì a poco avrei perso di vista, mi definì, un giorno. Era una ragazza intelligente (oltre che assai attraente), anche se certe sue scelte erano difficili per me da condividere, ed era perciò inevitabile che le nostre strade si separassero ben presto, una volta per sempre. E comunque, lei disse, certamente per criticarmi e quindi prendere le distanze da me, che io ero «decentrato» (rispetto a lei, soprattutto, dato che era molto impegnata nell’azione politica e aveva le idee molto chiare su cosa fare, e su cosa non fare). Pur non negando la giustezza della sua definizione (anzi, non mi dispiaceva, forse, perché mentre stabiliva le nostre differenze di base conferiva un senso, una motivazione, all’impossibilità oggettiva di portare avanti il nostro rapporto, prima che diventasse una vera relazione), sotto sotto non è che mi entusiasmasse sentirmela affibbiare. Perché dava la stura ai miei vari complessi di colpa, e la prendevo come un sinonimo di indeterminato, irresoluto, cioè di tutti i difetti che mi riconoscevo e che ho continuato, per decenni, a riconoscermi, e che sentivo pesare su di me come una sorta di peccato originale da cui mi era impossibile riscattarmi (un gatto che si morde la coda: se la tua natura è quella dell’irresoluto e dell’indeterminato, come fai a risolvere il problema? Non si può, devi soltanto imparare a conviverci).
Ma ora, oggi – dopo una chiacchierata con un amico, qualche ora fa – mi sembra di vedere la cosa in un altro modo, non più così negativamente, anzi. Con lui mi sono messo a parlare della mia attitudine ad errare (in senso etimologico e nel senso corrente), a non ripetermi, a uscire spesso e volentieri dal solco, dalla strada che sto percorrendo in un dato momento, imboccando il primo sentiero laterale che mi sembra promettente e invitante, senza saper bene dove mi porterà (disponendomi quindi a perdere la strada che stavo percorrendo). E la mia idiosincrasia nei confronti delle categorie e delle definizioni che mi vengono assegnate di quando in quando, sentite come trappole che mi bloccano impedendomi di muovermi, e di sbagliare… La mia attitudine a cambiare opinione su certe cose, la varietà dei miei gusti e delle mie preferenze (che quella mia amica di tanti anni fa definirebbe come un chiaro sintomo di incoerenza – e quella era forse la parola che aveva in mente, preferendo pronunciare, per una specie di delicatezza, forse, il meno duro, più soft, ‘decentrato’) sono altre manifestazioni della mia natura, così come una accentuata volubilità del sentire. Ovvero, sono in grado di esprimere una fortissima ammirazione, perfino amore, per una certa cosa, un’opera d’arte, una persona, un luogo, e poi, anche dopo poco, o pochissimo tempo – questione di attimi, tanto può durare a volte questa alternanza – vedere ognuna di queste cose come un oggetto senza qualità, o una persona sgradevole, con la quale non ho nulla in comune, e con cui mi trovo a disagio, oppure un luogo orrendo, da cui fuggire, per sottrarmi alla pena di frequentarlo. Insomma, non riesco a mantenere la posizione, non ho nemmeno quel senso della proprietà che porta, credo, a non abbandonare ciò che si possiede, un oggetto o un luogo (ma anche una persona, una moglie, se vogliamo) anche quando si è affievolito, o addirittura è svanito, l’interesse o il piacere originari, ciò che ci aveva motivati ad entrarne in possesso.
No, non mi riesce, non posso continuare a stare lì, e non penso a ciò che, molto probabilmente, perderò andandomene, ma sono bensì spinto ad andare in cerca di qualcos’altro, anche se non ho certezze di trovare di meglio. Ma di diverso, e di nuovo, sicuramente sì. E il desiderio – o la curiosità, forse sono sinonimi? – che mi spinge ad andarmene, è sufficiente a darmi la forza di agire, e una ricompensa sicura, anche se non porta con sé alcuna garanzia su come mi sentirò dopo, una volta raggiunto quell’altro luogo, trovata quell’altra persona o quell’altra cosa.
Sì, aveva ragione, perfettamente, sono decentrato, mi muovo spesso e volentieri verso i margini, spesso li oltrepasso, e cambio spesso direzione, ogni tanto mi fermo, poi magari ritorno dov’ero (ed è bello non riconoscere, non completamente, quel luogo, scoprirlo più che riscoprirlo) ma senza fermarmici troppo a lungo. Soprattutto se quella posizione corrisponde al centro.
Ma non ho nemmeno nulla contro il centro, anzi ogni tanto è bello, è fantastico sentirsi al centro del mondo. Ma è una sensazione che non può durare, e non voglio fare niente per contrastare questa impossibilità. Quindi non mi fermo lì, ma mi sposto da un’altra parte, anzi non è nemmeno vero che mi sposto, come conseguenza di una decisione, ma, è così che capita, piaccia o no, ci si trova da un’altra parte, senza che abbiamo veramente deciso di farlo.

scritto il 31 gennaio 2017

[da Osservazioni improprie, 2020, ancora inedito]