Dominique Petitgand: I pezzi mancanti

Numero 6 di la nostra musica, stampato su carta usomano avoriata nel mese di gennaio 2023 in 30 copie (+ tre) numerate a mano, consta di 20 pagine compresa la copertina, nel formato (chiuso) cm 13 x 19. Vi è inoltre inclusa un’immagine fuori testo in b/n.
Il libro contiene sette testi scritti da Dominique Petitgand fra il 2005 e il 2006. Stampati su altrettanti fogli A4, che furono affissi su una parete, essi vennero presentati nella sua mostra personale Con voci e senza, allestita fra maggio e luglio 2006 nello spazio espositivo di e/static, in via Parma 31 a Torino.

da Con voci e senza, 2006

chi volesse ricevere una copia di questo libro scriva all’indirizzo presente in Contatti

Drogo a Arg-e-Barm

Il Deserto dei Tartari è l’ultimo film di Valerio Zurlini, l’ho visto diverse volte, l’ultima poche sere fa, in una versione recentemente restaurata, scaricata da un sito online. Ci sono alcune differenze, ad esempio brevi parti della versione francese evidentemente tagliate in quella italiana, e il film risulta più lungo. La parte, all’inizio, in cui si vede Drogo uscire dalla città accompagnato da un amico – entrambi sono a cavallo – me la ricordavo meno di tutto il resto, mi è sembrata un po’ diversa, in parte nuova per me, e credo anche che quando lo si vede da lontano, ormai solo, e sullo sfondo si vede un castello sulla cima di una collina, quella sia una sequenza a sua volta assente dalla versione italiana a me nota. Ne sono abbastanza convinto anche perché le altre volte non avevo mai notato (quanto meno non me ne ricordo) una somiglianza piuttosto accentuata con la parte del Nosferatu di Herzog in cui Harker-Ganz esce a cavallo dalla città per andare in Transilvania. Anche là, come qui, il protagonista lascia la sua città, e la civiltà, per andare verso luoghi sempre più selvaggi e aspri, intraprendendo un viaggio nello spazio ma anche nel tempo dal quale non ritornerà (Drogo) oppure tornerà ma radicalmente mutato (Harker). Il film di Herzog uscì nel 1979, tre anni dopo quello di Zurlini1.
Io non ho mai letto il libro di Buzzati, pubblicato nel 1940, anche se so che il film, per diversi aspetti, se ne discosta: inevitabile, trattandosi di un altro medium, con regole molto diverse, dovendo anche fare i conti con problematiche di tipo produttivo. Nel corso del tempo, diversi tentativi, da parte di registi come Antonioni, ad esempio, oltre a Sautet, Lean e Jancsó, fallirono, soprattutto per la difficoltà di trovare il luogo, la fortezza Bastiani (curiosamente, Bastiano nel film). Finché negli anni ’70 del secolo scorso Jacques Perrin, attore francese noto in Italia (e già protagonista di ben due film di Zurlini, sui soli otto girati dal regista), diventato poi nel tempo, e sempre più, un produttore – nel senso più pieno e autentico del termine – si interessò al progetto, occupandosene poi attivamente, e forse proprio grazie a lui emerse, finalmente, il nome di Arg-e-Barm, antichissima cittadella in Iran, tutta costruita in adobe, ancora esistente, sia pure diroccata, ai piedi della imponente fortezza che sarà il set principale del film. Una scoperta definita “fortunosa”, ma determinante, perché un luogo simile, immaginato da Buzzati, non esisteva realmente e non si sarebbe certamente potuto creare dal nulla. Anche i dintorni stessi, le montagne che sempre si vedono sullo sfondo, ci dovevano assolutamente essere, per dare un’idea veramente convincente della Fortezza Bastiani. Che realmente domina il film, protagonista al pari, al meno, di Drogo, e anche più degli altri personaggi, più in secondo piano rispetto a lui, come il capitano – poi maggiore – Ortiz, il tenente Simeon – che sarà l’ultimo comandante della fortezza, dopo Ortiz e Filimore – il tenente Hamerling, il medico dottor Rovine [sic]. Tutti, in modi diversi, sono dapprima respinti, poi ammaliati, infine avvinti irresistibilmente dal luogo, insieme ostile e stregante; addirittura uno di loro, Ortiz, non potrà far altro, una volta ricevuto il comando di trasferimento, e sulla via del ritorno ‘alla normalità’, che uccidersi con un colpo di pistola.
Gli attori sono quasi tutti di alto livello, e molto presenti nelle produzioni di spicco di quel periodo: il viscontiano Helmut Griem, il già bergmaniano Max Von Sidow, il grande Laurent Terzieff, che lavorò con molti dei più importanti francesi, oltre a Rossellini, Pasolini e Bunuel, i due bunueliani si può dire per eccellenza Fernando Rey e Francisco Rabal, infine Philippe Noiret (che si limita, come generale, a visitare brevemente la fortezza, dove rimane una sera a cena con tutti gli ufficiali) e Vittorio Gassman. Quest’ultimo riesce – non si sa se spontaneamente o se contenuto dall’autorità del regista – a rimanere al di qua della consueta esuberanza, manifestata spesso e volentieri nei film della cosiddetta commedia all’italiana, non di rado tracimante fino ad essere incontenibile e fastidiosa, e si limita qui a espressioni misurate e a battute pronunciate a mezza voce, quasi distrattamente. Anche se, a ben vedere, il suo linguaggio del corpo talvolta tradisce un po’ la sua natura di ‘mattatore’, come veniva chiamato… ma chiedergli di dissimulare anche quella parte della sua recitazione era evidentemente troppo. E comunque, nessuno di questi personaggi, interpretati tutti da eccellenti attori, a partire dallo stesso Perrin, può fare a meno di soccombere, ognuno di loro è sovrastato, schiacciato dall’atmosfera opprimente e pervasiva della Fortezza Bastiani, dalla sua misura di tempo immobile e apparentemente eterno, a fronte dell’ineluttabile brevità e debolezza delle loro vite umane.

C’è un’altra parte che emerge, sia pure brevemente, ma con forza e nitore, nella parte centrale del film: Lazare, il soldato che a un certo punto scompare, misteriosamente, per riapparire d’improvviso in piena notte, quando arriva sotto le mura della fortezza, tenendo alla briglia il cavallo bianco che poco prima, con la sua apparizione, aveva tanto inquietato Drogo e il maresciallo Tronk (Rabal). Già qualche minuto prima si era colta sul suo volto, fugacemente, una strana espressione, indecifrabile e allusiva a qualcosa che non sappiamo – non ancora –, poco dopo l’episodio del cavallo. A me pare che Zurlini abbia volutamente conferito a questa parte qualcosa di ineffabile e inquietante, e non so se nel libro di Buzzati – che non ho ancora mai letto – questa accezione del personaggio sia presente. Così, quando Lazare riappare davanti al forte, instillando subito in Tronk e nella sentinella il dubbio, se davvero sia lui, oppure, se è lui, come pare evidente, perché si comporta così, cosa nasconde? Quei pochi secondi in cui la sentinella e Tronk si guardano in silenzio (e gli occhi del maresciallo, che rimane muto e immobile, sono palesemente terrorizzati) mi hanno colpito, trovo che siano fra i più intensi, se non i più intensi di tutto il film. Succede l’irreparabile, perché non c’è alternativa, il regolamento, sempre applicato con estremo rigore in quella guarnigione fuori del tempo e dal mondo, non lascia alcuna alternativa. Ma i due sanno, soprattutto Tronk sa che stanno per compiere un assassinio, sia pure inevitabile, costretti a farlo. Pure, a me sembra che la regia abbia – magistralmente – saputo infondere in quella figura fantasmatica apparsa nella notte davanti alla porta di accesso al forte, qualcosa di soprannaturale, come se non fosse in realtà lui, Lazare, a rivolgersi alla guardia notturna con parole e voce familiari. Ma il colpo di fucile è infallibile, e i soldati accorsi vicino a lui, esanime al suolo, non potranno fare altro che riconoscerlo, è lui, in quel momento, ormai morto.
Ho trovato affascinante anche la parte della della spedizione in alta montagna, sotto la tormenta di neve, con Terzieff-Hamerling che va incontro, barcollando ma anche impavido, e sorridente, al suo ineluttabile destino: è in testa alla fila dei soldati che procede lentamente sprofondando nella neve, e scompare ben presto nella tormenta, come scompariranno tutti quelli che lo seguono, al termine di una lunga sequenza.

A proposito di Arg-e-Barm, avevo appreso il suo nome, e dell’importanza decisiva che aveva avuto per il film (che altrimenti non si sarebbe mai fatto) soltanto pochi anni fa, e avevo aggiunto il luogo alla lista di quelli in cui sono stati girati alcuni dei film più importanti per me. Alcuni li ho già realmente visitati, quasi sempre per puro caso – Hanging Rock, Bagno Vignoni, Stromboli, e certi angoli di Parigi, o della Bretagna – ma in molti altri non sono ancora mai stato, ad esempio in Spagna, nei pressi di Almeria, oppure nella Death Valley, o nel londinese Maryon Park, e nella stessa cittadella iraniana, sottostante al leggendario forte. L’ultima inquadratura del film, una scritta di tre righe bianche su fondo nero, mi ha informato, proprio l’altra sera, che non ci potrò mai andare, dopo il distruttivo terremoto di circa diciannove anni fa2.

Poche ore fa, scorrendo pagine Wikipedia dedicate al film di Zurlini e ai suoi personaggi e attori, ho scoperto, con sincero dispiacere, che Jacques Perrin è morto pochi mesi fa, in Francia, poco più che ottantenne. Lui era stato Drogo, nel film, e lui era anche stato – molto probabilmente – colui che scoprì l’esistenza di Arg-e-Barm, la perfetta Fortezza Bastiani, o Bastiano, senza di cui Il Deserto dei Tartari di Valerio Zurlini, il suo ultimo film, non sarebbe mai stato fatto, e nessuno lo avrebbe mai potuto vedere.


1 Va detto che Herzog rifece il film del 1922 di Murnau replicandolo in gran parte quasi scena per scena, con minime varianti; e mi par di ricordare che proprio l’uscita di Harker a cavallo dalla città sia pressoché identica.

2 In verità, il sito è stato in seguito ricostruito, per uno sforzo congiunto, e sicuramente lodevole, del governo iraniano e di altre realtà internazionali. Ma qualche immagine dei risultati ottenuti mi ha tolto ogni dubbio; sembra essere Arg-e-Barm, ma è tutt’altra cosa, e francamente escludo che ci potrei mai andare ‘in pellegrinaggio’. Proverei sicuramente una terribile delusione, quasi come trovarsi a Disneyland o in altri luoghi simili, al cospetto dell’imitazione di un qualcosa che, o non esiste più, oppure c’è, altrove, ma di cui è appunto, nient’altro che una copia, anche troppo fedele.