Elogio della noia

La noia è l’affermazione di un tempo dilatato, senza scadenze, senza limiti. Nella noia l’ego si dissolve, tutto diventa oggettivo, noncurante, come il soggetto, che assiste senza agire, passivamente, immobile. Nella noia può esserci la vera libertà, perché non ci sono più impegni o costrizioni. Si osserva, si ascolta, e nella vera noia non si pensa nemmeno più. Le cose appaiono e poi svaniscono, i rumori irrompono e poi, spentasi la loro eco, il silenzio torna a prevalere, solenne, sconfinato. Come solenne e sconfinata è la noia.
Nel nostro tempo la noia non esiste più, tutto viene riempito, gli occhi vedono sempre nuove immagini, gli orecchi odono sempre nuovi suoni e nuove voci, che coprono i rumori e il silenzio fra i rumori. Molti anni fa si entrava nel cinema anche dopo mezz’ora, o quando quasi era finito, si stava lì dentro a lungo, chi voleva lo rivedeva più volte, non era vietato come ora.

(scritto l’8 maggio 2021 guardando “Goodbye Dragon Inn”).

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Allestire una mostra

Ogni volta è la prima volta, non avevamo mai fatto quello che stiamo per fare, e dobbiamo capire con cosa abbiamo a che fare, prima di mettere questa cosa qui o quell’altra là. Dobbiamo improvvisare, fare una cosa per la prima (e unica) volta. Non abbiamo mai imparato, non impareremo mai, ogni volta è la prima volta. E’ così, più o meno, che cominciammo a parlare, a camminare, e allo stesso modo proviamo a conoscere qualcosa o qualcuno che non avevamo mai visto prima, e che non rivedremo mai più così.

Le cose là fuori, nella natura o per le strade di qualsiasi città, hanno quasi sempre, misteriosamente ma indiscutibilmente, una loro naturale collocazione, determinata da eventi casuali. Gli oggetti vengono spostati dal vento, modificati dalla pioggia o dall’azione involontaria dei passanti, e stanno sempre là dove sembra che davvero debbano stare. E poi la luce si alterna all’oscurità, il giorno alla notte, spesso basta un attimo, quando una nuvola copre il sole, per mutare l’apparenza delle cose, trasformare un paesaggio in un altro, da un momento all’altro sotto i nostri occhi, noi impotenti e affascinati, o impauriti. All’interno, nelle case, sta generalmente a noi decidere dove una certa cosa dovrebbe stare, e lo stesso vale per una mostra, sia pure con motivazioni, apparentemente, differenti. Si tratta di stabilire un ordine, sia pure temporaneo, effimero, che abbia la stessa naturalezza che riscontriamo là fuori, dove generalmente regna il caos, dove in genere nessuno realmente decide la collocazione delle cose, che è peraltro instabile, oltre che indeterminata. In una mostra, dove degli oggetti vengono costretti a convivere in uno spazio, il compito di chi allestisce, di chi deve decidere questa collocazione, è arduo. Deve sostituirsi al caso, al vento e alla pioggia, perché il risultato di questo compito, ancorché provvisorio, serbi, sia pure per un tempo limitato, l’energia immanente e l’autorevolezza del caos che regna là fuori. La partenza è da un campo vuoto, vasto e indecifrabile, di cui non è possibile stabilire un inizio, un accesso, una fine o uno sbocco. Da lì si comincia a tracciare un percorso, che non sappiamo dove può portarci, ma sappiamo dover essere chiaramente tracciato, percorribile quindi, perché questa è la vera natura di una strada, che si può percorrere anche senza darsi una meta, perché la sua vocazione è quella di condurre, di non porre limiti al movimento, ma di mantenere attiva l’energia che ci spinge a percorrerla, ovunque possa portarci.

Andrey Tarkovsky, “Stalker”
Roman Polansky, “Repulsion”
Thomas Bernhard, “Eventi”
Tanizaki Jun’ichirō, “Libro d’ombra”
Eric Rohmer, “Le rayon vert”

[testo scritto fra il 17 novembre 2007 e il 9 febbraio 2008, tratto dal libro “Allestire una mostra – e altre iniziative apparentemente inutili (storie di e/static e blank, 1999-2018)”, attualmente in preparazione]

In prigione

A volte mi capita (o meglio, mi capitava, non frequentando più musei e gallerie) di incontrare, in qualche sala, confusa in mezzo a tante altre, tutte messe lì in una posa irrigidita, innaturale, un’opera che conosco, che consideravo una cara amica, e non vedevo più da molto tempo. È come incontrare per strada un vecchio amico che non si vedeva da molti anni, e stentare a riconoscerlo, mentre lui proprio non ci riconosce (oppure è il contrario).
Ma in verità mi era venuto in mente, prima di mettermi a scrivere, qualcosa di un po’ diverso, anzi di peggio: è come rivedere qualcuno, ora in carcere, durante l’orario di ricevimento di parenti e amici, dietro un vetro che ci separa, e non sembra proprio più lui, non è veramente lui. Come potrebbe, trovandosi in prigione?
(mi è bastato uno sguardo al sito del museo civico, che preannuncia la sua riapertura: come sono brutte, fredde, squallide quelle sale, e come veramente le opere, belle e meno belle, sono tutte lì dentro imprigionate, inevitabilmente infelici).

[un appunto dello scorso 24 febbraio, di cui mi ero dimenticato, ritrovato, e riletto, poco fa]

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Prima e dopo Kafka

Siamo in un ospedale, due donne sono sedute accanto al letto di un’altra donna, malata. Sono tre amiche, noi che vediamo la scena lo sappiamo, e sappiamo, o comunque apprendiamo facilmente, che le due donne sedute sono venute per tenere un po’ di compagnia a quella a letto, che deve trovarsi lì già da qualche tempo, malata piuttosto seriamente. Lei è Arletty (ovvero Kati Outinen), appare intorpidita, non parla e quasi non si muove, mentre le due amiche del suo quartiere, la panettiera e la barista, stanno sedute accanto al letto. La prima, Yvette (ovvero Evelyne Didi) sta leggendo un racconto di Franz Kafka da Meditazione, il primo della raccolta per la precisione, Bimbi sulla via maestra, quello che finisce con “E i pazzi non si stancano?”, “Come potrebbero stancarsi?”. Lo legge bene, con voce non troppo alta, senza mai guardare Arletty, mentre l’altra, Claire (ovvero Elina Salo1) continua a guardare la malata a letto, e dalle sue espressioni intuiamo che sta per addormentarsi, cullata da quella bizzarra ninna nanna kafkiana. E infatti è così, un’inquadratura successiva – prima di quella sulle mani di Yvette che chiudono il libro, e la stessa sequenza – ce la mostra dormiente, la testa rilassata e l’espressione distesa, adagiata su un candido cuscino. È un’immagine particolarmente bella e intensa, quando la vidi, una sera, credo di aver smesso di respirare per qualche secondo, pareva una pittura antica e bellissima vista chissà quando e dimenticata (o piuttosto il ricordo di un’esperienza vissuta, da me stesso o da Kaurismaki, o da entrambi), fortemente intrisa di spiritualità e soprattutto di amore. È il cuore segreto di “Le Havre”, una perla buttata lì quasi con noncuranza, nascosta all’interno di un film col quale in fondo ha poco a che fare, misteriosa e sconcertante come tutta la sequenza. Che inizialmente pare uno dei frequenti casi di umorismo ‘deadpan’ del regista finnico, e invece è una delle cose, oltreché più serie, più fresche e più intense di tutto il suo cinema, un evento di pura grazia, ineffabile quanto arrestante, bressoniano ma alla maniera di Kaurismaki.

1: altra veterana del cinema di Kaurismaki, più ancora della Didi, un viso e un’espressione inconfondibili, disincanto ma anche benevolenza, una specie di fatalismo ammiccante, vitale.