

















Quel mattino cadde ben presto preda della sua irresolutezza, e si trovò in auto andando senza convinzione, dopo aver deciso, stancamente, dove si sarebbe diretto. Un ripiego, scelto meccanicamente, senza neppure pensarci troppo (e poi, a che scopo? le alternative erano ben poche).
Poi arrivare là, all’imbocco di un sentiero ben noto, ogni passo, si può dire, già fatto tante altre volte in passato, l’ultima soltanto pochi mesi prima. È anche piuttosto tardi, e non avendo portato niente da mangiare sa che dovrà tornare presto, dopo aver percorso forse neppure la metà della camminata, diversamente da tutte le altre volte. Si sente un imbelle, un senso di delusione, perfino di disgusto, lo invade, togliendogli quasi ogni interesse in quel che sta facendo, e che avrebbe fatto.
Eppure lì, quel giorno, doveva accadere, quei momenti impensati, inattesi, ma come preparati dai primi incontri con esemplari di altre specie, più ordinari, meno ambiti; e poi quegli altri, dai colori bellissimi, che però non si possono mangiare, e nessuno li raccoglie.
loro mi hanno messo sulla via giusta, senza che me ne rendessi conto, vederli, e poi fermarmi ad ammirarli, mi ha preparato a quei due incontri.
Il sentiero, ancorché ben tracciato, è stretto, spesso troppo stretto, e ogni tanto si vede poco, a causa dell’erba alta o dei forti contrasti fra luci e ombre. Ma al di fuori c’è il bosco intricato, scomodo da percorrere, costellato di rovi, con salti improvvisi e rami bassi che si frappongono impedendo di camminare agevolmente. Lì perdersi è piuttosto facile, ci si deve muovere con cautela, misurando ogni mossa prima di compierla, già al primo passo si percepisce l’incertezza, ci si sente insicuri, si esita.
era come se mi stessero aspettando, tutti e due, soltanto io potevo arrivare lì quella mattina, oppure mai, perché già il giorno dopo sarebbe stato troppo tardi, perduto il loro fulgore discreto, la loro forza trattenuta, appena dissimulata; gli animaletti del sottobosco, lumache soprattutto, li avrebbero mangiati.
Sporgevano, con uno strano mix di fierezza e discrezione, dal fitto spessore del sottobosco: la loro forza, crescendo, deve essere irresistibile, tirano su erba, ramoscelli, anche piccole pietre se ce ne sono. Tutti e due li aveva presentiti, attimi prima di vederli una sensazione breve ma intensa lo ha avvertito e così si è diretto, finalmente risoluto, là dove aveva vagamente intuito che ne avrebbe potuto trovare almeno uno, oltre una soglia. Aveva subito capito che quella, quelle, erano soglie per entrare nei due luoghi dove li avrebbe trovati, due piccole radure irregolari, relativamente sgombre di rami e rovi.
il primo era sul pendio a circa 130 cm di altezza rispetto al punto in cui mi trovavo quando l’ho visto; il secondo appena un po’ più in alto, direi 150 cm; non erano in basso, ma a un’altezza umana, così non dovevo piegare la testa per vederli, e loro stessi potevano vedermi bene.
perché, ne sono certo, mi stavano aspettando.
Sono stati momenti, pur nella loro brevità, intensi e galvanizzanti, che lo hanno riempito, e rimarranno in lui ancora per diversi giorni.
percepisco ancora quella sensazione, o quantomeno me la ricordo ancora bene.
Una volta trovati, stare lì a lungo, senza neppure più guardarli, se non per pochi attimi di quando in quando; basta essere lì, a pochi passi, sapere che ci sono: questo soltanto conta.
Ora è al centro del mondo, e quel punto coincide con il suo proprio centro, per una volta.
sì, rimanere lì calmi, rilassati, senza alcuna fretta, perché quello è il posto, finalmente ci sono arrivato, e non c’è fretta di fare l’ultimo gesto, staccarli, prima uno poi l’altro, dalla terra, con delicatezza ma anche forza, per farli uscire integri.
Un gesto ben meditato, preparato, e vissuto con intensità, indimenticabile: una mano per afferrare il grosso e forte gambo, l’altra per facilitare il distacco dalla terra.
prima, per qualche minuto, la silenziosa attesa di quel breve gesto, ma senza troppo pensarci, perché sapevo che sarebbe avvenuto con naturalezza, senza neppure deciderlo, così tutta la sua intensità sarebbe stata percepita, per pochi istanti di assoluta pienezza.
Una volta staccati, tenerli in mano è come tenere in mano la propria vita, con una sicurezza che è altrettanto forte quanto labile, perché non può che durare poco. Ma sarà lungamente ricordata, dopo.
[revisione del 19-20 settembre 2022]
Quel mattino caddi ben presto preda della mia irresolutezza, e mi trovai in auto andando senza convinzione, dopo aver deciso dove mi sarei diretto. Un ripiego, scelto meccanicamente, senza neppure pensarci troppo (e poi, a che scopo? a quell’ora le alternative erano ben poche).
Arrivare là, all’imbocco di un sentiero ben noto, ogni passo, si può dire, già fatto tante altre volte in passato, l’ultima soltanto pochi mesi prima. È anche piuttosto tardi, e non avendo portato niente da mangiare dovrei tornare presto, dopo aver percorso forse neppure metà della camminata, diversamente da tutte le altre volte. Mi sento un imbelle, un senso di delusione, perfino di disgusto, mi invade, togliendomi quasi ogni interesse in quel che sto facendo, e che avrei fatto.
Eppure lì, quel giorno, doveva accadere, quei momenti impensati, inattesi, ma come preparati dai primi incontri con esemplari di altre specie, più ordinari, meno ambiti; e poi quegli altri, dai colori bellissimi, che però non si possono mangiare, e nessuno li raccoglie: loro mi hanno messo sulla via giusta, senza che me ne rendessi conto, vederli, e poi fermarmi ad ammirarli, mi ha preparato a quei due incontri. Il sentiero, ancorché ben tracciato, è stretto, spesso troppo stretto, e ogni tanto si vede poco, a causa dell’erba alta o dei forti contrasti fra luci e ombre. Ma al di fuori c’è il bosco intricato, scomodo da percorrere, costellato di rovi, con salti improvvisi e rami bassi che si frappongono impedendo di camminare agevolmente. Lì perdersi è piuttosto facile, ci si deve muovere con cautela, misurando ogni mossa prima di compierla, già al primo passo si percepisce l’incertezza, ci si sente insicuri, si esita.
Era come se mi stessero aspettando, tutti e due, soltanto io potevo arrivare lì, quella mattina, oppure mai, perché già il giorno dopo sarebbe stato troppo tardi, perduto il loro fulgore discreto, la loro forza trattenuta, appena dissimulata. Gli animaletti del sottobosco, lumache soprattutto, li avrebbero mangiati. Sporgevano, con uno strano mix di fierezza e discrezione, dal fitto spessore del sottobosco, la loro forza, crescendo, deve essere irresistibile, tirano su erba, ramoscelli, anche piccole pietre se ce ne sono. Tutti e due li avevo presentiti, poco prima di vederli una sensazione indefinibile, breve ma intensa mi ha messo sull’avviso e io mi sono diretto, finalmente risoluto, là dove avevo vagamente intuito che ne avrei potuto trovare almeno uno, oltre una soglia. Sì, ho subito capito che quella, quelle, erano soglie per entrare nei due luoghi dove li avrei trovati, due piccole radure irregolari, relativamente sgombre di rami e rovi.
Il primo era sul pendio a circa 130 cm di altezza rispetto al punto in cui mi trovavo quando l’ho visto; il secondo appena un po’ più in alto, direi 150 cm. Non erano in basso, ma a un’altezza umana, così non dovevo piegare la testa per vederli, e loro stessi potevano vedermi bene. Perché ne sono certo, mi stavano aspettando. Sono stati momenti, pur nella loro brevità, intensi e galvanizzanti, che mi hanno riempito, e rimangono ancora oggi, dopo diversi giorni, indimenticabili: percepisco ancora quella sensazione, o quantomeno me la ricordo ancora bene.
Una volta trovati, stare lì a lungo, senza neppure più guardarli, se non per pochi attimi di quando in quando; basta essere lì, a pochi passi, sapere che ci sono: questo soltanto conta. Ora sono al centro del mondo, e quel punto coincide con il mio proprio centro, per una volta.
Sì, rimanere lì calmi, rilassati, senza alcuna fretta, perché quello è il posto, finalmente ci sono arrivato, e non c’è fretta di fare l’ultimo gesto, staccarli, prima uno poi l’altro, dalla terra, con delicatezza ma anche forza, per farli uscire integri. Un gesto ben meditato, preparato, e vissuto con intensità, indimenticabile: una mano per afferrare il grosso e forte gambo, l’altra per facilitare il distacco dalla terra.
Prima, per qualche minuto, la silenziosa attesa di quel breve gesto, ma senza troppo pensarci, perché sarebbe avvenuto con naturalezza, senza neppure deciderlo, così tutta la sua intensità sarebbe stata percepita, in pochi istanti di assoluta pienezza.
Dopo, tenerli in mano è come tenere in mano la propria vita, con una sicurezza che è altrettanto forte quanto labile, perché non può che durare poco. Ma dopo sarà lungamente ricordata.
[in laboratorio / miscelllanea la versione revisionata di questo testo]
Quarto numero della collana la nostra musica, stampato su carta usomano avoriata liscia nel mese di giugno 2022, viene pubblicato in due versioni, quella originale in francese e quella tradotta in italiano. Ogni versione è stata stampata in 20 copie (+ quattro) e consta di 20 pagine compresa la copertina, nel formato (chiuso) cm 13 x 19. Entrambe contengono un’immagine fuori testo in b/n, dello stesso autore.
Questa è la seconda pubblicazione del testo, facendo seguito a quella del 1999, sul numero 1 della rivista Humoir. È anche la sua prima pubblicazione in un’altra lingua. La traduzione in italiano è stata curata da Giuseppe Furghieri e Carlo Fossati.
Ivan le chauffeur se trouve debout, presque de face, le corps légèrement basculé en avant, sa tête est tournée vers la gauche. Il a les bras repliés en avant, le gauche remonte plus que le droit. Les mains se trouvent dans le prolongement des bras, elles sont presque dépliées. Les jambes sont légèrement fléchies, le talon de la chaussure gauche est décollé du sol. Ivan le chauffeur est posé sur le trait horizontal bas de la vignette. La ligne qui délimite la plinthe ocre passe à la hauteur du bas de ses chevilles.
(estratto dal testo originale francese)
Ivan l’autista è in piedi, quasi di fronte, il corpo leggermente piegato in avanti, la testa girata a sinistra. Ha le braccia piegate in avanti, la sinistra un po’ più in alto della destra. Le mani sono in linea con le braccia, e sono quasi del tutto aperte. Le gambe sono appena piegate, il tacco della scarpa sinistra è sollevato dal suolo. Ivan l’autista poggia sul lato orizzontale basso della vignetta. La linea che delimita il pavimento ocra passa all’altezza delle sue caviglie.
(traduzione italiana dello stesso estratto)
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Penso e dico anche spesso che questi ultimi due anni e mezzo sono stati i peggiori della mia vita – delle nostre vite – e a volte mi sembra di esagerare. In fondo, la mia salute è stata sempre piuttosto buona (a parte il periodo fra fine giugno e metà luglio circa), così quella dei miei familiari. Ma no, non esagero, e devo stare attento a non lasciarmi convincere, da me stesso o da chiunque, che invece sì, io stia esagerando. Basta che ci ripensi un attimo: quella sensazione di minaccia costante, da parte di un’entità non ben definibile – non certo il famigerato virus, a parte i primissimi tempi, nella primavera del 2020 – e poi la rassegnazione, che percepivo ovunque, quindi anche in me stesso, quel senso di fine ormai inevitabile («niente sarà mai più come prima», «ci vorranno anni prima che se ne esca») o quantomeno di futuro impedito, di perdita di tutte le qualità che rendono la vita degna di essere vissuta. Ecco, tutto questo non è avvenuto per caso, qualcuno si è fatto in quattro perché certi pensieri, dopo averci assillato, pian piano ci avvelenassero; qualcuno ha soffiato sul fuoco, ha stabilito ben presto, e perentoriamente, che il paese, anzi il mondo intero, fosse sotto attacco da parte di un morbo che si affermava (falsamente) essere incurabile, e tutti fossero obbligati a combattere questa entità invisibile. Sui vari media – bene orchestrati dai centri di potere –, menzogne su menzogne, ogni giorno, ogni ora, ogni attimo di ogni giorno, si accumulavano formando strati spessi e coriacei, che ottundevano la vista e il senno di tante, troppe persone. La determinazione ferma e costante a convincere tutti, perfino i bambini, di essere colpevoli, soggetti oggettivamente pericolosi, da controllare in tutti i modi, la cui libertà di movimento doveva essere fortemente limitata: un gioco perverso, in perfetta malafede, volto a rovesciare i termini della questione, scaricando su degli incolpevoli le proprie responsabilità. Con questo comportamento, determinate persone trovatesi – spesso impropriamente, se non addirittura proditoriamente – a ricoprire ruoli molto delicati, di effettivo potere decisionale, si sono dimostrate assolutamente inette e inaffidabili, venendo meno al compito che si erano impegnati a svolgere nel miglior modo possibile, per il bene della comunità. In una tale atmosfera, che pervadeva tutti gli aspetti della vita, quella in comune (peraltro sempre più limitata e in buona parte impedita) e quella individuale, era molto difficile conservare la propria serenità, il proprio equilibrio, la stessa voglia di vivere, se non a prezzo di uno sforzo immane e costante.
Perciò io non voglio, non posso e soprattutto non devo dimenticare: mi è stato fatto un danno molto grave, ci è stato fatto, a tutti, anche a chi pare non rendersene conto, e ciò è imperdonabile. Sono convinto che ci siano delle responsabilità ben precise, e qualcuno dovrebbe pagare (anche se dubito fortemente che possa accadere, se non in minima parte). Soprattuto, rimediare al danno fatto è praticamente impossibile, due anni e mezzo sono lunghi – e sono parsi ancora più lunghi, perché si è fatto in modo che ogni speranza nel domani, in un cambiamento, ci fosse tolta per sempre.
Ma tutto questo non sarebbe potuto succedere senza la connivenza – consapevole o meno, conta relativamente – della gran parte della popolazione, che non soltanto ha creduto alle menzogne e obbedito agli ordini (fin qui si è nell’alveo della – libera o meno – scelta personale) ma ha guardato prima con sospetto, poi con disapprovazione, infine, molto spesso, con una vera e propria ostilità, agli altri, quelli che non ci credevano e hanno fatto perciò una scelta diversa. Poi, col crescere esponenziale della discriminazione da parte del potere nei confronti dei dissidenti, gli obbedienti, chi scuotendo a testa chi alzando le spalle, hanno minimizzato l’entità dei fatti, fingendo di non accorgersi dell’enormità di quanto stava accadendo: l’oggettiva criminalizzazione di una parte della popolazione, spesso conoscenti, perfino amici, persone oneste e responsabili, per lo più, che sono state da quei molti abbandonati al loro destino di emarginazione e disprezzo sociale. Questa bruttissima cosa era già successa, anche in questo paese un po’ di anni fa, e, pur facendo le debite proporzioni, è ugualmente disgustosa, indegna di una persona onesta e responsabile: io spero che qualcuno, ora, si vergogni del suo comportamento, che si renda conto, sia pure in ritardo. Ma, anche in questo caso, dubito che accadrà, a parte qualche lodevole eccezione, perché dimenticare è uno dei grandi vizi di questo popolo, non soltanto di questo, anche di altri, ma di questo in particolare: credo di avere l’età e la consapevolezza (acquisita direttamente o in via mediata, attraverso esperienze altrui di cui sono venuto a conoscenza) per poter fare questa affermazione.
(apparizioni e altro)
Stavo salendo da San Lorenzo, sul tratto di strada che porta fino alla chiesa, quando vedo davanti a me, a qualche decina di metri, un’auto rallentare e poi fermarsi. Rallento a mia volta, e improvvisamente appare alla mia sinistra, scendendo a rotta di collo dal pendio, un capriolo, che mi taglia la strada – ma io ero quasi fermo – e si dirige in linea retta non so bene in quale direzione, perché da quella parte non ci sono, nelle immediate vicinanze, i boschi fitti che immagino questi animali prediligano. Forse si era trovato in mezzo alla mandria di mucche che pascola lì sopra, si sarà inquietato (poteva esserci anche un cane) e avrà soltanto pensato a fuggire, rischiando anche grosso.
L’ho visto per qualche istante, è passato a cinque o sei metri da me, e sono sicuro, ora, che si tratta dello stesso capriolo disegnato una volta da Beuys. Credo si tratti di un acquerello, ce l’ho a casa riprodotto su una cartolina – non vedo l’ora di riaverla fra le mani –, un lavoro dei primi tempi di B., che usò un tono ocra rossa. È un disegno molto bello, vi si vede l’animale vivo: probabilmente anche Beuys lo vide apparire all’improvviso mentre fuggiva (nella stessa direzione, da sinistra verso destra, scendendo) e l’immagine, fortissima e fugace, si impresse nella sua memoria con grande vividezza, per sempre.
Dopo poco meno di mezz’ora, arrivato al colle della Vaccera, ho fatto una breve camminata – l’idea era di aumentare un poco la difficoltà e la durata, per superare questa fase di debolezza fisica che dura ormai da troppo tempo – lungo la strada sterrata a mezza costa sulla val d’Angrogna, sotto il Monte Servin. Si sarebbe rivelata come forse una delle più spiacevoli di sempre, a mia memoria: oltre al caldo quasi insopportabile, davvero anomalo per quei luoghi, soprattutto a quell’ora (fra le 9.30 e le 11), sono stato tormentato, continuamente e senza poter fare molto per difendermi, da nugoli di mosche che mi ronzavano attorno e si attaccavano ovunque, sia che camminassi sia che, di quando in quando, mi fermassi in una rara zona d’ombra. È stata un’esperienza davvero sgradevole, al ritorno, in leggera discesa, correvo quasi, per sfuggire alle mosche, ma invano1. Ogni tanto pensavo al protagonista di Sotto il vulcano, di cui ho soltanto visto una versione cinematografica, di John Huston. Chi ha visto il film credo capirà a quale scena mi riferisco.
Un giorno, stavo andando in auto verso San Lorenzo, e sono arrivato all’imbocco di un breve rettilineo prima di una curva a gomito, un tratto di strada sovrastato dalle chiome di molte piante, quindi sempre in ombra. D’estate poi, quando c’è il sole, il contrasto fra l’ombra di quel tratto di strada e l’intensa luce prima e dopo è fortissimo. Ero appunto appena entrato in quell’ombra quando vedo, a circa cinquanta metri da me, appena prima della curva (quindi della luce più intensa) una sagoma scura che si infila nella macchia a destra della strada, in forte pendenza. Penso che potrebbe appartenere a un cane di taglia abbastanza grande (ce ne sono, da queste parti, che vanno in giro da soli), ma non ne sono del tutto convinto, e istintivamente rallento, quasi fermando l’auto (da queste parti non si va mai troppo velocemente, la strada è stretta, con molte curve), raddoppiando la mia attenzione e come in attesa di qualcosa. Sono ormai a meno di dieci metri dalla curva quando vedo un piccolo capriolo (questo lo vedo bene, non ci possono essere dubbi) che attraversa la strada, sulle tracce dell’altro – che evidentemente non era un cane. Ripartendo, mi giro per un attimo verso la macchia e vedo, a pochi metri dalla strada, la sagoma quasi nera del giovane capriolo che, immobile, mi sta guardando, palesemente incuriosito.
[scritto parecchio tempo dopo gli altri due, oggi è il 29 agosto; il fatto risale a un paio di settimane fa]
La scorsa settimana [oggi è il 29], mentre camminavo verso Serre – la solita passeggiata, l’avrò fatta una dozzina di volte almeno – ho scorto, in alto alla mia sinistra, sul limitare del bosco dopo un pendio piuttosto ripido, sgombro di piante, una volpe. Non si è accorta della mia presenza, forse anche perché è molto concentrata seguendo una pista, col naso quasi attaccato al suolo. La osservo per qualche secondo, prima che si infili nel bosco: non è molto grande – diciamo come un cane di taglia medio-piccola – ma ha una coda lunghissima, lunga quasi quanto il corpo, muso compreso.
Scaramuccia – molto probabilmente per ragioni di dominio territoriale – fra due cornacchie e un rapace (gheppio?) in un luogo aperto non lontano dalla casa in cui abito. Il rapace era in difficoltà, non sapeva come sottrarsi all’attacco, fra giravolte, brevi picchiate e bruschi cambi di direzione: l’altro uccello – perché nel frattempo una delle due cornacchie si era chiamata fuori – non mollava mai. A un certo punto sono volati oltre le piante più alte alla mia sinistra, dove non potevo più vederli. Ma dopo un paio di secondi ho udito delle strida, piuttosto acute, e credo proprio fosse il verso del rapace, ormai soccombente.
Stamattina [30 agosto], per qualche motivo, ho deciso di imboccare una via di Torre Pellice che non conoscevo proprio, vicina al centro del paese ma nello stesso tempo defilata, e priva di attrattive evidenti. Mentre camminavo sono stato attratto da un forte stridere, suono che è inevitabile, almeno per me, associare immediatamente alle rondini, anche quando non si possono vedere (magari perché ci si trova in casa). Su un lato della via, oltre un piccolo cortile, c’è un caseggiato abbastanza alto, almeno quattro piani, direi, con una forma simmetrica, come si cominciò a farne negli ultimi decenni del secolo scorso. La parte centrale, la più ampia, ha in alto, sopra l’ultimo piano, una specie di timpano verticale, alto alla sommità circa quattro metri, direi, e largo forse una decina; ai lati, due specie di ali assai più ridotte, e anche più basse di quella centrale. La facciata della casa è rivolta a sud, ci batteva il sole a quell’ora (anche piuttosto caldo, dopo la pioggia) e lì, soprattutto davanti al timpano, volavano vorticosamente moltissime rondini. Sotto la grondaia si vedevano molti nidi, dai quali entravano e uscivano le rondini, ma la cosa veramente strana, che ci ho messo qualche secondo a capire, era quel che facevano molte altre rondini, probabilmente sprovviste di nido. Erano attaccate, non riuscivo nemmeno a capire bene come, alla parete, quindi in verticale, al modo di certi ungulati, soprattutto stambecchi e camosci, quando si spostano con assoluta calma e noncuranza su pareti rocciose a picco, o sulle altissime pareti di qualche diga. Si appoggiano, con le loro zampe dalla forma particolare, perfette per la bisogna, ad ogni minima sporgenza, perché ce ne sono, anche se non visibili da lontano, osservando dal basso. Ma le rondini? Evidentemente la parete doveva essere stata intonacata con quella modalità, diciamo ‘rustica’, che si utilizzava spesso nelle case del secolo scorso: ‘grotoluta’, si usa dire, ovvero scabra, non appiattita e neppure liscia, ma piena bensì di piccolissime sporgenze irregolari, sufficienti comunque a sostenere l’infimo peso di una rondine, che ci si aggrappa con le sue zampine, per diversi secondi, fors’anche un minuto.
Non avevo mai visto niente di simile, mi sono quindi soffermato in quel tratto di strada a naso in su per qualche minuto.
Il luogo in cui ho assistito, giorni fa, all’inseguimento del rapace da parte di una cornacchia è forse il mio preferito di questa lunga estate. Si trova poche centinaia di metri dopo la borgata Serre, sulla strada verso Buonanotte, sul lato sinistro della strada. Lì, appena prima dell’ingresso di una proprietà (due belle case in pietra affiancate) c’è un vecchio ciliegio, piuttosto grande, che proprio accanto, attaccato al suo tronco si può dire, ha un bellissimo, e forse perfin più vecchio, bosso, uno dei pochi, qui e altrove, scampati a certi parassiti che hanno decimato la specie; proprio lì qualcuno, penso molto tempo fa, ha sistemato due sedute. Sono state, ognuna, ricavate da un tronco, e modellate con due soli tagli di sega, uno verticale e uno orizzontale; molto simili, ma anche diseguali, una dallo schienale più basso, ma dalla seduta più ampia, e una invece più stretta ma con lo schienale più alto. Insieme semplici e sofisticate, ovvero frutto di un lavoro mentale piuttosto evoluto (i reciproci rapporti fra misure di seduta e schienale lo stanno a dimostrare, a mio parere), e anche rischiarato dalla poesia, o forse dall’amore, sono state messe in modo tale, affiancate, a una distanza di circa un metro una dall’altra, da permettere a chi ci si siede una vista fra le più belle di questa valle, verso il basso, dove si trova un gruppo di case dai tetti in pietra, oltre un prato in pendenza dall’erba sempre rasata e costellato di alcune piante da frutto. Dietro le case, un bosco, e dietro ancora la montagna sull’altro versante della valle, fittamente boscosa, con pochissime case – è il versante a mezzanotte, più umido e freddo. Fra i due versanti, laggiù in basso, invisibile ma ben udibile, il torrente che dà il nome alla valle.
Mi sono spesso fermato lì, quasi sempre da solo, per prendere fiato durante una passeggiata (per quasi un mese sono stato convalescente, ero debole, e nelle ore centrali della giornata, fino a metà agosto, faceva molto caldo) e intanto guardare il panorama, così bello e rasserenante. I momenti più belli, forse, quelli in cui la mia sosta coincideva con i battiti del campanile della chiesa poco lontana, sempre due volte ogni ora: un minuto prima dello scoccare e un minuto dopo. Ma ricordo anche alcune conversazioni telefoniche, con qualche amico o una persona cara: facevo sempre in modo da trovarmi lì a una certa ora, quando avrei chiamato qualcuno o ne sarei stato chiamato. La strada carrozzabile, che passa proprio vicino alle sedie, non è mai trafficata, giusto un’auto, o un trattore, ogni tanto, così si può parlare a voce normale, senza il bisogno di alzarla: proprio come se ci si trovasse insieme lì, seduti ognuno su una delle due sedie, conversando mentre guardiamo il paesaggio.
1 Oggi dopo le 17.30 ha piovuto con una certa intensità, sia pure brevemente, e il cielo è ancora coperto; viene così spiegata l’abnorme abbondanza di mosche fastidiosissime durante la passeggiata di stamattina: come mi ha rammentato un amico poco fa, il fenomeno prelude sempre ad eventi temporaleschi, presentiti dagli insetti, che probabilmente faticano a volare normalmente nell’aria che si sta ‘ispessendo’.
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