Siamo verso la fine del film. Sappiamo già che il vecchio César (“Papet”) ha praticamente deciso di lasciarsi morire, prostrato moralmente e fisicamente da due eventi terribili. Prima, la morte del nipote, che si è impiccato, poi una rivelazione sconvolgente fatta da una vecchia amica, cieca, che lo ha annichilito, costringendolo a ribaltare tutto il suo sistema di giudizi, mettendolo di fronte all’inutilità e allo scialo di un’intera vita, proprio quando è ormai giunto alla sua fine. La sua domestica – sordomuta – sta preparando il caffè del mattino, appresta un vassoio con tazze e quant’altro, per portarglielo in camera da letto (da giorni ormai non usciva quasi più, e aveva già chiamato il prete al suo capezzale, per confessarsi). La donna percorre la casa ancora in penombra fino ad arrivare alla camera del vecchio, dove regna il buio fitto. Noi siamo già lì, siamo in quel buio quando la porta si apre e la donna – che ancora non si vede, immersa nel buio – entra nella stanza, silenziosa e leggera mentre si dirige verso la finestra, la apre, spalancando con un gesto non troppo brusco le ante, e subito si odono canti di uccellini venire da fuori – prima non era possibile, finestra e scuri di legno chiusi lo impedivano. Immediatamente dopo si gira verso César, lo guarda – ma noi l’avevamo già visto, prima di lei –, è disteso sul letto, vestito di tutto punto, con la mano destra sul petto e la sinistra distesa al suo fianco, stringendo qualcosa. La donna, un attimo dopo aver rivolto lo sguardo verso il letto, si blocca, ha intuito qualcosa, perciò si dirige verso il vecchio, per sincerarsi – anche se ha già capito, e sembra avere sempre meno dubbi mentre procede, lentamente, con cautela. Si ferma allora nei pressi del letto, sempre fissando l’uomo, ora dall’alto, e in quel momento di stupefacente, fugace intensità – il più intenso e arrestante di tutto il film, di tutti e due i film1 – udiamo il canto di un gallo, là fuori. Un attimo dopo – ora non ci sono più dubbi, César è morto – la muta sfiora il viso del vecchio con un gesto di dolcezza e di pietà, e intanto la mdp, che era rimasta ferma, inizia una zoomata molto lenta sul braccio sinistro del vecchio fino alla sua mano, che vediamo infine in primissimo piano, a riempire quasi lo schermo. È per farci capire che essa stringe un pettine da donna, quel pettine, sempre conservato per cinquant’anni, che rappresenta tutta la sua vita come avrebbe potuto essere, piena e felice, e anche, per contrasto, quella che invece è stata, arida, avvelenata da avidità e cattiveria, la vita di un uomo spietato e crudele fino al punto di distruggere sé stesso e il suo (apparentemente) unico erede, che pure amava. La seconda parte della sequenza, in cui la mdp si avvicina, zoomando, alla mano, è accompagnata da una musica che nasce così, proprio dal nulla2, in contrasto col profondo silenzio precedente, e ci rivela un particolare tutto sommato quasi pleonastico, a paragone di quanto accade subito prima. Quel pettine stretto nella mano non ci turba, non ci tocca con la stessa intensità di quel momento in cui abbiamo udito il canto del gallo (un canto breve, simile a un’esclamazione rituale) proprio quando la muta sta per toccare César – toccando la morte. È come un’aggiunta, una nota a piè di pagina, certamente utile e pregnante, ma assai meno intensa e meno profonda della prima parte. Ha anche, io credo, una funzione distensiva per i sensi dello spettatore, dopo l’intensa attenzione esercitata appena prima, spiando la scena fino al momento in cui si raggiunge l’acme – della stessa sequenza e dell’intero film, pur essendo del tutto dissimile dal resto, un’oasi di pace in un paesaggio sempre concitato. Quando, per poco meno di un minuto, siamo rimasti trattenendo il fiato in ascolto di quel lungo silenzio interrotto, e fortemente drammatizzato, dal breve canto venuto da fuori.
1: Manon des sources, questo, e la prima parte, Jean de Florette, di Claude Berri. 2: E proprio quando la zoomata sta arrivando al suo termine udiamo, addirittura, l’armonica che suonava Jean de Florette, quello che César scoprì, troppo tardi, essere suo figlio naturale. Un momento davvero debole, di un sentimentalismo piuttosto banale, e incongruente con la prima parte del tutto priva di musica, in cui udiamo soltanto pochissimi rumori ambientali e il canto degli uccellini prima e del gallo poi.
Nagareru, tradotto, penso appropriatamente, come Flowing [scorrere, corrente, flusso] nel titolo inglese e Au gré du courant in quello francese [direi ‘secondo – o seguendo – la corrente’]1, è un film di Mikio Naruse del 1956. Come spesso accade nei film di questo autore, si vedono quasi soltanto donne – in questo caso tutte attrici molto importanti nella storia del cinema giapponese – mentre gli uomini compaiono, sì, ma brevemente, e senza mai assumere una parte determinante per lo sviluppo della storia. Ovvero, chi determina, o ha determinato svolte decisive per ognuna delle donne o non appare, ed è soltanto evocato, oppure appare ma brevemente, e quasi sempre – fatta eccezione per il gentile Saeki, che sembra affascinato dalla protagonista, Otsuta, e anche blandamente interessato alla figlia di lei, Katsuyo – portando una nota sgradevole. E sono il rozzo e brutale zio della fuggiasca Namie, il fatuo e irresponsabile marito (separato) di Yoneko, che non degna neppure di uno sguardo la figlioletta ammalata a letto, ma si sgrava la – assai labile – coscienza – consegnando alla moglie qualche medicinale imprecisato, un gesto impudente e miserabile; oppure il ricco signore che vorrebbe posare le zampe sulla non più giovane ma ancora affascinante geisha, uomo di una bruttezza laida, che quando sorride mostra una dentatura da squalo. A non apparire sono l’ex-marito di Otsuta e padre di Katsuyo, che pure qualche responsabilità sulle disgrazie della ex-moglie deve avere (se ne accenna all’inizio, in un dialogo fra lei e la sorella più anziana) e un ex-amante, Hanayama, persona peraltro, apparentemente, abbastanza positiva, che si interessa ancora di lei pur essendone stato lasciato (anche se poi manca all’appuntamento, dopo che lei, con molta riluttanza, aveva acconsentito a rivederlo sperando in suo aiuto economico).
Il luogo in cui si svolge la maggior parte del film è la casa di geishe gestita da Otsuta, ormai in declino e gravata da un’ipoteca (accesa con la sorella, avida e prosaica, sempre sprezzante nei confronti della sorella minore: decisamente odiosa) e sempre meno frequentata, tanto che le geishe, da sette che erano, si sono ridotte a tre, una della quali, Someka, è avanti con gli anni e non molto attraente. La figlia di Otsuta vive con la madre, anche lei nella casa anche se non fa la geisha, una professione che disprezza, anche se ci aveva provato, una volta, ma desistendo subito, per assoluta mancanza di interesse e soprattutto di passione. Interpretata dalla ben nota Hideko Takamine (questo è uno dei nove film di Naruse in cui compare), la ragazza è perennemente corrucciata, si strugge per il destino della madre, che vorrebbe convincere a lasciare la professione, ma sa bene che lei non lo farebbe mai, essendo quella la sua vita da sempre, oltretutto una brava geisha, soprattutto come suonatrice di shamisen e cantante. Katsuyo non sembra avere grandi qualità – pur essendo sicuramente attraente – è piuttosto irresoluta, vorrebbe aiutare la madre, verso cui ha sempre un atteggiamento protettivo, ma non sa bene come fare, e alla fine si risolve, nonostante il netto diniego della madre, che la trova una scelta indegna di lei, a diventare una cucitrice, e la vediamo curva sulla macchina da cucire al piano di sopra, presenza incongrua e stridente (anche per il rumore, discorde rispetto alle note dello shamisen) in quella casa. Ha nostalgia del padre, vorrebbe andare a trovarlo dove vive, fuori Tokyo, ma poi desiste, anche perché la madre la convince, senza neppure grande sforzo, dell’inutilità del gesto – che probabilmente, negli intenti della figlia, tenderebbe a provocare un’impossibile riconciliazione fra i due.
Un altro personaggio molto interessante, e che infatti apre il film, con il suo arrivo nella casa dalla campagna, è Rika (poi ribattezzata – deliberatamente, come vedremo – Oharu dalla patronessa della casa. Pur venendo da due tragedie recenti e ravvicinate nel tempo, che hanno completante stravolto la sua vita (le sono morti prima il marito e poi la figlioletta) ha una stupefacente serenità nei modi e nell’espressione del volto – sia pure sempre velato da una quasi impercettibile tristezza, soprattuto nello sguardo – che le consentono così di conquistare subito sia la padrona sia le altre donne presenti nella casa. Viene infatti assunta come domestica, un ruolo umile che lei però svolge con una dedizione, una gentilezza di modi, davvero una nobiltà d’antan, da farla diventare una presenza importante in quel luogo. Che è abitato da persone tutte variamente afflitte da numerose negative esperienze, da cui sono uscite sempre sconfitte, quindi piene o di amarezza o di nostalgia per un benessere un tempo ambito ma mai realmente provato, anche se una certa vaga attitudine a sognarlo ancora rimane, soprattutto in Otsuta. Rika non è più molto giovane, ma le sue doti umane – fra le quali predominano l’umiltà e l’empatia per chi le sta vicino, e che cerca in ogni modo di aiutare, sono davvero rare, eccellenti al punto da renderla interessante per chiunque viva nel quartiere e la incontri ogni tanto per strada. L’attrice che interpreta questo personaggio è Kinuyo Tanaka, molto famosa in Giappone (fu anche regista), soprattutto per i suoi ruoli nei film di Mizoguchi, fra i quali, appunto, Oharu nel film omonimo, che riesce ad esprimere appieno la natura di questa bellissima persona, una specie di angelo sia pure con limitati poteri, un po’ come quelli dei film ‘berlinesi’ di Wenders. La stessa attrice che interpreta Otsuta, Isuzu Yamada, una star del cinema giapponese già a partire dagli anni ’30, vista anche in un film di Ozu, il tristissimo Crepuscolo a Tokyo, è molto brava. E sempre brava, nella parte di Someka, Haruko Sugimura, che chiunque abbia visto almeno tre o quattro film di Ozu riconoscerà subito, anche perché i suoi personaggi si somigliano sempre molto fra loro, come se lei fosse davvero un po’ così, un misto di superficialità, vitalità prorompente e quasi volgare, e dei modi spesso obliqui, che fanno intendere macchinazioni segrete e poco rassicuranti dietro il suo largo sorriso. Ma più o meno tutte (a parte ovviamente Sugimura, quasi una Magnani giapponese…), compresa Takamine, recitano con semplicità, quasi con sprezzatura, e con minime variazioni dell’espressione facciale, abbastanza però per far intendere rivolgimenti interiori anche molto profondi.
La fine del film – che procede agilmente e senza mai troppi rallentamenti, grazie a un superbo montaggio – è veramente malinconica, e nella sua intensità ed efficacia credo dia a tutto il film, conchiudendolo in modo mirabile, caratteri di grandezza, tali da renderlo probabilmente uno dei migliori fra i moltissimi girati da Naruse. I nodi, come si dice, si sciolgono: l’altra sorella, Ohama, ex-geisha e patrona di una casa ben più efficiente, molto più prosaica di Otsuta, più scaltra e avveduta, scopre le sue carte, sempre ben dissimulate durante tutto il film fino a quel momento, e rivela a Rika-Oharu i suoi veri intendimenti. Dopo aver acquistato la casa, dicendo alla sorella che avrebbe potuto continuare a dirigerla, finalmente libera dall’assillo dell’ipoteca, la trasformerà in un ristorante, ma senza coinvolgere la sorella nell’impresa, ritenendola inadatta. La furba imprenditrice convoca la domestica-tuttofare a casa sua per offrirle di dirigere lei il locale, dopo essersi resa conto delle sue molte qualità e ritenendola adatta a tale impegno. Oharu immediatamente si rattrista, il suo solito sorriso quasi si spegna, e dopo aver capito che prenderebbe il posto di Otsuta, chinando il capo in segno di umiltà, declina l’offerta, suscitando una breve reazione di stupore in Ohama, che però abbozza. Tornando a casa, annuncerà prima a Katsuyo il suo ritorno al paese in campagna, motivandolo con ragioni di famiglia piuttosto vaghe, poi vorrebbe dirlo anche a Otsuta, ma non può, perché in quel momento, interrompendo una lezione a due giovani allieve, la padrona, accompagnata da Someka, entrambe allo shamisen, canta un’antica, classica canzone (le cui parole purtroppo non sono tradotte nel dvd francese che ho visto). Sono entrambe profondamente ispirate, rapite e come in trance mentre emettono quei suoni così poetici, arcaici, e hanno gli occhi chiusi, come assorte in un’esperienza di tipo quasi soprannaturale che evidentemente le trasporta in un passato lontano. Le due allieve sono a loro volta rapite, assistono alla scena immobili e in assoluto silenzio, seminascoste da un tramezzo, per non turbarla. E la stessa Oharu, con la sua proverbiale, innata discrezione, si tiene in disparte, mente guarda e ascolta. C’è uno stacco di montaggio molto significativo, e molto chiaro, quando vediamo, al piano di sopra, la figlia china sulla macchina per cucire mentre lavora. La vediamo di spalle, evidentemente non si cura della performance al piano di sotto, neppure la può ascoltare, perché il rumore meccanico, ripetitivo della macchina copre quei suoni: la prosaicità ottusa e spietata della modernità che travolge la poeticità effimera e lieve del canto e dei suoni. Così Naruse dimostra chiaramente come le due geishe, appartenenti a un mondo in via di estinzione, siano destinate a soccombere e sparire a loro volta. Mentre la figlia di Otsuta, che si è arresa, in qualche modo andrà avanti, a sua volta sempre soffrendo, ma senza il sostegno e il balsamo della poesia e dell’arte, che le sono precluse. Poco prima, durante il colloquio con Saeki, camminando lungo la riva del mare (un momento ricorrente in ogni film di Naruse – almeno quelli che visto io, una decina forse – una sua cifra stilistica, si può dire) la giovane aveva dichiarato, con un tono rassegnato e mesto, la sua missione di vita: prima di pensare a se stessa, a sposarsi (come lui le ha chiesto) trovare al più presto un lavoro che le permetta di mantenere se stessa e la madre, convinta, non a torto, dell’inadeguatezza di quest’ultima alla società così come si stava rapidamente evolvendo, e alla quale non potrebbe mai adattarsi, neppure volendolo.
1 In verità il termine può significare anche ‘spazzar via’, quindi ‘spazzato (o spazzati/e) via’, ed è forse questa l’accezione più pregnante in questo contesto.
(ho visto questo film la sera di venerdì 10 marzo 2023)
Il Deserto dei Tartari è l’ultimo film di Valerio Zurlini, l’ho visto diverse volte, l’ultima poche sere fa, in una versione recentemente restaurata, scaricata da un sito online. Ci sono alcune differenze, ad esempio brevi parti della versione francese evidentemente tagliate in quella italiana, e il film risulta più lungo. La parte, all’inizio, in cui si vede Drogo uscire dalla città accompagnato da un amico – entrambi sono a cavallo – me la ricordavo meno di tutto il resto, mi è sembrata un po’ diversa, in parte nuova per me, e credo anche che quando lo si vede da lontano, ormai solo, e sullo sfondo si vede un castello sulla cima di una collina, quella sia una sequenza a sua volta assente dalla versione italiana a me nota. Ne sono abbastanza convinto anche perché le altre volte non avevo mai notato (quanto meno non me ne ricordo) una somiglianza piuttosto accentuata con la parte del Nosferatu di Herzog in cui Harker-Ganz esce a cavallo dalla città per andare in Transilvania. Anche là, come qui, il protagonista lascia la sua città, e la civiltà, per andare verso luoghi sempre più selvaggi e aspri, intraprendendo un viaggio nello spazio ma anche nel tempo dal quale non ritornerà (Drogo) oppure tornerà ma radicalmente mutato (Harker). Il film di Herzog uscì nel 1979, tre anni dopo quello di Zurlini1. Io non ho mai letto il libro di Buzzati, pubblicato nel 1940, anche se so che il film, per diversi aspetti, se ne discosta: inevitabile, trattandosi di un altro medium, con regole molto diverse, dovendo anche fare i conti con problematiche di tipo produttivo. Nel corso del tempo, diversi tentativi, da parte di registi come Antonioni, ad esempio, oltre a Sautet, Lean e Jancsó, fallirono, soprattutto per la difficoltà di trovare il luogo, la fortezza Bastiani (curiosamente, Bastiano nel film). Finché negli anni ’70 del secolo scorso Jacques Perrin, attore francese noto in Italia (e già protagonista di ben due film di Zurlini, sui soli otto girati dal regista), diventato poi nel tempo, e sempre più, un produttore – nel senso più pieno e autentico del termine – si interessò al progetto, occupandosene poi attivamente, e forse proprio grazie a lui emerse, finalmente, il nome di Arg-e-Barm, antichissima cittadella in Iran, tutta costruita in adobe, ancora esistente, sia pure diroccata, ai piedi della imponente fortezza che sarà il set principale del film. Una scoperta definita “fortunosa”, ma determinante, perché un luogo simile, immaginato da Buzzati, non esisteva realmente e non si sarebbe certamente potuto creare dal nulla. Anche i dintorni stessi, le montagne che sempre si vedono sullo sfondo, ci dovevano assolutamente essere, per dare un’idea veramente convincente della Fortezza Bastiani. Che realmente domina il film, protagonista al pari, al meno, di Drogo, e anche più degli altri personaggi, più in secondo piano rispetto a lui, come il capitano – poi maggiore – Ortiz, il tenente Simeon – che sarà l’ultimo comandante della fortezza, dopo Ortiz e Filimore – il tenente Hamerling, il medico dottor Rovine [sic]. Tutti, in modi diversi, sono dapprima respinti, poi ammaliati, infine avvinti irresistibilmente dal luogo, insieme ostile e stregante; addirittura uno di loro, Ortiz, non potrà far altro, una volta ricevuto il comando di trasferimento, e sulla via del ritorno ‘alla normalità’, che uccidersi con un colpo di pistola. Gli attori sono quasi tutti di alto livello, e molto presenti nelle produzioni di spicco di quel periodo: il viscontiano Helmut Griem, il già bergmaniano Max Von Sidow, il grande Laurent Terzieff, che lavorò con molti dei più importanti francesi, oltre a Rossellini, Pasolini e Bunuel, i due bunueliani si può dire per eccellenza Fernando Rey e Francisco Rabal, infine Philippe Noiret (che si limita, come generale, a visitare brevemente la fortezza, dove rimane una sera a cena con tutti gli ufficiali) e Vittorio Gassman. Quest’ultimo riesce – non si sa se spontaneamente o se contenuto dall’autorità del regista – a rimanere al di qua della consueta esuberanza, manifestata spesso e volentieri nei film della cosiddetta commedia all’italiana, non di rado tracimante fino ad essere incontenibile e fastidiosa, e si limita qui a espressioni misurate e a battute pronunciate a mezza voce, quasi distrattamente. Anche se, a ben vedere, il suo linguaggio del corpo talvolta tradisce un po’ la sua natura di ‘mattatore’, come veniva chiamato… ma chiedergli di dissimulare anche quella parte della sua recitazione era evidentemente troppo. E comunque, nessuno di questi personaggi, interpretati tutti da eccellenti attori, a partire dallo stesso Perrin, può fare a meno di soccombere, ognuno di loro è sovrastato, schiacciato dall’atmosfera opprimente e pervasiva della Fortezza Bastiani, dalla sua misura di tempo immobile e apparentemente eterno, a fronte dell’ineluttabile brevità e debolezza delle loro vite umane.
C’è un’altra parte che emerge, sia pure brevemente, ma con forza e nitore, nella parte centrale del film: Lazare, il soldato che a un certo punto scompare, misteriosamente, per riapparire d’improvviso in piena notte, quando arriva sotto le mura della fortezza, tenendo alla briglia il cavallo bianco che poco prima, con la sua apparizione, aveva tanto inquietato Drogo e il maresciallo Tronk (Rabal). Già qualche minuto prima si era colta sul suo volto, fugacemente, una strana espressione, indecifrabile e allusiva a qualcosa che non sappiamo – non ancora –, poco dopo l’episodio del cavallo. A me pare che Zurlini abbia volutamente conferito a questa parte qualcosa di ineffabile e inquietante, e non so se nel libro di Buzzati – che non ho ancora mai letto – questa accezione del personaggio sia presente. Così, quando Lazare riappare davanti al forte, instillando subito in Tronk e nella sentinella il dubbio, se davvero sia lui, oppure, se è lui, come pare evidente, perché si comporta così, cosa nasconde? Quei pochi secondi in cui la sentinella e Tronk si guardano in silenzio (e gli occhi del maresciallo, che rimane muto e immobile, sono palesemente terrorizzati) mi hanno colpito, trovo che siano fra i più intensi, se non i più intensi di tutto il film. Succede l’irreparabile, perché non c’è alternativa, il regolamento, sempre applicato con estremo rigore in quella guarnigione fuori del tempo e dal mondo, non lascia alcuna alternativa. Ma i due sanno, soprattutto Tronk sa che stanno per compiere un assassinio, sia pure inevitabile, costretti a farlo. Pure, a me sembra che la regia abbia – magistralmente – saputo infondere in quella figura fantasmatica apparsa nella notte davanti alla porta di accesso al forte, qualcosa di soprannaturale, come se non fosse in realtà lui, Lazare, a rivolgersi alla guardia notturna con parole e voce familiari. Ma il colpo di fucile è infallibile, e i soldati accorsi vicino a lui, esanime al suolo, non potranno fare altro che riconoscerlo, è lui, in quel momento, ormai morto. Ho trovato affascinante anche la parte della della spedizione in alta montagna, sotto la tormenta di neve, con Terzieff-Hamerling che va incontro, barcollando ma anche impavido, e sorridente, al suo ineluttabile destino: è in testa alla fila dei soldati che procede lentamente sprofondando nella neve, e scompare ben presto nella tormenta, come scompariranno tutti quelli che lo seguono, al termine di una lunga sequenza.
A proposito di Arg-e-Barm, avevo appreso il suo nome, e dell’importanza decisiva che aveva avuto per il film (che altrimenti non si sarebbe mai fatto) soltanto pochi anni fa, e avevo aggiunto il luogo alla lista di quelli in cui sono stati girati alcuni dei film più importanti per me. Alcuni li ho già realmente visitati, quasi sempre per puro caso – Hanging Rock, Bagno Vignoni, Stromboli, e certi angoli di Parigi, o della Bretagna – ma in molti altri non sono ancora mai stato, ad esempio in Spagna, nei pressi di Almeria, oppure nella Death Valley, o nel londinese Maryon Park, e nella stessa cittadella iraniana, sottostante al leggendario forte. L’ultima inquadratura del film, una scritta di tre righe bianche su fondo nero, mi ha informato, proprio l’altra sera, che non ci potrò mai andare, dopo il distruttivo terremoto di circa diciannove anni fa2.
Poche ore fa, scorrendo pagine Wikipedia dedicate al film di Zurlini e ai suoi personaggi e attori, ho scoperto, con sincero dispiacere, che Jacques Perrin è morto pochi mesi fa, in Francia, poco più che ottantenne. Lui era stato Drogo, nel film, e lui era anche stato – molto probabilmente – colui che scoprì l’esistenza di Arg-e-Barm, la perfetta Fortezza Bastiani, o Bastiano, senza di cui Il Deserto dei Tartari di Valerio Zurlini, il suo ultimo film, non sarebbe mai stato fatto, e nessuno lo avrebbe mai potuto vedere.
1 Va detto che Herzog rifece il film del 1922 di Murnau replicandolo in gran parte quasi scena per scena, con minime varianti; e mi par di ricordare che proprio l’uscita di Harker a cavallo dalla città sia pressoché identica.
2 In verità, il sito è stato in seguito ricostruito, per uno sforzo congiunto, e sicuramente lodevole, del governo iraniano e di altre realtà internazionali. Ma qualche immagine dei risultati ottenuti mi ha tolto ogni dubbio; sembra essere Arg-e-Barm, ma è tutt’altra cosa, e francamente escludo che ci potrei mai andare ‘in pellegrinaggio’. Proverei sicuramente una terribile delusione, quasi come trovarsi a Disneyland o in altri luoghi simili, al cospetto dell’imitazione di un qualcosa che, o non esiste più, oppure c’è, altrove, ma di cui è appunto, nient’altro che una copia, anche troppo fedele.
Frank Tashlin ha diretto diversi film con Jerry Lewis, ma ancora prima aveva fatto (ossia diretto dopo averli disegnati) moltissimi corti animati delle serie Merrie Melodies e Loony Tunes, giustamente celebri. Questo background emerge spesso nel suo lavoro come regista di lungometraggi (feature films), che svolse nella seconda parte della sua carriera nel cinema, fra i primi anni ’50 e la fine dei ’60, soprattutto, appunto, nei film con Jerry Lewis. Recentemente ne ho rivisto uno,The Geisha Boy, in italiano, curiosamente, Il ponticello sul fiume dei guai1. Si nota, per prima cosa, la cura dell’inquadratura, che è sempre un po’ squilibrata, apparentemente, ma in realtà ben bilanciata, e pure, nello stesso tempo, quasi sbilenca, ripudiando ogni tentazione di simmetria e di staticità, e riuscendo così ad ottenere miracoli con il nuovo, per l’epoca, formato, con base decisamente più lunga dell’altezza, diversamente da ciò che accadeva con il 4:3. Il fulcro dinamico dell’azione non è mai al centro, oppure quando c’è – come l’inquadratura con il baule, alla fine – gli elementi di contorno (ammesso che abbia senso parlare di contorno nell’inquadratura tipica di questo autore) sono disposti in modo da ‘squilibrarla’, scongiurando così il rischio di avere un’immagine piatta e statica. Poi, il colore di tutti gli elementi, costumi degli attori compresi, ovviamente: essi vengono scelti accuratamente, in modo da creare inquadrature vive, dinamiche, in cui l’attenzione non è ostinatamente costretta a dirigersi sull’attore protagonista, o sugli attori protagonisti2. Il film che ho appena rivisto, e molto apprezzato – una visione che mi ha veramente procurato un genuino piacere – è del 1958, e guardandolo, e notando questa caratteristica, ho subito pensato a certi film di Kaurismaki, come Nuvole in viaggio, L’uomo senza passato e altri, che mostrano chiaramente una particolare attenzione del regista nella scelta degli arredi e dei loro colori, molto simile a quella di Tashlin. Ma anche nei film a colori di Ozu (all’incirca negli stessi anni dei film di T. con Lewis), soprattutto gli ultimi, accade un po’ la stessa cosa; e mi viene ora in mente quel che ha fatto Bresson nei suoi film a colori, soprattutto Così bella, così dolce e L’argent. Analogo il lavoro su tutti gli elementi che concorrono a formare un’inquadratura, scelti sempre con la massima accuratezza (anche qui, come gli stessi autori citati prima) e disposti in maniera tale da ottenere gli stessi effetti perseguiti con i colori; ovvero, essi tendono tutti ad assumere la stessa importanza degli attori, e contribuiscono all’ottenimento di quel certo effetto dinamico e di ‘sbilanciamento controllato’. C’è una scena che io trovo bellissima all’inizio di The Geisha Boy, quando Jerry si muove carponi lungo il corridoio dell’aereo, e mentre lui si vede sempre intero, o quasi, ogni tanto compaiono, in primo piano o dietro di lui, pezzi di corpi appartenenti agli altri passeggeri, tutti dormienti. Si vedono soprattutto gambe e piedi, qualche testa, e queste membra paiono staccate dai corpi a cui appartengono, quindi utilizzate dal regista per comporre l’inquadratura. È un po’ la tecnica del collage, e credo proprio che sia stata affinata da Tashlin nel suo lungo periodo di lavoro nel cinema di animazione, quando componeva le inquadrature, e quindi le sequenze, giustapponendo parti di personaggi e di cose, ognuna con un colore ben diverso, e scelto per combinarsi con gli altri senza appiattire l’immagine, bensì vivacizzandola3. Talvolta – e sono momenti che mi hanno particolarmente elettrizzato l’altra sera – sono gli stessi abiti, o costumi, degli attori a prevalere sullo stesso, anche se si tratta del protagonista, che è poi Jerry Lewis, uno che davvero riempiva lo schermo e non poteva passare inosservato, calamitando tutta l’attenzione sulle sue mosse ed espressioni. Penso soprattutto a una sequenza (credo sia quella in cui si presenta al cospetto del maggiore, che lo scaccerà dalla tournée, dopo le tante sue, sia pure involontarie, malefatte) in cui Lewis indossa una stupefacente giacca rosso cupo in lamé, un capo veramente molto bello, al punto di attrarre irresistibilmente la mia attenzione, quasi ignorando l’attore.
Peraltro, Jerry Lewis è Jerry Lewis, campione della smisuratezza (peraltro, sospetto, appresa, o quanto meno coltivata proprio lavorando tante volte con Tashlin) e non può mai essere del tutto ignorato, neanche in un film come questo, esempio riuscitissimo della particolare metodologia di Tashlin, volta, come detto, a ‘democratizzare’ (ovvero, a ricomporla, appunto, ‘democraticamente’, senza quasi rispettare alcuna gerarchia precostituita, dopo averla destrutturata) ogni inquadratura, e quindi la sequenza di cui fa parte. Ma le sue smorfie e le sue movenze sono un retaggio del cinema muto – Lewis adorava Stan Laurel4, ne studiò ogni mossa di ogni suo film – così come la tecnica di Tashlin, con l’uso ricorrente della cosiddetta sight gag (una scena che fa ridere mostrando situazioni soltanto visive, spesso senza parlato)5 deriva a sua volta dal cinema muto oltreché dalle sue esperienze in quello di animazione. E anche perciò si può dichiarare, senza alcun timore, che questo è un grande autore cinematografico, insomma uno di quelli che riuscirono a liberare sempre più quest’arte dagli iniziali condizionamenti del teatro arrivando a definire le modalità stilistiche che sono sue proprie, del cinematografo, anche se tante e tante volte, nel corso della sua già lunga storia, ci fu chi volle ritornare a scimmiottare quel tipo di espressione, smettendo così automaticamente di fare vero cinema ma piuttosto del ‘teatro filmato’6. Infine, non credo che nessuno si possa stupire sapendo che Jean-Luc Godard era un ammiratore veramente sfegatato del cinema di Tashlin (e poi di quello del suo allievo Lewis, i primi film che fece, all’inizio degli anni ’60), considerandolo un autentico maestro, sia pure ‘minore’, di quest’arte. E indubbiamente la sua maestria nella costruzione di ogni inquadratura, attraverso la scelta accurata, e mai banale, di tutte le componenti – collocazione degli oggetti e degli stessi attori, con una particolare attenzione nella scelta di tutti i colori, adozione di angolature di ripresa spesso inusitate – è innegabile, e salta particolarmente agli occhi in un film come The Geisha Boy.
1. Ma con ragione, essendo il celebre film di David Lean, Il ponte sul fiume Kwai, uscito nelle sale un anno prima, ripetutamente citato, in vari modi. 2. In questo modo essi vengono ‘declassati’ e portati al livello di tutti gli altri elementi, che diventano a loro volta protagonisti: una oggettiva ‘democratizzazione’ dell’inquadratura, e quindi dell’intera pellicola, con qualche comprensibile eccezione (se hai Jerry Lewis, o Bob Hope, nel tuo film, devi tenerne conto e dar loro comunque il giusto risalto). 3. Un altro evidente legame con il cinema d’animazione creato da Tashlin per molti anni, con le tante Merrie Melodies e Looney Tunes, è la presenza del coniglio bianco, utilizzato generosamente lungo tutto il film per creare situazioni tipiche di quel cinema. In molte di esse Harry sembra uno di quei personaggi, improvvisamente diventato ‘vero’. 4. Incidentalmente, Tashlin, agli inizi della sua carriera, ancora negli anni ’30, scrisse la sceneggiatura di un corto di Laurel and Hardy. 5. Anche in questo film esse abbondano, soprattutto molte di quelle in cui appare Harry, il coniglio – che poi si rivelerà essere una coniglia (“Hey, you’re not a Harry; you’re a Harriet!”). 6. Robert Bresson, in molte delle sue interviste (vedi Bresson su Bresson) batte su questo punto, sul cinematografo che non è teatro filmato, e deve essere realizzato in modo del tutto diverso, a tutti i livelli, compresa ovviamente la recitazione degli attori.
Questo non è un libro sul cinema, nonostante la parola ‘film’ compaia nel titolo. E soprattutto, non nasce da un progetto, poiché non era mia intenzione fare qualcosa del genere quando iniziai, nel 20181, a scrivere, generalmente il giorno dopo aver visto un film, qualcosa sull’esperienza della sera prima, o di qualche sera prima, talvolta. Nel tempo, i testi si andarono pian piano accumulando, così da un certo momento in poi iniziai a pensare di raccoglierli per, infine, pubblicarli tutti insieme in un libro. Questa procedura è qualcosa di consueto per me, nel senso che non faccio mai realmente niente a partire da un progetto. Recentemente ho letto un libro che raccoglie tutte le interviste fatte a Robert Bresson (incidentalmente, uno dei maggiori protagonisti di questo libro, come chiunque lo abbia letto avrà potuto notare), il quale descrive spesso il suo modo di lavorare, con frasi come «Prima lavoro / faccio le cose, dopodiché penso», oppure «Non ho teorie, rifletto dopo il fatto. Prima faccio, e [poi] mi sorprendo». Ma forse quella che preferisco è «Un film dovrebbe essere qualcosa continuamente nascente. Una sorta di equilibrio si stabilisce nel corso del tempo». Ecco, Bresson descrive molto bene il mio stesso modo di fare le cose, un modo del tutto naturale, perché io sono così e non potrei agire diversamente. In questo periodo, che copre all’incirca quattro anni, dal 2018 al 2022, questa consuetudine quotidiana è stata tale perché era la cosa che mi piaceva di più, e anche quella che mi riusciva di fare più facilmente, senza pensarci troppo, soprattutto senza troppi preparativi, e nessun tipo di compromesso. Per un insieme di circostanze, la mia vita era come se si concentrasse lì, in quell’ora e mezza circa, più raramente due ore o più, e tutto emergeva quindi, prima durante la visione, in modo inconsapevole, e dopo, scrivendone: pezzi della mia vita passata, riflessioni su altre cose che apparentemente non c’entravano molto col film, e poi, soprattutto fra il 2020 e il 2021, riflessi ed echi della mia vita in quel momento. Credo che, dopo averci pensato per la prima volta, la convinzione che avesse senso pubblicare tutti – o quasi tutti – i miei testi su film che ho visto, sia nata, rafforzandosi sempre più con il passare del tempo, proprio quando mi accorsi che parlando di un film che avevo appena visto parlavo anche di me, della mia vita, soprattutto la mia vita in quel momento, senza peraltro esplicitare più di tanto questo aspetto. Infatti, quasi sempre, quando alludo a fatti che stavano avvenendo in quel periodo, e al loro effetto su di me, evito di descriverli con troppa chiarezza. Anche se io so, sapevo bene a cosa mi riferivo. In massima parte quel che ho scrivo sui vari film è relativo a una visione solitaria, in casa mia, e non in una sala cinematografica (anche se emergono in alcuni testi, resoconti di visioni avvenute in quel contesto, risalenti a molti anni prima, generalmente). Sarebbe troppo lungo, e faticoso, spiegare perché ciò avviene, ovvero perché io non vada più, ormai da qualche anno, a vedere un film in un cinema. Ma è così, e dubito che in futuro ci sia un cambiamento; semmai, potrebbe accadere che veda meno film (al momento si può dire che non passi quasi mai una sera senza la visione di un film in formato video), se ad esempio la mia vita registrasse dei forti cambiamenti, ora come ora del tutto imprevedibili. Peraltro, l’intensità che segnava ogni esperienza di visione, e che mi spingeva a scriverne, ora, già da qualche tempo, si è un po’ affievolita, tanto è vero che l’ultimo testo, quello su Truffaut (i testi compaiono in ordine cronologico, perciò quello chiude l’antologia) risale, quasi esattamente, a quattro mesi fa [oggi è il 16 ottobre 2022, il testo risale al 17 giugno]. Dubito che ci sia mai stato, soprattutto negli anni di maggior frequenza dei testi – fra il 2019 e il 2021 – uno iato di tale ampiezza, e comunque, la mia sensazione è che difficilmente scriverò altri testi simili, in futuro. Ma poi chissà, non si può mai dire. Ad esempio un film rivisto ieri sera, un’opera considerata minore di Nicholas Ray, aveva alcuni momenti particolarmente intensi, sono tornato spesso a ripensarli, dopo averlo visto. Anche se finora non ho sentito quello stesso bisogno, quasi impellente, di scriverne. Vorrei anche dire che, se pure io scrivo sempre di getto, mosso da un’urgenza e senza un piano troppo ben tracciato (anzi, spesso senza alcun piano), questi, a differenza di altre tipologie di testi, non li ho quasi mai modificati o corretti – a parte quando notavo qualche svista, o una ripetizione troppo vistosa – ma li ho sempre lasciati praticamente intatti, perché istintivamente percepivo il rischio di sciuparne la freschezza, se li avessi troppe volte riletti e sottoposti a verifica. Ecco, ora non saprei più cosa scrivere su questo argomento, anzi, forse ho già detto troppo, e credo che mi convenga chiudere qui. È ancora Bresson a confortarmi nella mia convinzione, con una frase pronunciata nel corso di non so quale intervista pubblicata in quel libro: «Il ritmo di un film dovrebbe essere lo stesso della scrittura, di un cuore che batte». Perciò quando il battito comincia ad affievolirsi è giunta l’ora di smettere.
1 In verità, quello su Blow-up lo scrissi ancora prima, nel 2016, ma rimase un caso del tutto isolato per un paio di anni, e non pensavo, dopo averlo scritto, che sarebbe stato il primo di una serie. È proprio a partire dal 2018 che presi a scrivere con una certa frequenza su un film appena visto, o, come è spesso accaduto, ri-visto. Lo stesso testo sul Processo a Giovanna d’Arco, di Bresson, è ancora precedente (2015), e comunque è qualcosa di diverso da tutti gli altri, come appare con chiarezza a chiunque lo abbia letto. A voler essere molto precisi, al limite della pedanteria forse, avevo scritto molti anni prima qualcosa su un film di Kiarostami, Dov’è la casa del mio amico?. Ma quel testo, scritto a mano su un quaderno, probabilmente negli anni’90, quando vidi il film, non l’ho mai più ritrovato, purtroppo, e ad oggi ne conservo un ricordo molto vago.
La camera verde credo sia il film più strano di Truffaut; incidentalmente, è forse anche il più personale, più vicino alla sua vita nel periodo in cui si decise a farlo. Ho letto da qualche parte che T. dichiarò di essersi accorto un giorno, all’età di 45 anni, che molte persone importanti della sua vita erano morte, e lui sentiva acutamente il bisogno, non soltanto di ricordarle, ma di far in modo che la loro presenza fosse percepita ancora intensamente, come quando erano in vita, ricordandole quindi anche agli altri. Il fatto che nel ruolo del protagonista ci sia lui stesso (accadeva per la terza volta, credo) è forse di relativa importanza: pare infatti che la scelta fosse caduta su un altro, un attore spesso presente nei suoi film, Charles Denner, che però era indisponibile, per altri impegni già presi, all’epoca in cui prese avvio la produzione del film. Poi Truffaut dichiarò più volte di essere rimasto insoddisfatto per la sua interpretazione, e che sicuramente Denner sarebbe stato il perfetto Julien Davenne1. In verità a me pare che una certa gradazione bressoniana del personaggio, così come è interpretato da Truffaut, dia al film un valore aggiunto, aumentando quel certo senso di alterità che lo distingue dagli altri film di Truffaut. Che ho visto quasi tutti… credo infatti che l’unico a mancarmi sia Adele H (guarda il caso, un altro film ‘in costume’, come, oltre a La camera verde, Jules et Jim, Le due inglesi, Il ragazzo selvaggio e L’ultimo metrò, che pure si svolge in un’epoca più vicina a quella in cui T. visse e operò).
Ma mi sembra che certi caratteri dominanti nel film lo avvicinino semmai ad altre opere, come – cito alla rinfusa – La signora della porta accanto, Non tirate sul pianista, La peau douce, La sposa in nero… ce ne sarebbero tanti, direi infatti che riesce difficile nominare un film di Truffaut in cui il senso del tremendo non abbia una parte consistente, anzi, determinante, nella forma di eventi tragici che avvengono improvvisamente, spesso interrompendo situazioni ‘leggere’, se non veramente comiche. Penso a Baci rubati, con la morte del detective negli uffici dell’agenzia, inaspettata e sconvolgente, per gli altri personaggi del film e per noi stessi. Penso a La sposa in nero, con la spietata determinazione di Jeanne Moreau ad andare fino in fondo nei suoi propositi di vendetta a sangue freddo, uccidendo uomini che – alcuni di loro – avevano avuto la sfortuna di trovarsi oggettivamente complici di un omicidio in cui non ebbero alcuna parte attiva. Ma neanche loro verranno risparmiati dalla terribile vedova. Poi mi ricordo, in un film tutto sommato fra i più leggeri, quello che chiuse il ciclo di Doinel, L’amore in fuga, l’avvenimento sul treno, quando Marie-France Pisier si lancia per scongiurare la possibile morte della bimba che stava per aprire lo sportello di un treno in corsa: la sua reazione è scomposta, tutti la guardano allibiti, e soltanto dopo verremo a sapere che in quel momento la donna ha rivissuto la tragedia della perdita, proprio in un incidente, di una figlia ancora piccola. Un evento che, anche in questo caso, piomba nel film come un fulmine a ciel sereno, non si fa annunciare e prende possesso del centro della scena, cambiando, almeno per un po’, l’inerzia del corso degli eventi. Ma anche l’episodio della madre crudele che maltratta il figlio undicenne (credo), seviziandolo fino a renderlo infelice e chiuso al mondo, incapace di sfuggire al suo inferno. Lo veniamo a sapere in modo, anche qui, improvviso, quando T. ci fa assistere, da una certa distanza, all’irruzione della polizia nel tugurio in cui il bimbo viveva con la malfamata famiglia. Avviene in L’argent de poche, un film su bambini a scuola, leggero, spesso divertente. Come se Truffaut sentisse sempre il bisogno di ricordare, e ricordarci, che la vita si regge su un equilibrio altamente precario, e il tremendo è sempre in agguato, piombando per stravolgerla, e stravolgerci, nei momenti magari più sereni e distesi. Mai illudersi, e quindi mai ci si dovrebbe lamentare, perché sta a noi evitare ogni illusione, preludio a sicure future disillusioni. Fra l’altro, mi sembra siano pochi i film in cui non ha luogo la morte di una persona, magari anche in un flash-back (come nel suddetto L’amour en fuite); forse nel primo lungometraggio, I 400 colpi, nessuno muore, ma già in quello dopo, Sparate sul pianista, ce ne sono almeno due, di morti, e poi altrettanti in Jules et Jim, un altro in La peau douce, più d’uno in Fahrenheit 451 e La sposa in nero, uno in Baci rubati… Non ricordo se ce ne sia qualcuno in La mia droga si chiama Julie, che ho visto molti anni fa e non mi ricordo più bene, ma insomma, direi proprio che la morte sia una presenza costante nel cinema di Truffaut, comparendovi spesso inattesa e subitanea, e dopo il film riprende il suo corso apparentemente senza eccessive ripercussioni (v. ancora L’amour en fuite, o Baci Rubati, o Mica scema la ragazza – soprattutto la prima vittima della terribile Camille Bliss).
A colpire chi guarda La camera verde è l’apparizione assai precoce di una persona deceduta, che vediamo composta nella bara. È una giovane donna bionda, assai bella, avvolta in un drappo azzurro. Il neo-vedovo è sconvolto, non si dà pace, si frappone fra i necrofori e la bara, quando vorrebbero chiuderla, e addirittura abbraccia la salma e la solleva, d’impeto. Una scena davvero forte, disturbante, che sembra presa da certi film horror della stessa epoca, sconfinante nell’erotismo, quasi nella sessualità di tipo necrofiliaco. Ecco, qui, proprio all’inizio del film, il tremendo fa la sua prima imprevedibile apparizione, sconvolgendo i convenuti alla veglia funebre e noi stessi che guardiamo, seduti davanti allo schermo. Poi l’andamento della vicenda si placa, impennandosi però ancora, di quando in quando, e impedendoci di acquietarci troppo, come spesso accade in certi film in costume, quando sembra che il regista si compiaccia troppo della cura impiegata nella ricostruzione degli ambienti e dei costumi e vi indugi. Accade, uno di questi momenti di rottura del ritmo narrativo, quando Davenne-Truffaut impartisce una severa punizione al ragazzino sordomuto, reo di una mera disattenzione, in seguito alla quale si rompe uno dei preziosi (per il padrino) vetrini per proiezione. Il ragazzino reagisce ribellandosi, a modo suo, prima fuggendo di casa e poi rompendo con un mattone una vetrina, per impadronirsi di una parrucca femminile che vi era esposta (episodio davvero curioso: forse il piccolo, orfano, voleva riappropriarsi della madre? Un rapporto con i defunti analogo a quello del padrino). Dopo che un solerte gendarme lo ha acchiappato in flagrante, verrà rinchiuso, dimenticato per ore, in una tetra cella di prigione, dove verrà trovato nascosto sotto un pagliericcio, comprensibilmente sconvolto da tanta pena inflittagli. A proposito dei vetrini, all’inizio del film Davenne ne proietta alcuni nel suo studio mostrandoli al ragazzino: sono, ovviamente, immagini di persone morte (soldati della I Guerra Mondiale), alcune orripilanti, anche il bimbo se la ride guardandole, forse per esorcizzarle…
Altre irruzioni del tremendo seguiranno – l’incendio nella camera verde è fra le più note, io mi ricordavo soltanto questa scena, dopo la prima visione del film tantissimi anni fa – ma direi che la più impressionante avvenga durante la visita nello studio dello scultore incaricato di realizzare una copia perfetta in cera delle defunta moglie di Davenne. Il quale, vedendola, subito si indigna, cadendo preda di uno dei suoi irrefrenabilii attacchi di furore, e pretende l’immediata distruzione del manufatto. Lo scultore, dapprima contrario, si rassegna infine ad eseguire l’ordine, e noi intravediamo la terribile scena dall’esterno, attraverso i vetri, per lo più oscurati, dello studio. Intuiamo, più che vedere distintamente, lo scultore mentre sferra tremendi colpi di mannaia, per smembrare la statua. Ciò nonostante, la scena suscita orrore, forse anche perché (e qui starebbe la malizia davvero considerevole di Truffaut) ci eravamo accorti facilmente, poco prima, che la presunta statua era in verità una persona in carne ed ossa, l’unica volta in tutto il film in cui vediamo la defunta moglie di Davenne non ritratta in qualche vecchia immagine incorniciata, innocua, ma viva, con gli occhi azzurri vistosamente dipinti sulle palpebre chiuse. Questa scena così forte è comunque in bilico fra orrore e comicità da humour nero, e per qualche motivo strano mi ha riportato alla mente un’altra famosa scena, di un film di Hitchcock bensì: quella della seconda versione di L’uomo che sapeva troppo, quando James Stewart arriva nel laboratorio di tassidermia, credendolo il covo dei rapitori del figlio, e ingaggia una furibonda rissa con i lavoranti. L’atmosfera è molto simile, e poi c’è il contrasto fra gli apparentemente spassionati artigiani (uno dei quali, nel film di Truffaut, è, piuttosto curiosamente, un vietnamita) e il passionale e furioso visitatore.
Oltre a questi momenti così intensi e perturbanti, il film, rivisto dopo così tanto tempo, trovo che si illumini ogni volta che la mdp si sofferma – scelta giusta, per bilanciare gli ‘eccessi’ di cui sopra – sul viso luminoso, quasi sempre disteso e benevolo, di Natalie Baye, che era all’epoca assai giovane e nel pieno della sua solare bellezza. Il contrasto con l’ossessione solipsistica e auto-distruttiva di Davenne è assoluto – e tiene in equilibrio tutto il film, a mio parere – facendomi inoltre pensare che se il personaggio interpretato da Truffaut non si accorge realmente mai di lei, di quanto sia bella e ben disposta verso di lui, il suo tormento era davvero incurabile, e il film non sarebbe potuto finire altrimenti da come in effetti finisce. Truffaut era un uomo sicuramente tormentato, anche se, nella vita, sapeva dissimulare la sua profonda inquietudine dietro uno schermo di riservatezza e di rispettabilità borghese2. Aveva avuto una vita tutt’altro che facile, fino alla giovinezza, poi il cinema (dopo la letteratura) lo salvò, dandogli modo di sublimare le sue angosce, che peraltro emergono spesso in tutta la sua opera, anche nei film più brillanti, nelle commedie, soprattutto con certe subitanee e travolgenti irruzioni del tremendo.
1 Che poi, come si sa, l’attore aveva una certa vaga somiglianza con il regista, ed è probabile che, in parte, si fosse verificato nei suoi confronti, da parte di T., un ‘transfert’ simile a quello avvenuto con Jean-Piette Leaud, ovvero Antoine Doinel, ovvero François Truffaut…
2 Vedendo qualche documentario su di lui ho appreso che T. si rivolgeva con il ‘Vous” ai suoi amici più cari, che conosceva da più tempo e ai quali rimase sempre strettamente legato.
Io non ho mai avuto qualità straordinarie, ho solo fatto molta esperienza perdendo tutte le battaglie in cui mi sono trovato. SHIMADA KAMBEI / SHIMURA TAKASHI
I sette samurai è un film che si rivede ogni tanto, certamente non così spesso, essendo molto lungo. La versione considerata integrale sfiora le tre ore e mezza, l’ho vista per la prima volta ieri sera e la sera prima (il dvd, o bluray che sia, permette di spezzare la visione in due o tre volte, nonché di fermare il film quando si vuole, per scattare un fermo-immagine). È un film incredibilmente visivo, pieno di cose, di azione, di personaggi che compiono gesti spesso straordinari, eppure – me ne sono reso conto ieri per la prima volta – la sua grandezza sta semmai in quel che non si vede, qualcosa che percepiamo – o che si attiva – in noi con forza irresistibile, evocato dalle parole dei personaggi principali, o dai gesti, o anche soltanto da certi loro silenzi, al cospetto di qualcosa che sta accadendo o che è appena accaduto. Questa cosa trascende le immagini, così ammiriamo qualcosa che in effetti non si vede, ma viene suggerito/evocato, come per tutta l’arte veramente grande. Ma potrei forse dire che, grazie a questi segni appena accennati, ma per lo più intrinseci in parole, azioni o sguardi, noi la viviamo (sto cercando l’espressione adatta, che però non esiste, e allora quelle usate valgono da simulacri di quella giusta, inafferrabile, la rappresentano senza mostrarla). È una grandezza morale, che emerge attraverso le frequenti manifestazioni di umiltà e di modestia dei personaggi principali – i samurai in particolare –, le loro ammissioni di debolezza, di incapacità. Shimura/Kambei si schermisce di fronte all’espressione quasi impudica dell’ammirazione di Katsushirō («voglio essere il tuo discepolo!»), e così il valoroso, impavido Kyūzō, quando si accorge che quello lo guarda con occhi splendenti quasi incapace esprimergli quanto lo adora e come vorrebbe poter diventare altrettanto valoroso, pure senza alcuna superbia né ostentazione, lui, con la sua solita faccia di pietra, inespressiva, lo esorta a parlare in fretta, perché poi deve riposarsi prima del giorno dello scontro finale (e infatti subito dopo reclinerà la testa e chiuderà gli occhi appoggiandosi alla spada). Come probabilmente ricorderà chiunque abbia visto il film, Kyūzō era uscito dal villaggio in piena notte perché si era capito che qualcuno doveva compiere una sortita e disarmare un paio di banditi sottraendogli l’archibugio. Lui si offre spontaneamente, senza alcuna esitazione, anzi si può dire che stia già avviandosi verso l’accampamento nemico mentre comunica agli altri la sua risoluzione, e se ne va via deciso, con passo sicuro e svelto. Tornerà verso l’alba, dopo un tempo che deve essere stato piuttosto lungo, come si capisce dalla tensione dei suoi compagni in attesa, muti e attenti a ogni minimo rumore, ogni volta credendo che sia lui, che sta tornando, ma sempre delusi, e con la paura crescente di non rivederlo più, e che la sua missione sia fallita. Ma infine arriverà, con passo altrettanto sicuro che all’andata, ma senza alcuna fretta, perché ormai non ce n’è più bisogno, la missione è compiuta. Le sue poche parole, pronunciate con un tono di voce normale senza neppure guardare in faccia nessuno, sono indimenticabili, entusiasmano – soprattutto Katsushirō, travolto da questa ennesima manifestazione di grandezza accompagnata alla massima sprezzatura, ma anche noi che guardiamo il film, quasi settant’anni dopo – senza alcuna intenzione di volerlo fare: «Cancellatene altre due [dall’elenco dei banditi compilato e gestito da Kambei]». Mentre le dice, Kyūzō stende il braccio destro che impugna i due archibugi catturati, per consegnarli proprio a Katsushirō, che li raccoglie senza dire una parola, mentre lo osserva attonito.
Ancora nella prima parte del film Kambei fa un breve discorso di cui proprio non mi ricordavo (forse mancava nelle versioni accorciate che avevo visto prima?), rivolgendosi soprattutto al giovane, per esprimere il suo atteggiamento, dettato dallo stato d’animo di un samurai ormai anziano e del tutto disilluso, ma pure consapevole – sia pure senza esprimerlo direttamente con le parole – di quanto può e deve fare per aiutare i contadini vessati dai briganti. Lo riassumo qui: «So quello che vorresti dire, anch’io ho avuto i tuoi anni… un po’ di tempo fa. Acquistare bravura e poi distinguersi in qualche battaglia per poter diventare signore di un castello. E intanto il tempo passa in quest’attesa e succede che ti vengono i capelli bianchi come a me… Ti accorgi che i genitori sono morti, e che i parenti e gli amici sono spariti». A questa dichiarazione così disillusa e dimessa, fatta a bassa voce, come in un soliloquio, segue qualche secondo di assoluto silenzio da parte di tutti, sia Kambei sia i samurai che gli stanno intorno tacciono, gli sguardi assenti fissando il vuoto, e il luogo viene pervaso da un senso di grande mestizia. Ma ecco, uno di loro ammicca verso un punto alle spalle di Kambei, dice qualcosa sorridendo, gli sguardi di tutti si volgono in quella direzione: era intanto arrivato il prode Kyūzō, in silenzio, senza fare alcun rumore, per ascoltare anche lui le parole del Maestro. Ha infine deciso di unirsi alla spedizione, tutti esultano, lo stesso Kambei, improvvisamente non più triste, sorride, i suoi occhi brillano esprimendo grande contentezza per la sorpresa (non sperava forse più in quell’adesione così importante, decisiva). Questa scena piuttosto lunga, divisa in due parti da quel vero e proprio ‘ma’ (prima la tristezza e la disillusione, dopo l’entusiasmo e l’energia vitale ritrovata, tutto cambia in un attimo) credo spieghi perfettamente cosa intendo dire quando dico che la grandezza di I sette samurai trascende spesso le immagini, ineffabile ma potente anche più di quelle. Le parole di Shimura-Kambei sono stupefacenti nella loro semplicità e nella loro onestà, e ammetto di aver provato un certo turbamento ascoltandole, come se Takashi Shimura le dicesse lì davanti a me, proprio a me – o forse in vece mia – in quello stesso momento.
Può certamente sembrare alquanto velleitario affermare, come faccio io, che il film di Kurosawa, così pieno di cose fatte benissimo, duelli, cavalcate, scene di massa, e di paesaggi affascinanti, recitato talmente bene da bravissimi attori (tutti peraltro senza alcuna ostentazione – a parte Mifune, a cui K. diede assoluta libertà di improvvisare e di eccedere, proprio per ‘sbilanciare’ il film sottraendolo al rischio dell’agiografia, con samurai tutti perfetti e ammirevoli) e soprattutto girato, e montato, magistralmente, abbia la sua vera e maggiore qualità in ciò che non si vede, ma si percepisce bensì guardandolo. Ma non credo di forzare la realtà delle cose, perché sono persuaso che ciò abbia a che fare con certe note peculiarità della cultura giapponese – in letteratura, pittura, poesia e nello stesso cinema – che spesso mostra cose, situazioni o personaggi affidandogli un valore rappresentativo, o per meglio dire allusivo a ciò che non si vede, che non si può vedere e non si può dire. Perché non si deve vedere né dire, per mantenere la sua potenzialità, a cui si può alludere, ma che, se fosse mostrata impudicamente, senza veli, si perderebbe. Soprattutto, quel che voglio dire è che il film di Kurosawa ha tutto quel che ci vuole perché sia giudicato, con pieno merito, straordinario, per le sue scene d’azione riprese in modo molto innovativo, per il sapiente dosaggio fra elementi diversi, il ritmo, ottenuto alternando scene con registri diversi, insomma per tutte le sue qualità cinematografiche, peraltro imitate in seguito da innumerevoli registi. Ma la sua grandezza – una qualità morale, come detto – gli è data da altri elementi, molto meno appariscenti, spesso addirittura invisibili, suggeriti – piuttosto che imposti – alla nostra attenzione proprio da quelle apparenze così ben realizzate, in esse impliciti.
Penso che la prima parte del film, soprattutto a partire da quando i quattro contadini arrivano in città per cercare i samurai, sia molto interessante, ed è forse quella che preferisco, anche perché lì accadono gli eventi dai quali prenderà avvio la vicenda. L’incontro, del tutto casuale, con Kambei, la sua preparazione prima di recarsi alla capanna in cui si è asserragliato il ladro con il bimbo in ostaggio, poi il modo in cui riesce a liberare il bimbo uccidendo il rapitore, sono momenti indimenticabili. Sembra tutto così naturale, fatto senza sforzo, le cose accadono e il forte agisce di conseguenza, sfruttando al meglio le sue qualità e le debolezze dell’avversario. Ma lo fa senza alcun vanto, con suprema sprezzatura, stupendo così ancor di più la folla che lo circonda durante tutte le fasi dell’impresa, e Katsushirō in particolare. Poi le sue esitazioni, l’iniziale rifiuto della proposta dei contadini, le successive riflessioni, segnalate da un gesto che farà spesso durante tutto il film, strofinandosi lentamente il mento mentre emette un sordo «uhm». Anche qui procede cautamente, soppesando tutti i pro e i contro prima di imbarcarsi in un’impresa che, lo sa bene, sarà difficilissima, e che non gli porterà neppure alcun guadagno venale, ma soltanto la sensazione appagante, quando tutto sarà finito, di aver fatto il meglio in suo potere per aiutare i contadini liberandoli dalle angherie dei banditi. Ma è soprattutto bello vedere come agirà per scegliere gli altri samurai, stando assolutamente fermo mentre guarda, dall’interno di una locanda, tutti i viandanti che passano lì davanti, cercando di capire dalle apparenze quali potrebbero avere le qualità, fisiche e morali, per poter essere scelti. È una dimensione che ora sembra arcaica, perduta per sempre: affidarsi al caso, osservando il libero scorrere della vita, cercando di indovinare la natura di uno sconosciuto dal modo in cui si muove, cammina, parla con altre persone, prima di farne realmente conoscenza, iniziando a conversare con lui. E ne vediamo passare molti, di questi samurai senza padrone, vaganti per città e campagne senza una meta precisa, nell’attesa di un incontro decisivo, di un’occasione. Tutte cose di cui ora, già da tempo e sempre più, si sente acutamente la mancanza.
In Brief Encounter (Breve incontro) il passaggio dei treni – molto vicino allo spettatore, che quasi percepisce lo spostamento d’aria – ha veramente qualcosa di fatale e ogni volta la loro apparizione mozza il fiato, quasi quanto accadrebbe a chi realmente si trovasse in quei momenti sul marciapiede accanto al binario. Ho visto moltissimi film con la presenza di uno o più treni, ma in genere la storia si svolge all’interno, e noi, così come chi è seduto nello scompartimento, vediamo il paesaggio trascorrere al di fuori, oltre il finestrino. Credo invece siano più rari i film in cui, come in questo, un treno sfreccia davanti a noi, molto vicino, e noi lo vediamo quindi, per pochi istanti, sempre dall’esterno. In questo film accade spesso, il binario credo sia generalmente sempre lo stesso, oppure sono due, affiancati, soltanto che i treni li percorrono nelle due opposte direzioni, così come i due protagonisti, ogni volta nel tardo pomeriggio quando si salutano, ripartono ognuno verso una direzione opposta a quella dell’altro. E credo siano soprattutto quelli i momenti più intensamente percepiti, dato che il film, per il resto, si dipana in maniera apparentemente piuttosto monotona, e i veri travagli hanno luogo soprattutto all’interno dei due protagonisti, molto probabilmente inavvertiti da chiunque li veda nei momenti in cui sono insieme e si parlano sussurrando, per lo più stando seduti nel bar della stazione. Ma si tratta di due persone molto comuni e poco appariscenti, Laura e Alec, due inglesi nei mesi immediatamente successivi alla fine della guerra, che per tutto il film rimangono in bilico fra il rigoroso rispetto delle convenzioni e delle apparenze e la tentazione della trasgressione, del salto nel buio, verso il nuovo, l’ignoto. Nei momenti in cui un treno passa sfrecciando nella stazione sembra che tutto possa succedere, perfino buttarcisi sotto e farla finita; ma è questione di un attimo, il treno è già sparito e non è successo proprio niente, la stasi riprende imperterrita a dominare su tutte le vite, soprattutto quelle dei due amanti platonici, che pure ne soffrono intensamente. Il vero protagonista di questo film – ovvero il più potente, di gran lunga – è il treno, che dispone dei destini dei due innamorati infelici con assoluta noncuranza e spietatezza. Rispetta i suoi orari, parte, arriva, oppure sfreccia senza neppure fermarsi, prevenendo il possibile gesto della donna, che si rende conto soltanto all’ultimo momento dell’arrivo del treno in transito e così quando giunge sul marciapiede, dopo essere uscita precipitosamente dal bar, è ormai troppo tardi.
Pare che la stazione di Carnforth, in cui vennero girate diverse scene del film, nel lontano 1945, essendo rimasta pressoché intatta rispetto ad allora, sia diventata nel tempo la meta del pellegrinaggio dei fans di Brief Encounter, film molto apprezzato già allora e poi sempre più, al punto di diventare oggetto di una specie di culto. Capita abbastanza spesso, quando un film è stato girato in esterni e i personaggi vengono visti aggirarsi in luoghi dove chiunque potrebbe essere stato, prima che venisse girato, e dove volendo potrebbe recarsi dopo averlo visto. Io stesso, anni fa, avevo iniziato a compilare un elenco dei luoghi da me visitati che avevano ospitato le riprese di un film che avevo visto e che mi era particolarmente piaciuto. In verità, l’elenco comprendeva anche luoghi dove non ero mai stato, e dove mi piacerebbe andare, ad esempio nel Maryon Park, a Charlton (Londra), dove nel 1966 Antonioni girò la mirabile lunga parte in cui si vede David Hemmings gironzolare lì, senza una meta precisa, e così incontra Vanessa Redgrave, l’episodio fondamentale della storia, come ben sa chiunque abbia visto Blow-Up. Non sono neppure mai stato ad Arg-e Bam, in Iran, dove si trova (ammesso che esista ancora, e che sia intatto) il forte dove venne girato Il deserto dei tartari, un luogo cercato per molto tempo e infine trovato da Jacques Perrin (protagonista ma anche produttore del film), ritenuto essenziale da Valerio Zurlini per potervi girare il film. Ma non credo proprio che riuscirò mai ad andarci. Ed è quasi altrettanto improbabile che possa un giorno raggiungere Zabriskie Point, nella Death Valley, in California. Forse sarebbe un po’ più facile andare a Vera, presso Almeria, dove venne girata un’altra straordinaria sequenza di un film di Antonioni (l’ultimo suo veramente importante), Professione: reporter. Sono invece stato – ma sempre per caso, non deliberatamente – in diversi luoghi utilizzati da Eric Rohmer per girarvi i suoi film, come il Parc des Buttes-Chaumont a Parigi (La femme de l’aviateur e Nadja à Paris), il Parc de Luxembourg – uno dei luoghi da me preferiti in assoluto, fra quelli che ho visitato nella mia vita – di Incontri a Parigi, che si svolge anche al Museo Picasso e al Beaubourg, entrambi visitati (il secondo innumerevoli volte); e poi Dinard in Bretagna, che appare in Racconto d’estate, e non lontano da lì il Mont-saint-Michel di Pauline à la plage. A Parigi c’è anche – credo si trovi a Montmartre – un Cafè du tabac in cui entrai una volta, rendendomi subito conto che l’avevo visto (ci ero già stato) in un film di Mika Kaurismaki con suo fratello Aki; il film non sono mai riuscito a trovarlo in dvd, non so nemmeno più come si intitolasse, e anche scorrendo l’elenco dei film da lui girati non mi è riuscito di riconoscerlo, un caso davvero singolare, che spero di poter risolvere un giorno. Infine, un luogo di quella città da me visitato, il cimitero del Père Lachaise, compare nel primo film di Tsai Ming-lieng che vidi, molti anni fa al cinema, e che si chiude al Luxembourg, nei pressi della grande fontana. Sempre in Francia, qualche anno fa visitai il castello di Chambord, riconoscendolo poi in alcune parti di Pelle d’asino, di Jacques Demy, quando lo vidi per la prima volta, circa un anno fa.
Un luogo a me ben noto e che addirittura, nell’immaginario di molti, si identifica con un film che vi fu girato, è l’isola di Stromboli: ci sono stato diverse volte molti anni fa, era tutto praticamente identico a come si vedeva nel film di Rossellini, girato decenni prima; un caso, se non unico, sicuramente molto raro, considerando la distanza temporale fra il film e la mia visita (per quanto certi angoli di Parigi non sono, effettivamente, granché mutati a loro volta). Impressione che provai anche, fortemente, quando andai in vista a Bagno Vignoni poco meno di quaranta anni dopo le riprese di Nostalghia, di Tarkovskij, proprio nella piazza dove si trova la vasca di acque termali che è al centro di molte scene del film. Ma forse il mio sopralluogo più strano e più atipico fu ad Hanging Rock, nel 2007. Mi trovavo in auto non lontano da lì, decidemmo di fare una deviazione per visitare i posti visti nel film di Peter Weir, girato nel 1975. Era diventato, nel frattempo, un parco, una cosa un po’ da turisti, ma fu sorprendente, e perfino emozionante, constatare le ridotte dimensioni della sporgenza rocciosa (di questo si tratta), circondata dal bush. Pure, devo ammettere (e non sono del tutto sicuro che si sia trattato soltanto di suggestione) di essermi perso aggirandomi fra le rocce, che formano una specie di embrionale labirinto: per un minuto circa, non riuscii a rendermi conto di dove mi ero spinto, e come fare per uscirne, ciò che mi turbo, brevemente ma significativamente. Chi ha visto il film, sa bene a cosa alludo.
Ho sempre trovato interessante questa attitudine, piuttosto diffusa a quanto ne so, a visitare certe ‘locations’ cinematografiche, e mi sono più volte chiesto che cosa veramente significhi. Forse si sente la necessità di credere all’autenticità di certi film, e di stabilire che i personaggi che vi appaiono siano bensì delle persone, che realmente sono state lì e hanno fatto certe cose a cui noi abbiamo assistito, e assistiamo ogni volte che rivediamo il film, proprio mentre accadono… Io ad esempio – lo ammetto senza falsi pudori – quasi sempre penso, quando il film è finito (se il protagonista, o i protagonisti, non muoiono, ma semplicemente escono di scena, abbandonati dalla macchina da presa, che, o si ferma e smette di seguirli, oppure si rivolge altrove) che cosa ne sarà di loro, dove li porterà il destino, e inconsapevolmente, dentro di me, rimane il desiderio, appena dissimulato, di poterli incontrare un giorno, o quantomeno di sapere cosa avranno fatto in seguito. Perché di un film, così come di un sogno, si sente la necessità, io credo (per me è così) di sapere che essi sono veri, e in effetti è così, sono convinto che per noi non ci sia differenza, e nei ricordi successivi di un’esperienza in prima persona, oppure di un sogno fatto, o di un film visto, il nostro cervello non faccia distinzione fra queste tre cose. E poi, i fatti, gli incontri, qualsiasi esperienza lascia in noi un’eco, che la memoria trattiene indefinitamente, depositata da qualche parte, e che ci capita di riascoltare talvolta dopo moltissimo tempo, d’improvviso, quando il ricordo riemerge, e li riviviamo (ossia, riviviamo qualcosa che abbiamo fatto, sognato o visto al cinema). È questa un’esperienza molto a portata di mano per me, che vivo non lontano da molti dei luoghi che appaiono in un vecchio film di Antonioni, Le amiche, girato a Torino qualche anno dopo la mia nascita. Volendo, ci potrei andare anche subito, anche se quasi nessuno di essi è rimasto intatto, facilmente riconoscibile. Uno lo è, sicuramente, una piazza del centro dove vissi molto tempo fa per un paio d’anni circa: da una finestra di casa mia potevo vedere tutta la piazza, proprio come appare nel film e com’è tuttora. Ma il momento più emozionante per me, quando vidi – o rividi, probabilmente – il film in dvd un paio di anni fa, furono le immagini girate alla stazione di Porta Nuova, di sera. Ora è molto cambiata, ma all’epoca in cui la frequentavo spesso, dovendomi spostare per motivi di lavoro – e ritornando a Torino la sera tardi – era identica a come si vede nel film, e quando ho rivisto, a sorpresa, un certo angolo, con un’insegna al neon accesa, ho provato un’intensa emozione, come se potessi comprimere il tempo, decine di anni, soltanto stringendo la mia mano, vuota.
Ho recentemente rivisto, dopo tantissimi anni – questa volta dopo averlo scaricato da un sito online –, Casablanca, commuovendomi spesso, come è, se non proprio giusto, sicuramente inevitabile, o quasi. Ma ci sono tante cose piuttosto interessanti nel film. Chi ha buona memoria potrebbe ricordare che di Rick-Bogart qualcuno dice a un certo punto che, oltre a partecipare alla guerra in Spagna nel ’36, vendette armi ai cinesi, in guerra contro il Giappone. Il giorno dopo, scorrendo la pagina wikipedia dedicata al film, ho scoperto che non è vero, lui bensì vendette armi agli etiopi resistenti all’esercito italiano, che fece quel che fece là, come si sa. Ma nel doppiaggio italiano la cosa viene nascosta, con la mistificazione di cui sopra; inoltre, Ferrac, il bieco profittatore del Pappagallo Blu, che lucra sulle sventure degli espatriati, si chiamerebbe bensì Ferrari… e l’ufficiale italiano che all’arrivo del gerarca tedesco si profonde in disgustosi inchini, dichiarandosi pronto a tutto per lui, bene, quella scena in Italia venne tagliata. Ora, se si pensa che in Italia il film, realizzato nel 1942 e proiettato quindi un po’ ovunque, uscì nel 1946, allora ci si rende conto che lo schifo attuale, degli ultimi svariati decenni, c’era già allora, e anche potente, un solo anno dopo la caduta del fascismo. Casablanca è un film che visto adesso, nel pieno di un allucinante momento storico per l’Italia, fa uno strano effetto; perciò soprattutto mi sono commosso, di quando in quando, l’altra sera rivedendolo. Anche – lo ammetto – nella celebre scena dei due inni contrapposti, con la Marsigliese che ben presto sovrasta, cantata com’è da quasi tutti nel locale di Rick, l’inno tedesco che un gruppetto di ufficiali della Gestapo, alquanto ebbri, aveva intonato alzandosi in piedi. La Marsigliese l’hanno cantata in tanti – si potrebbe quasi dire, cani e porci – a partire da quando venne composta, circa 230 anni fa (esattamente il 23 aprile 1792, stando a wikipedia) in piena Rivoluzione Francese. Ma certamente nacque bene, e crebbe altrettanto bene quando, con un testo un po’ modificato, divenne la Marsigliese della Comune, nel 1871; quello stesso testo, con un’altra musica, diventò L’Internazionale, e la musica originaria, di nuovo con un testo diverso, fu anche usata per la Marsigliese dei Lavoratori, inno dell’anarchia. Molto più recentemente, l’attacco di All You Need Is Love, celebre canzone dei Beatles, è proprio quello della Marsigliese. Infine, bisogna sapere che – di nuovo, grazie wiki! – negli anni in cui la Francia fu occupata dai tedeschi, durante la II guerra mondiale, essi ne vietarono l’esecuzione, quindi quel che avviene a quel punto del film (anche se Casablanca, formalmente, pur trovandosi sotto il controllo di Vichy costituiva una specie di zona franca, dove la Germania non avrebbe potuto dettar legge come in Francia) costituisce, de facto, una trasgressione al diktat degli oppressori. Bene quindi commuoversi un po’.
Avevo visto “Un condannato a morte è fuggito”, di Robert Bresson, almeno una volta, o forse due, tempo fa, estraendo anche diversi frames, che poi avevo anche usato per qualcosa che ora non ricordo bene cosa fosse. Ma già da qualche anno non riuscivo più a trovare il dvd, nonostante ripetute ricerche, così mi sono deciso a ricomprarlo. Questa che ho visto ieri sera mi sembra un’edizione molto migliore, evidentemente restaurata, perché altrimenti un film come questo, in bianco e nero, con molte parti girate nella penombra o addirittura al buio, non si vedrebbe così bene. Ho anche il dubbio che il vecchio dvd durasse meno, che mancassero certe parti di cui, comunque, non mi ricordo. Notando, nei crediti, il rilievo dato al tecnico del suono e ai suoi assistenti, stavolta ho prestato molta attenzione al sonoro, di cui effettivamente non avevo un ricordo molto preciso. Che è molto importante, più d’uno ne ha scritto, è veramente un elemento essenziale della narrazione, anticipando ciò che avverrà di lì a poco con “Pickpocket”. La prigione è molto silenziosa, più volte il protagonista dice che vorrebbe calmare il battito del suo cuore in tumulto, per non essere scoperto quando sta facendo qualcosa di molto rischioso, preparando l’evasione. Ma quando si avvicina alla finestrella, là in alto, e soprattutto quando vi si affaccia, si sentono benissimo i suoni e i rumori della città, perché di là, oltre le sbarre, e oltre le mura, la vita procede come sempre: auto, moto, sferragliare e scampanio dei tram, fischiare dei treni (evidentemente la ferrovia passa vicino al carcere, ce ne renderemo conto benissimo soprattutto nell’ultima parte, durante l’evasione). A me è venuto in mente subito l’effetto provato visitando la Torre del Silenzio costruita da Libeskind nel Museo della Shoah a Berlino: altissima, senza finestre ad eccezione di esigue aperture presso la sommità, e da quelle provengono, bene udibili, rumori e suoni della città, perché questa doveva essere la percezione degli internati nei lager, che sorgevano spesso a poche decine di metri dalle città, dove a loro era precluso di andare, e che potevano soltanto immaginare, attraverso l’ascolto di quei suoni. Il film consiste in massima parte nella preparazione, assai lunga e minuziosa, dell’evasione, che il protagonista continua a dilazionare, sia perché deve prima finire tutti i preparativi, sia perché è consapevole di dover aspettare il momento giusto, forse quando il vento soffierà in una certa direzione, quella più propizia (parafrasando il sottotitolo, Le vent souffle où il veut1, una frase tratta dal Vangelo di Giovanni, detta da Gesù Cristo a Giuseppe di Arimatea). All’inizio del film, l’uomo tenta di fuggire dall’auto che lo sta portando alla prigione, è stranamente senza manette (come se qualcuno avesse voluto indurlo in tentazione), esita, cercando l’attimo giusto, che non arriva, e forse si muove quando non dovrebbe, così viene subito ripreso. Se mai ce l’avesse fatta, sarebbe stato un affare di pochi secondi. Ma non va così, e la vera evasione, quella che riuscirà, gli richiederà grandissimo impegno, dedizione, concentrazione, lungo molti giorni, settimane, mesi. Credo che questo soprattutto premesse a Bresson, mostrare come la via più breve è difficilmente quella giusta, forse perché troppo facile – perciò alletta –, mentre l’altra, quella più tortuosa, difficoltosa, faticosa, richiede molto più tempo, ma arrivati alla fine si ottiene veramente la salvezza, forse la grazia, o quanto meno la consapevolezza (ciò che accade spesso nell’opera di Bresson, come poi in “Pickpocket”, ad esempio, e nello stesso “L’argent’, l’ultimo suo film). La parte finale, con tutte le fasi dell’evasione, è lunga e lenta, tutta scandita da vari suoni e rumori: del campanile che batte le ore, del fischiare dei treni, dello sferragliare degli stessi treni quando passano nelle vicinanze del carcere. Soprattutto prima dell’azione decisiva, quella che porterà fuori dalla prigione Fontaine e Jost, su un viottolo che circonda il carcere, il tempo sembra fermarsi, e l’attesa dei due, fermi lì, nascosti dal buio, sul margine del tetto, osservando il muro di fronte, ultimo ostacolo sulla strada verso la libertà, sembra interminabile. Lì sul tetto, per ore, l’immobilità assoluta, poi alle quattro l’azione, fulminea. Improvvisamente, Fontaine decide di entrare in azione, subito dopo aver ascoltato il campanile battere quell’ora del mattino, l’ora in cui tutti dormono, nemmeno più treni passano, c’è un silenzio assoluto e ancora non è sorto il sole (credo fosse agosto, mancava quindi poco all’alba). Sveglia Jost che si era assopito, butta la corda che subito si aggancia dall’altra parte e va, aggrappato a quella, tesa fra i due muri, sospeso nel vuoto, si muove con sveltezza, sicuro come un gatto, coprendo la distanza fra il tetto del carcere e il muro perimetrale in pochissimi secondi. Jost lo seguirà subito dopo e finalmente i due atterrano fuori, oltre il muro della prigione, liberi. Una preparazione laboriosa, lenta, difficile, per un’esecuzione rapidissima, un gesto eseguito a mente finalmente sgombra, svuotata. Ore di attesa, dopo i primi passi furtivi, spesso strisciando, prima del breve volo liberatorio.
Mi ha molto colpito la scelta dell’ora, proprio quella, le quattro del mattino, subito dopo i rintocchi del campanile, per compiere l’azione definitiva e risolutoria. Questa, lo so, è anche l’ora in cui molte persone muoiono, in quella zona del tempo umano in cui tutto è fermo, ponte fra ieri e domani. Credo che mia madre (sono passati quasi 17 anni, ma ne sono abbastanza sicuro) morì all’incirca a quell’ora, e proprio lei mi aveva sempre detto che io nacqui proprio alle quattro del mattino, il 4 agosto. Poco dopo, quando Fontaine getta la corda verso il muro, e quella subito si aggancia, tendendosi, si sente nitido un suono insolito, arcano, diverso da tutti gli altri che rappresentavano la normalità e perciò stesso aiutavano il tenente a capire come e quando agire. È un suono vibrante, ipnotico, in condizioni ordinarie forse i due si sarebbero fermati, come incantati, ad ascoltarlo2. Invece in quel frangente esso agisce come un segnale propizio, fatidico: la corda è tesa, terrà sicuramente il peso di chi vi si aggrapperà, per i pochi secondi necessari a passare dal tetto al muro. È forse questo il suono del vento lungamente atteso, che “va dove vuole” e si deve cogliere e assecondare, per compiere, nel silenzio e nell’oscurità, l’azione da tempo preparata.
[testo scritto il 31 gennaio 2019]
1: in italiano, “Il vento soffia dove vuole”. 2: udendolo, mentre risuonava per pochi istanti, l’ho riconosciuto subito: è il suono prodotto dall’analapos di Akio Suzuki, lo strumento da lui stesso inventato, formato da una lunghissima molla di acciaio che, tesa, percossa e strofinata dalle sue mani, risuona all’interno di due cilindri metallici posti ai due capi. Glielo ho visto suonare molte volte, una volta anche a casa mia, e sempre gli astanti zittivano, rapiti, finché il suono continuava a librarsi nella stanza.