Da tempo si è abituato a vivere come un carcerato. Della sua prigione ha la chiave, ne può uscire quando vuole. Ma lo fa raramente, perché ogni volta si accorge che uscire da lì vuol dire entrare in una prigione ancora più grande, e soprattutto meno sicura di quella, dove pure non si sente del tutto protetto dai pericoli. Quando esce, prova subito un senso di sollievo, di apertura e di ampiezza, ma dopo un po’ deve rientrare, ha bisogno di sentirsi di nuovo al sicuro, o meno esposto al pericolo. Poi, dopo qualche tempo, di nuovo il bisogno di uscire, anche se sa che sarà sempre così, sentirà sempre, dopo, il bisogno di tornare dentro al più presto possibile.
Archivio mensile:agosto 2022
La salita
stiamo salendo faticosamente verso la cima, sudando e tremando, con passi lenti, cuore in gola, respiro affannoso, paura e rabbia; ricordi si alternano con apparizioni e visioni in un vago intermittente fulgore, mentre una musichetta ossessiva ci risuona in testa incessantemente
Far parte di una minoranza
Da quando sono qui a B. (più di due mesi, saltuariamente, con una assenza piuttosto lunga fra giugno e luglio) ho letto diversi libri, ma sono stato preso soprattutto da due di Vitaliano Trevisan e uno di Thomas Bernhard. Autori che si somigliano per tanti motivi, soprattutto perché si tratta di due isolati (o eccentrici): per scelta deliberata, direi, Bernhard, mentre quella di Trevisan parrebbe piuttosto una scelta quasi obbligata, o comunque condizionata, in buona parte, da certe sue patologie. Mi sono trovato bene con loro, e se per quanto riguarda lo scrittore austriaco è qualcosa di scontato, una certezza mai smentita anche quando, come stavolta, prendo in mano un libro per me del tutto nuovo (Antichi Maestri), nel caso di T., che leggo soltanto da pochi mesi, e sono arrivato finora a tre libri, più un testo apparso su un’antologia, ormai anche con lui mi trovo a casa, a mio agio in situazioni narrate che sono tutt’altro che piacevoli, per nulla consolatorie (sicuramente, non nelle intenzioni), e che molto probabilmente distoglieranno dalla lettura dei suoi libri moltissime persone. Anche questo aspetto lo accomuna a Bernhard, e accomuna il sottoscritto ad entrambi: perché io mi appassiono alla lettura di certi libri, che penso proprio piacciano a pochissime persone, testi scomodi, duri, senza compromessi, quasi sempre molto lucidi, che provano a smascherare la realtà fittizia che ci circonda, quella accettata da quasi tutti, che ci credono, forse, oppure semplicemente la accettano così, senza fare alcun tentativo serio per prenderne le distanze, men che meno provano a cambiarla. Ecco il punto cruciale: noi vediamo, siamo del tutto convinti di vedere, qualcosa che altri non vedono, e di questa specie di privilegio (?) non possiamo certamente vantarci, perché questa condizione, la capacità di vedere oltre le maschere e gli schermi, ci fa soffrire, nello stesso momento in cui – e qui parlo per me, e credo anche per Trevisan, come lettore di Bernhard – la lettura di questi testi così duri e spietati ci piace, addirittura ci appassiona, e ci fa sentire meno soli, vicinissimi a chi li ha scritti. Ma questa vicinanza – che è peraltro qualcosa di evanescente, di effimero, proprio perché viene stabilita indirettamente, per mezzo di un testo – corrisponde a una lontananza sempre maggiore rispetto a quasi tutti gli altri, le persone che compongono l’umanità di cui facciamo parte ora, mentre siamo vivi.
Me ne rendo conto spesso in questi giorni in cui, dopo più di due anni di isolamento quasi assoluto, quasi sempre in casa1, ma in ascolto, sempre pensandoli, tutti gli altri là fuori, lontani, sempre più lontani, in questi giorni, dicevo, da un paio di mesi o poco meno, passo molto più tempo fuori casa, incontro persone, conosciute o meno, parlo con loro, e così emergono talvolta, nei discorsi come negli atteggiamenti, le differenze fra noi, sempre più marcate, e una lontananza sempre maggiore. Ma una vicinanza si può creare, anche abbastanza spesso, e facilmente, con persone comuni, semplici – penso soprattutto ai contadini che vendono le loro cose al mercato nel paese a fondovalle, due volte alla settimana. Si tratta di relazioni molto ‘fisiche’, nel senso che non si parla di argomenti impegnativi, sopra di noi, lontani, bensì di cose, cose che si toccano, che ci stanno davanti, nelle quali loro, e io stesso, ci riflettiamo, loro per l’orgoglio di averle fatte crescere bene, io per il piacere che provo guardandole mentre anticipo il momento in cui le metterò in bocca, gustandone il sapore. Oppure si incontra qualcuno che mostra i manufatti che ha creato con destrezza e amore, li mostra con ben dissimulata fierezza e volentieri lo premiamo acquistandone uno, quello subito notato fra i tanti2.
Altrimenti, quando ci si trova seduti casualmente, estranei fino a pochi minuti prima, alla stessa tavola, è bensì molto facile che si parli d’altro, e l’attenzione si distolga da quel che abbiamo lì davanti, cibo da mangiare, acqua o vino da bere. Una situazione del genere si può verificare in un cosiddetto rifugio, molto facilmente se si è soli, e mi sta capitando abbastanza spesso in questo periodo. Così mi accorgo spesso di quanto diversi siamo, quasi sempre, io e gli altri, perché io non leggo più giornali da almeno un paio d’anni, non guardo televisione da decenni, non mi adeguo ai comportamenti della maggior parte delle persone – la cosiddetta massa – e perciò non ci capiamo, molto spesso, se non proprio sempre. Comportamenti, parole (mutuati, queste e quelli, dai vari media, iper-invasivi), tutto ciò che unisce molte di queste persone le divide da me, e mi divide da loro, perché io sono diverso, non c’è niente da fare, non so adattarmi, non ne sono mai stato capace, già da bambino (quindi la mia età avanzata c’entra fino a un certo punto, ne sono certo), gli esempi sono innumerevoli. Insomma, io faccio parte della minoranza di questo paese, tutti quelli che non si adeguano, che non possono proprio farlo – non è neppure una vera e propria scelta, alla fine – e che perciò si staccano dalla maggioranza, e da quelli, quando capita che si scambino chiacchiere su certi argomenti, vengono guardati con sospetto, diffidenza, se non, talvolta, proprio male, quasi come dei nemici, persone potenzialmente pericolose per la comunità. Oppure con sufficienza, come davanti a qualcuno che è fuori dal tempo, un retrogrado, che non usa lo stesso gergo attuale, e soprattutto non utilizza gli stessi strumenti, penso ai cosiddetti smartphone, ai bastoncini per camminare, agli auricolari mentre si corre (o anche soltanto camminando in città), alle biciclette cosiddette assistite quando si pedala. Strumenti che io non posso fare a meno di considerare come altrettante protesi, che qualcuno ha inventato, spesso creandoli dal nulla, riuscendo a convincere tanti, quasi tutti, ad acquistarli e usarli come qualcosa di indispensabile, anche se fino a pochi anni fa non esistevano, e si comunicava, all’occorrenza, con mezzi molto più ‘primitivi’, senza l’assillo di farlo subito, o al più presto possibile. Si camminava, allora, senza attrezzi (al massimo un bastone, magari raccattato in situ all’inizio della passeggiata e buttato via alla fine) e si correva senza l’obbligo, auto-imposto, di ascoltare musica, che copre i rumori e i suoni della realtà che ci circonda mentre corriamo, perfino mentre camminiamo, correndo così, inevitabilmente, anche dei rischi. Per quanto riguarda poi certe biciclette – se ancora esse si possono considerare tali – già soltanto la definizione ‘assistite’, non può non far pensare all’assistenza sanitaria, o a quella sociale, è un termine inquietante nella sua chiarezza, perché dice in modo inequivocabile di che cosa si tratta: qualcosa che ci assiste anche quando siamo sani, che ci allevia la fatica e ci fa sentire, illusoriamente, molto forti; così si va un po’ ovunque, senza più tenere troppo in conto i nostri limiti fisici, quelli che ognuno ha, che tutti ci definiscono, ognuno in un certo modo. Ma quello che a me pare anche, e soprattutto, preoccupante è il fatto che l’abuso, diffusissimo, di certi strumenti, limita oltremodo la già assai ridotta capacità delle persone di usare tutti i propri sensi, e non soltanto quello della vista3 (e, in misura minore, quello dell’udito); ciò che, inevitabilmente, potrebbe rapidamente portare a una loro oggettiva menomazione – in senso letterale –, rendendole (ma forse è già così, da tempo) schiave di tali strumenti, incapaci di rinunciarvi. Così come un invalido, ad esempio qualcuno a cui è stata amputata una gamba, non potrà mai più camminare senza servirsi di due stampelle, o, appunto, di una protesi. Una persona che, senza averne un reale bisogno, si trova in tali condizioni di dipendenza da certe sofisticate protesi non è più libera, ma è anzi, lo voglia o meno, oggettivamente esposta al concreto pericolo di una manipolazione dall’esterno, attraverso il controllo remoto di questi strumenti, che non le appartengono, ma dai quali viene piuttosto usata, con un rovesciamento di senso che era stato evidenziato magistralmente da Ivan Illich decenni fa, con la sua intuizione dell’eclissi dell’utensile, la cui funzione, e dipendenza, dalla persona che lo utilizza, si sta sempre più perdendo. Illich sostiene quindi che da un certo momento in poi, con la fine del rapporto uomo/utensile (gestito dal primo) sia iniziata l’era del sistema, in cui l’uomo è rappreso in una situazione di dipendenza da un agente esterno, sul quale non può esercitare alcun controllo, ma ne è bensì controllato.
Con tutto ciò, il problema (per me) è che, almeno in questo paese, io sono fra i pochi, anzi fra i pochissimi (ad esempio per quel che riguarda gli smartphone, usati ormai da quasi tutti) ad avere tali radicate riserve nei confronti di tutte queste protesi, e devo anche stare attento se mi capita di parlarne, soprattutto con qualcuno che non conosco, perché ormai sempre più tutto ciò che diverge dal pensiero (?) della cosiddetta massa4 qui viene visto o con indifferenza (atteggiamento accompagnato da un sorriso di sufficienza, e un ammiccamento, se ci sono altre persone presenti), oppure con sospetto, e perfino con una certa ostilità. Ostilità che ha raggiunto livelli davvero inauditi, e molto pericolosi, negli ultimi due anni, quando quella che doveva essere una scelta individuale responsabile, da fare dopo un’attenta analisi dei pro e dei contro, considerando anche le proprie caratteristiche fisiologiche (ciò che ovviamente avrebbe dovuto essere fatto da persone esperte, in grado di stabilire la fattibilità, e il beneficio, o meno, di certe pratiche invasive), essa divenne invece un obbligo, oltretutto imposto con forme odiose di ricatto, a cui molti furono costretti a cedere, per sopravvivere. Ebbene, tutto ciò è accaduto, in parte non ha ancora finito, non del tutto, di accadere, di fronte all’ignavia di troppi, che hanno finto di non vedere l’enormità di quanto stava accadendo, aderendo bensì alla generale isteria, consistente nel credere in asserzioni fittizie, irrazionali, e accettando limitazioni senza precedenti recenti alle libertà personali e civili, oltretutto imposte, con particolare virulenza, a chi non credeva a tali asserzioni, e quindi non ci stava. Io non ci sono stato, non ci sto, non potrei mai, e ho dovuto pagare questa mia posizione con l’isolamento, talvolta con il disprezzo, anche di presunti amici di lunga data. In tutta la mia vita, non mi ero mai reso conto come in questi ultimi due anni, due anni e mezzo, di fare parte di una minoranza, malvista dalla cosiddetta maggioranza. Prima ero intimamente convinto che il mio anticonformismo fosse una condizione privilegiata (la diversità, la rarità, di un oggetto così come di una persona, spesso impreziosiscono questa o quello), seppure scomoda, talvolta; ora ho invece capito – sono stato costretto a farlo – che può essere una condizione anche molto difficile, alla quale peraltro non si può sfuggire, perché non si è scelta: si fa o si dice quel che sentiamo di dover fare o dire, e non potrebbe essere altrimenti. Non per me, e per quelli come me, quei pochi.
Soprattutto nel cosiddetto mondo occidentale sta realmente avvenendo qualcosa di cui ancora troppo pochi, temo, si rendono conto. Ora la diversità – nell’ambito delle opinioni, prima, quindi in quello del comportamento – viene sempre più mal sopportata, anzi, combattuta con ogni mezzo lecito o meno. Ci si deve adeguare, si deve pensare, e agire, come vuole chi sta al potere (politico, economico, mediatico, anzi tutti e tre insieme, uniti) pena l’emarginazione, nel ‘migliore’ dei casi; perché altrimenti si rischiano procedimenti amministrativi, prima, e poi perfino penali, soltanto perché si pensa, e si agisce, in modo differente da quello che il potere vorrebbe, pur senza commettere alcun reato. Pochi, inoltre, scorgono enormi contraddizioni, ad esempio quando si parla di altre condizioni di diversità, riguardanti la provenienza (immigrati da paesi molto poveri e rifugiati) e l’orientamento sessuale. Così, certi raduni, ormai sempre più simili a colorate occasioni di festa e di esibizione (a somiglianza del carnevale) e altrettanto inoffensive per il potere – il quale anzi se ne appropria cercando di ottenerne un guadagno, in vari modi – che un tempo, neanche troppo lontano, venivano ostacolati e boicottati dalle autorità o da aggressive fazioni di stampo fascista, ora sono stati definitivamente legittimati, e ‘premiati’ dalla presenza di sindaci e governatori. Queste forme di diversità sono state ormai metabolizzate, e neutralizzata la loro originaria forza eversiva, di opposizione al potere, per la difesa dei propri diritti negati. Ma se si prova a fare una vera manifestazione, di vera opposizione, non vengono i sindaci a presenziare, tanto meno i governatori: viene piuttosto la cosiddetta forza pubblica in assetto anti-sommossa (definizione che dovrebbe dar da pensare: di quali sommosse si parla? una civile manifestazione, talvolta impreziosita dalla partecipazione di famiglie con bambini, è tutt’altra cosa), minacciosa, e pronta a caricare i manifestanti, e quindi ad arrestarne qualcuno, tenendoli poi in galera (o chiusi in casa con un cosiddetto braccialetto elettronico, una prigione senza sbarre), in attesa di procedure giudiziarie che in genere arrivano dopo molti mesi. Qualcosa che, quando avveniva, e avviene tuttora, in certi paesi definiti – a ragione – totalitari e nemici della libertà, veniva e viene additato, dai mezzi di comunicazione di massa, al pubblico ludibrio, mettendo in forte evidenza, che qui, da questa parte del mondo, certe cose non succedono. Invece succedono, e pochissimi paiono rendersene conto, mentre tutti gli altri, la maggioranza, tacciono o alzano le spalle, indifferenti o infastiditi quando qualcuno cerca di fargli capire che in determinati frangenti non c’è alcuna differenza, ora, fra noi e loro.
1 La mia ‘scelta’ è consistita nel crearmi un sistema di difese – soprattutto nascondendomi, come fanno gli animali – che mi permettesse quanto meno di sopravvivere, o comunque di vivere una vita in tono minore, in attesa di poter tornare a viverla nella sua pienezza. È stata la scelta del meno peggio, come si suol dire, obbligata: non vedevo alcuna alternativa (e ancora stento a vederne una, in questo paese).
2 È bene precisare che con gli abitanti della borgata in cui risiedo per tutta l’estate (e con quelli delle altre borgate nei dintorni) mi sono sempre trovato bene, a mio agio. Sono persone di buon senso, equilibrate e tranquille, che fanno una vita laboriosa ma serena; quasi sempre salutano con un sorriso chi incontrano per strada, anche gli sconosciuti (una faccia che sorride: immagine quasi del tutto scomparsa altrove, per moltissimo tempo, quasi ovunque) e non è raro che durante questi brevi incontri si scambino due chiacchiere. Da queste parti l’isteria che ha pervaso la vita nelle città in pianura, rendendole opprimenti e pressoché invivibili, credo sia sempre stata assente: io avrei voluto venire qui molto prima, sarei sicuramente stato molto meglio, ma purtroppo non mi è stato possibile.
3 Il senso dell’orientamento in particolare, se si fa caso a quante persone circolano brandendo il proprio telefono portatile ‘multifunzione’ in cerca di un indirizzo, e talvolta le si vede incerte e confuse a pochi metri da quello, e gli basterebbe fermarsi, guardarsi intorno e riflettere un attimo per trovarlo da sé, piuttosto che facendosi guidare da una scatoletta di plastica riempita di processori, a loro – e al luogo in cui si trovano – del tutto estranea. È uno dei tanti esempi che si potrebbero citare di come l’attenzione – nei confronti di tutto ciò che accade nel momento in cui si vive, ovunque ci si trovi – sia un’attitudine sempre meno diffusa fra gli appartenenti a questa società cosiddetta progredita, o evoluta.
4 Può veramente considerarsi pensiero il pensiero di gruppo, che non è il risultato di una approfondita ricerca, prima, e poi verifica interiore dell’individuo, ma a cui semplicemente si aderisce, acriticamente? Perché «lo fanno tutti, deve per forza essere la cosa giusta». Purtroppo, la scelta di un certo comportamento, in questo paese, è avvenuta in questo modo, nella maggior parte dei casi. Nessuna ricerca individuale, nessuno sforzo anomalo, sempre e soltanto la via più facile, quella più conveniente, che non richiede alcuna spiegazione, dettata da qualcuno ‘sopra’.
Post scriptum
Quest’epoca è fortemente segnata dal diffondersi – quasi un dilagare – dell’uso di dette protesi, alle quali l’individuo si appoggia, facendosi assistere, e a cui demanda l’esercizio di determinate funzioni. Esse non sono sempre qualcosa di fisico, di concreto, come le biciclette ‘assistite’, i bastoncini per escursionisti (anche, e soprattutto, quando vengono utilizzati per camminare sui viali e nei parchi cittadini), gli ‘smartphone’, gli auricolari (in varie forme, ad esempio anche per visitare un museo) e altre cose. Ancora più invasivi, a mio parere, sono i loro corrispettivi ‘virtuali’: è diffusissima la pratica di appoggiarsi, fino al punto di diventarne fortemente dipendenti, alle cosiddette ‘app’ (dal termine inglese applications), esistenti ormai in numero incalcolabile, collegate all’uso dei computer e soprattutto dei cosiddetti smartphone. Esse hanno abituato un po’ tutti all’idea che tutto sia possibile gestire con certi strumenti virtuali, e perfino – e qui nasce il pericolo – risolvere con essi qualsiasi problema della vita pratica. È un’idea assurda, che può lasciare sgomenti e disarmati coloro che si erano convinti di potervisi affidare sempre e comunque, al limite – forse esagero, ma neppure tanto – per debellare qualsiasi attacco alla nostra persona, come ad esempio quello portato da un virus, e sono stati, spesso brutalmente, disillusi. Potrebbe essere nata anche così la generale, profonda convinzione che si trattasse soltanto di creare una nuova app, insomma un vaccino, per vincere questo nuovo pericolo per la nostra salute. Non più sforzi per capire bene di cosa si trattasse, e trovare quindi con la massima urgenza delle terapie adatte (perché molti erano stati contagiati, e di quelli ci si sarebbe dovuti preoccupare, per curarli e guarirli): no, si doveva soltanto trovare, a tutti i costi, e velocemente, il miracoloso vaccino, per scansare il pericolo. Che è poi il pericolo di star male, soffrire, perfino morire, e queste cose sono sempre più temute, anzi rifiutate da tutti: la fatica, il dolore, e soprattutto la morte. Tutto ciò che ha sempre dato forma e sostanza a un’idea ‘alta’ di umanità che è andata avanti per molti millenni, consistente nel trovare e sviluppare in sé la forza e l’abilità per cavarsela da soli di fronte ad ogni avversità, e la capacità di soffrire, in attesa di una guarigione, dell’agognato ritorno alla vita piena. Infine la capacità e la forza di affrontare la fine della nostra vita, da soli, perché soprattutto in quei momenti si è assolutamente soli, non c’è aiuto, e non ci sarà mai alcuna app che ci possa assistere1. Ebbene, tutto queste qualità stanno venendo meno, c’è un senso generale di resa, quasi di abdicazione alla propria umanità, e ci si affida sempre più a un aiuto esterno a noi, sia di tipo medico sia per tutto quanto riguarda la volontà (e quindi la capacità) di determinare il proprio destino autonomamente, insomma con le proprie forze, compiendo gli sforzi adeguati, dopo aver espresso la propria scelta.
Ma tale attitudine è evidente in qualsiasi campo, in ogni aspetto del nostro esistere: ci si adegua, si aderisce acriticamente all’opinione della maggioranza, perché è tanto più facile così, è come arrivare a casa la sera e trovare la tavola imbandita, con la cena già pronta nel piatto.
In generale, questa in cui viviamo è una società sempre più deresponsabilizzante, dove l’individuo viene assiduamente ‘invitato’, spesso effettivamente costretto – uno o più televisori sempre accesi, quando ci si trova in casa, gli ripetono continuamente cosa fare, cosa pensare – a cedere, omettendo di prendere decisioni indipendenti, frutto di riflessione, dopo un approfondito studio del singolo problema. L’alternativa, tanto facile e a portata di mano, è appunto quella di aderire acriticamente alla tendenza generale, condizionata, spesso addirittura gestita, dal potere soprattutto attraverso i mezzi di comunicazione di massa, cosiddetti. E questa adesione, molto frequentemente, ha luogo anche considerando le convenienze, i piccoli o grandi – comunque miserabili, visto come si ottengono – guadagni che ne possono conseguire.
1 In molte culture era peraltro possibile trovare assistenza in una figura, riconosciuta dalla comunità, dotata di particolari qualità, che le permettevano di assistere il morente nei momenti finali della sua vita, alle soglie del trapasso.