Nel film di Kaneto Shindo “L’isola nuda” (Hadaka no shima) del 1960 molta parte è assegnata a un’azione compiuta ripetutamente, per innumerevoli volte, da due persone, marito e moglie, che vivono su una piccola isola nel mare interno del Giappone presso Hiroshima con due figli ancora bambini. Conducendo, a turno, una barca spinta da un solo remo a poppa, raggiungono la terraferma, dove riempiranno due secchi di legno con l’acqua raccolta da un canale (la loro isola ne è evidentemente del tutto sprovvista) che porteranno poi sulle spalle, appesi ai due capi di un bilanciere. L’isola è impervia, il sentiero che sale dal punto in cui attracca la barca è assai ripido, così portare il bilanciere con i due secchi colmi d’acqua (a occhio almeno trenta chili di peso, forse anche quaranta) è un’operazione ardua, da compiere lentamente, calcolando bene ogni passo, perché oltre a sé stessi bisogna tenere in equilibrio l’attrezzo, anzi tutto insieme, perché i vari elementi compongono un’entità organica, dove i secchi sono la parte passiva, da governare. Soprattutto la donna, per ovvi motivi (è anche piuttosto esile, a differenza del marito) si vede che fa molta fatica, e una volta, già praticamente arrivata in cima all’isola, dove i due bagnano una per una le loro piantine, un secchio le sfugge rovesciandosi e disperdendo il prezioso contenuto. Lui, dopo un attimo di fissità – ma già mostrandosi corrucciato – accorre verso di lei soltanto per sferrarle un pugno, che la fa cadere a terra: tanto grave è l’accaduto, e infatti lei non accenna ad alcuna reazione, di nessun tipo, soprattutto non parla, perché nessuno dei quattro parla mai durante tutto il film, fino alla fine (quando la donna avrà un grave cedimento morale, e stavolta rovescerà deliberatamente un secchio). Vediamo fare questa operazione, dall’una o dall’altro, oppure da entrambi insieme, in fila indiana, moltissime volte, negli stessi luoghi, anche se le stagioni cambiano, e le vediamo scorrere tutte una dietro l’altra. Evidentemente, essa è stata caricata dall’autore (regista e scrittore del film) di una forte valenza simbolica, oltre la veridicità dei fatti; infatti, Shindo ammetterà candidamente che le piantine, soprattutto di patata dolce, che costituiscono in massima parte la coltura dei due, non avrebbero bisogno di tutta quell’acqua (che pure serve ad altri impieghi, come la cucina e l’igiene della famiglia). Inoltre, lui sapeva benissimo (provenendo da una famiglia di agricoltori) che non si bagnano mai le piante in pieno sole, come si vede fare nel film, bensì al mattino presto o alla sera. Tali inesattezze sono quindi deliberate, perché non era interessato a rispettare la verosimiglianza, quanto piuttosto a mettere in scena una sorta di apologo, dove certe azioni sono fortemente simboliche. E infatti Shindo ha anche dichiarato la sua intenzione di significare che, come si devono bagnare regolarmente le piante, per farle crescere bene, così andrebbe ‘innaffiato’ lo spirito degli uomini, con la stessa dedizione e sollecitudine. Per quanto poi riguarda la scelta di mostrare tante e tante volte il faticoso e difficile trasporto dei secchi, essa è sicuramente azzeccata, per come quel gesto rimanda a molti miti arcaici, sia giapponesi sia occidentali (quello di Sisifo è, ovviamente, l’esempio che subito ci viene in mente) e non ha quindi alcuna difficoltà ad essere compreso da persone appartenenti a qualsiasi cultura – e lo stesso vale per tutti i gesti compiuti nella vita di tutti i giorni dai due, (soprattutto) all’epoca in cui il film uscì nelle sale ancora consueti per contadini e montanari di tutto il mondo. “L’isola nuda” può apparire come un documentario, per come è girato e per il fatto che i due attori compiono realmente, con genuina fatica, tutti i loro gesti, dal trasporto dei secchi alla conduzione della barca; ma si tratta bensì di un film ‘astratto’, un apologo appunto, che va oltre il dato reale mentre lo mostra con assoluta autenticità e senza alcuno dei soliti escamotage usati normalmente nel cinema («Volevo fare un film puro, anche poetico, e tutto visivo, con soltanto un commento musicale non intrusivo, e senza dialoghi», dirà il regista).
Il film si snoda attraverso questa ripetitività, con poche eccezioni, per lo più felici (vedi la pesca del grosso pesce da parte del figlio maggiore e la successiva vendita al mercato in città, seguita da un pranzo di tutta la famiglia al ristorante). Ma decisiva è l’unica eccezione drammatica, anzi tragica, la morte proprio del bimbo più grande, il bravo pescatore. Dopo, c’è una scena che ho trovato veramente straziante, come raramente mi accade guardando un film, quando dopo l’arrivo della scolaresca di compagni del bimbo morto, accompagnati da una maestra e da un sacerdote, per la cerimonia funebre, dalla casetta in cui vivono si vedono uscire i due, uno dietro l’altro, reggendo, lei davanti e lui dietro, la cassa di legno con il figlio morto. Questa volta la loro fatica non ha un fine vitale, positivo, non è un lavoro proiettato verso il domani, per la sopravvivenza e la conquista del benessere, ma esattamente il suo contrario: quello che ora sentono nelle braccia è il peso della morte, la potenziale fine della speranza, la soluzione di continuità. Credo che questa sequenza, a quel punto del film gli dia un fortissimo guadagno, elevandolo di molto e facendolo diventare qualcosa di davvero intenso e disarmante, nella sua micidiale evidenza, trasmessa allo sguardo dell’osservatore (io ieri sera) educato e preparato dall’ora abbondante che la precede. Quando si era assistito alla ripetizione quasi maniacale di quel gesto, diventatoci sempre meno estraneo, anzi familiare, attraverso il processo di identificazione tipico in chi guarda un film; per cui, ad ogni nuova apparizione di uno dei due caricato con il bilanciere sempre più ci pare quasi di provare quella fatica, e di percepire quel peso sulle nostre stesse spalle, sempre più intensamente. Peso e fatica perfettamente espressi dalla curvatura del bilanciere sulle spalle dei due.
Ancora dopo, proprio alla fine (subito prima è davvero commovente la scena di lei che, dalla sommità dell’isola guarda verso l’isola più grande, abitata da molti, l’esplosione di fuochi artificiali a sera, attonita, per l’infelice coincidenza della morte del figlio con qualche festa locale), la donna, appena giunta sul campo, dove già il marito stava bagnando come sempre le piantine, si ferma per qualche secondo a fissare il secchio pieno d’acqua, posato a terra. Poi, d’improvviso e deliberatamente, lo rovescia, e andando oltre nella sua furia strappa dal terreno molte piantine, incapace di rassegnarsi alla perdita del figlio, rabbiosa verso tutto ciò che vede come la causa vera della tragedia, accaduta soprattutto perché l’isola è lontana da dove vive tutta la gente, e perciò il medico ci ha messo troppo tempo a raggiungerla, arrivando infatti solo quando il bimbo è già morto. Questa volta il marito non osa reagire, smette di lavorare e la guarda a lungo con grande intensità, visibilmente preoccupato (lei è ora a terra, in preda a una crisi di sconforto piangendo disperata), per qualche minuto. Dopodiché si rimette al lavoro, lentamente riprende a bagnare le piantine una ad una, con cura: questo è quanto ritiene di dover dire (senza profferir parola) alla moglie, questa è la sua decisione, dolorosa e non facile da prendere, perché anche lui ha molto sofferto e ancora soffre per la perdita del figlio. Lei allora si riprende, sembra capire, o forse semplicemente si rassegna, e piano piano riprende a sua volta i gesti abituali, che poco prima aveva deciso di ripudiare per sempre, con rabbia.
Di fondamentale importanza, secondo me, la scelta del luogo, il paesaggio meraviglioso che circonda l’isola, ammirabile soprattutto dai punti più in alto, quello dove c’è la casetta e quelli in cui i due accudiscono le loro colture, quando sempre vediamo mare e montagne, e cieli meravigliosi, sullo sfondo. Sembrerebbe un contrasto doloroso, e spietato, ma forse è anche, questo contrappunto idilliaco alla loro enorme e continua fatica, ciò che la alimenta e la legittima1. La piccola famiglia infatti, nonostante stenti e sacrifici continui, appare a suo modo felice, soprattutto i due bimbi, e si può immaginare che soltanto la presenza del figlio superstite dia alla coppia un residuo di energia e di speranza per rimanere ancora lì, dopo la tragedia, riprendendo le abitudini brevemente, e forzatamente, interrotte.
[scritto il 22 dicembre 2020]
1: avevo immaginato qualcosa del genere quando, circa due anni fa durante una passeggiata, mi ritrovai in una piccola borgata di montagna ormai abbandonata, in Val Pellice (ne parlo nel testo Invincibili, contenuto in “Stare fermi”, pubblicato nel 2019). Erano molti i segni evidenti di quanto doveva essere duro viverci, la fatica e i sacrifici ineluttabili, giorno dopo giorno, tutto richiedeva un impegno costante, senza distrazioni. Ma da lì, guardando verso sud, verso il fondovalle e poi il versante opposto, la vista era magnifica, sicuramente quelle persone ci ritornavano spesso con lo sguardo, per sentirsene corroborati, e forse rimanevano in quei luoghi nonostante tutto proprio perché quegli sforzi, la durezza di quella vita, erano il prezzo da pagare per vivere lì, e poter gettare di quando in quando lo sguardo verso quell’ampiezza mirabile e confortante.