Siamo verso la fine del film. Sappiamo già che il vecchio César (“Papet”) ha praticamente deciso di lasciarsi morire, prostrato moralmente e fisicamente da due eventi terribili. Prima, la morte del nipote, che si è impiccato, poi una rivelazione sconvolgente fatta da una vecchia amica, cieca, che lo ha annichilito, costringendolo a ribaltare tutto il suo sistema di giudizi, mettendolo di fronte all’inutilità e allo scialo di un’intera vita, proprio quando è ormai giunto alla sua fine. La sua domestica – sordomuta – sta preparando il caffè del mattino, appresta un vassoio con tazze e quant’altro, per portarglielo in camera da letto (da giorni ormai non usciva quasi più, e aveva già chiamato il prete al suo capezzale, per confessarsi). La donna percorre la casa ancora in penombra fino ad arrivare alla camera del vecchio, dove regna il buio fitto. Noi siamo già lì, siamo in quel buio quando la porta si apre e la donna – che ancora non si vede, immersa nel buio – entra nella stanza, silenziosa e leggera mentre si dirige verso la finestra, la apre, spalancando con un gesto non troppo brusco le ante, e subito si odono canti di uccellini venire da fuori – prima non era possibile, finestra e scuri di legno chiusi lo impedivano. Immediatamente dopo si gira verso César, lo guarda – ma noi l’avevamo già visto, prima di lei –, è disteso sul letto, vestito di tutto punto, con la mano destra sul petto e la sinistra distesa al suo fianco, stringendo qualcosa. La donna, un attimo dopo aver rivolto lo sguardo verso il letto, si blocca, ha intuito qualcosa, perciò si dirige verso il vecchio, per sincerarsi – anche se ha già capito, e sembra avere sempre meno dubbi mentre procede, lentamente, con cautela. Si ferma allora nei pressi del letto, sempre fissando l’uomo, ora dall’alto, e in quel momento di stupefacente, fugace intensità – il più intenso e arrestante di tutto il film, di tutti e due i film1 – udiamo il canto di un gallo, là fuori. Un attimo dopo – ora non ci sono più dubbi, César è morto – la muta sfiora il viso del vecchio con un gesto di dolcezza e di pietà, e intanto la mdp, che era rimasta ferma, inizia una zoomata molto lenta sul braccio sinistro del vecchio fino alla sua mano, che vediamo infine in primissimo piano, a riempire quasi lo schermo. È per farci capire che essa stringe un pettine da donna, quel pettine, sempre conservato per cinquant’anni, che rappresenta tutta la sua vita come avrebbe potuto essere, piena e felice, e anche, per contrasto, quella che invece è stata, arida, avvelenata da avidità e cattiveria, la vita di un uomo spietato e crudele fino al punto di distruggere sé stesso e il suo (apparentemente) unico erede, che pure amava. La seconda parte della sequenza, in cui la mdp si avvicina, zoomando, alla mano, è accompagnata da una musica che nasce così, proprio dal nulla2, in contrasto col profondo silenzio precedente, e ci rivela un particolare tutto sommato quasi pleonastico, a paragone di quanto accade subito prima. Quel pettine stretto nella mano non ci turba, non ci tocca con la stessa intensità di quel momento in cui abbiamo udito il canto del gallo (un canto breve, simile a un’esclamazione rituale) proprio quando la muta sta per toccare César – toccando la morte. È come un’aggiunta, una nota a piè di pagina, certamente utile e pregnante, ma assai meno intensa e meno profonda della prima parte. Ha anche, io credo, una funzione distensiva per i sensi dello spettatore, dopo l’intensa attenzione esercitata appena prima, spiando la scena fino al momento in cui si raggiunge l’acme – della stessa sequenza e dell’intero film, pur essendo del tutto dissimile dal resto, un’oasi di pace in un paesaggio sempre concitato. Quando, per poco meno di un minuto, siamo rimasti trattenendo il fiato in ascolto di quel lungo silenzio interrotto, e fortemente drammatizzato, dal breve canto venuto da fuori.
1: Manon des sources, questo, e la prima parte, Jean de Florette, di Claude Berri. 2: E proprio quando la zoomata sta arrivando al suo termine udiamo, addirittura, l’armonica che suonava Jean de Florette, quello che César scoprì, troppo tardi, essere suo figlio naturale. Un momento davvero debole, di un sentimentalismo piuttosto banale, e incongruente con la prima parte del tutto priva di musica, in cui udiamo soltanto pochissimi rumori ambientali e il canto degli uccellini prima e del gallo poi.
Una persona si allontana da noi voltandoci le spalle, istintivamente guardiamo nella sua direzione, seguendola per un po’, con un’azione del pensiero. Perché partendo essa ci sottrae, oltre alla sua presenza, molte cose che la sua presenza aveva creato in noi, occupando uno spazio, un volume. È un movimento istintivo e spontaneo il nostro, in-deciso, con certe caratteristiche di un fenomeno fisico, qualcosa di simile al principio dei vasi comunicanti, per cui togliendo da un contenitore parte del suo contenuto liquido, il vuoto che si forma deve al più presto essere riempito, o meglio, proprio formandosi questo spazio disponibile, che prima non c’era, lì si crea un ‘surplus’ di energia potenziale, che si trasmette a tutto il resto, e questo movimento mette bensì tutto lo spazio di quel contenitore in azione, provocando una rivoluzione del sistema di rapporti precedente [lo status quo]. Tutto ciò accade nell’ombra, sotto la superficie, traducendosi appena al di sopra in modificazioni dell’atteggiamento, mentre intere costellazioni di pensiero devono mutare forma e direzione, perché spostandosi il punto di vista cambia anche la percezione delle cose, quelle che abbiamo lasciato partendo (anche solo mentalmente) con chi ci ha lasciati, prendendo la sua stessa direzione e guardando indietro da laggiù, dove siamo arrivati seguendolo, anche solo con lo sguardo. Innanzitutto, consideriamo come gran parte dei nostri progetti falliscono, e fallendo ci impongono un arresto, quando non ha più senso – improvvisamente lo ha perso – procedere nella direzione predeterminata, ché ha perso di valore e di interesse. Ci sono diverse valutazioni da fare, tutte positive, anche se è molto difficile constatarlo subito, tanto forte è il contraccolpo della delusione. Ad esempio, l’arresto di marcia, per l’impossibilità a procedere, impone di guardarsi intorno cercando una via alternativa, e l’attenzione viene rivolta anche a ciò che avevamo disprezzato e scartato, nel momento della decisione, ma che adesso, ripartendo da zero, riconsideriamo. Così ci troviamo di fronte a cose apparentemente diverse, ma che in verità sono poi le stesse, con un altro nome, e imbocchiamo strade che ci eravamo convinti non potessero interessarci, le imbocchiamo in un punto diverso da prima, venendo da un’altra direzione (stiamo infatti tornando sui nostri passi) e allora sono davvero diverse, altre strade. Ma anche l’inazione che spesso segue al fallimento può essere positiva e feconda, perché si attivano altri strumenti sensoriali, utili per una percezione diversa del luogo in cui ci siamo fermati; perché la nostra immobilità ci mette a confronto col movimento continuo di tutto il resto, e di questo spettacolo ci impregniamo, acquisendo dati preziosi, che ci sfuggirebbero passandovi accanto correndo, lo sguardo fisso verso l’obiettivo. Fallire un progetto (e non deve per forza trattarsi di un fallimento totale, anzi spesso le imprese, o le opere, parzialmente fallite, o parzialmente riuscite, sono le più forti) significa anche conservarne la maggior parte di energia, quella inespressa, che rimane intorno ai resti dell’insuccesso, pregni di ciò che è rimasto nell’aria, ed è sempre ancora sul punto di manifestarsi, infinitamente disponibile a farlo. Il cosiddetto successo, quando consiste nella totale realizzazione delle premesse, nel completo trasferimento dalla sfera ideale, del possibile, a quella concreta del realizzato, del compiuto, ci espone al pericolo dell’idolatria, dell’adorazione di un simulacro che assorbendo nella sua forma tutta l’energia dell’idea l’ha effettivamente consumata, esaurendola, impotente ormai a suscitarne di nuova in noi. Infine, la consapevolezza di non essere riusciti a realizzare l’idea mantiene in noi sempre vivo l’interesse per quell’entità sfuggente, che pure riusciamo ogni tanto a riprendere, anche soltanto per il tempo di un battito di ciglia, quando si ricompone davanti a noi nell’aria. Intorno a quei resti pare che resti infatti un alone, un pulviscolo in sospensione che ritrova occasionalmente una forma già perduta, che ancora perderemo, e potremo ancora ritrovare, indefinitamente. Si potrebbe davvero dire che sta alla cura dell’artefice far sì che l’opera sia difettosa, imperfetta, parzialmente fallita quindi, in modo da lasciarla libera, alleggerita della zavorra della compiutezza, della perfezione, che consiste bensì in una cristallizzazione dell’energia presente nel momento della creazione. Il quale dovrebbe rimanere sempre aperto, permettendole di circolare e di rinnovarsi nel rapporto conoscitivo messo in atto dal fruitore. Sta nel non detto, nel non espresso (seppure intuito) la forza dell’opera veramente riuscita, o meglio nel giusto rapporto fra quella porzione invisibile e quanto si può invece percepire coi sensi (vista, udito, tatto, ecc.).
Momenti che vengono riconosciuti come errori all’interno di un progetto, di un’opera, potrebbero diventare elementi costitutivi di un’altra opera, di un differente progetto. Si verificano casualmente (è questa la natura dell’errore) e sono portatori di possibilità impreviste, che da quel momento in poi sono disponibili. Da lì si può ripartire, cambiando direzione, per seguire la strada che esso ci indica, anche se non sappiamo dove può portarci.
C’è nella fase di elaborazione, e poi nella realizzazione, di un’opera, un’accumulazione di energia che poi vi rimane per qualche tempo, progressivamente dissipandosi. Quindi l’opera rimane a rappresentare quel tempo così vitale, e anche quando nulla rimane, se non una sua descrizione, o la testimonianza, filtrata o rielaborata dal ricordo, proprio il ricordo può riuscire a riattivare quell’energia, rigenerando l’opera e riattivandola . Ma la memoria non distingue tra realtà effettiva (l’opera) e ‘immaginazione’ (il suo progetto, spesso più ampio, o diverso), così può essere ricordata, e perciò ricreata, altrettanto bene la seconda quanto la prima.
(testo scritto nel 2009 e revisionato oggi, 16 marzo 2023)
Nagareru, tradotto, penso appropriatamente, come Flowing [scorrere, corrente, flusso] nel titolo inglese e Au gré du courant in quello francese [direi ‘secondo – o seguendo – la corrente’]1, è un film di Mikio Naruse del 1956. Come spesso accade nei film di questo autore, si vedono quasi soltanto donne – in questo caso tutte attrici molto importanti nella storia del cinema giapponese – mentre gli uomini compaiono, sì, ma brevemente, e senza mai assumere una parte determinante per lo sviluppo della storia. Ovvero, chi determina, o ha determinato svolte decisive per ognuna delle donne o non appare, ed è soltanto evocato, oppure appare ma brevemente, e quasi sempre – fatta eccezione per il gentile Saeki, che sembra affascinato dalla protagonista, Otsuta, e anche blandamente interessato alla figlia di lei, Katsuyo – portando una nota sgradevole. E sono il rozzo e brutale zio della fuggiasca Namie, il fatuo e irresponsabile marito (separato) di Yoneko, che non degna neppure di uno sguardo la figlioletta ammalata a letto, ma si sgrava la – assai labile – coscienza – consegnando alla moglie qualche medicinale imprecisato, un gesto impudente e miserabile; oppure il ricco signore che vorrebbe posare le zampe sulla non più giovane ma ancora affascinante geisha, uomo di una bruttezza laida, che quando sorride mostra una dentatura da squalo. A non apparire sono l’ex-marito di Otsuta e padre di Katsuyo, che pure qualche responsabilità sulle disgrazie della ex-moglie deve avere (se ne accenna all’inizio, in un dialogo fra lei e la sorella più anziana) e un ex-amante, Hanayama, persona peraltro, apparentemente, abbastanza positiva, che si interessa ancora di lei pur essendone stato lasciato (anche se poi manca all’appuntamento, dopo che lei, con molta riluttanza, aveva acconsentito a rivederlo sperando in suo aiuto economico).
Il luogo in cui si svolge la maggior parte del film è la casa di geishe gestita da Otsuta, ormai in declino e gravata da un’ipoteca (accesa con la sorella, avida e prosaica, sempre sprezzante nei confronti della sorella minore: decisamente odiosa) e sempre meno frequentata, tanto che le geishe, da sette che erano, si sono ridotte a tre, una della quali, Someka, è avanti con gli anni e non molto attraente. La figlia di Otsuta vive con la madre, anche lei nella casa anche se non fa la geisha, una professione che disprezza, anche se ci aveva provato, una volta, ma desistendo subito, per assoluta mancanza di interesse e soprattutto di passione. Interpretata dalla ben nota Hideko Takamine (questo è uno dei nove film di Naruse in cui compare), la ragazza è perennemente corrucciata, si strugge per il destino della madre, che vorrebbe convincere a lasciare la professione, ma sa bene che lei non lo farebbe mai, essendo quella la sua vita da sempre, oltretutto una brava geisha, soprattutto come suonatrice di shamisen e cantante. Katsuyo non sembra avere grandi qualità – pur essendo sicuramente attraente – è piuttosto irresoluta, vorrebbe aiutare la madre, verso cui ha sempre un atteggiamento protettivo, ma non sa bene come fare, e alla fine si risolve, nonostante il netto diniego della madre, che la trova una scelta indegna di lei, a diventare una cucitrice, e la vediamo curva sulla macchina da cucire al piano di sopra, presenza incongrua e stridente (anche per il rumore, discorde rispetto alle note dello shamisen) in quella casa. Ha nostalgia del padre, vorrebbe andare a trovarlo dove vive, fuori Tokyo, ma poi desiste, anche perché la madre la convince, senza neppure grande sforzo, dell’inutilità del gesto – che probabilmente, negli intenti della figlia, tenderebbe a provocare un’impossibile riconciliazione fra i due.
Un altro personaggio molto interessante, e che infatti apre il film, con il suo arrivo nella casa dalla campagna, è Rika (poi ribattezzata – deliberatamente, come vedremo – Oharu dalla patronessa della casa. Pur venendo da due tragedie recenti e ravvicinate nel tempo, che hanno completante stravolto la sua vita (le sono morti prima il marito e poi la figlioletta) ha una stupefacente serenità nei modi e nell’espressione del volto – sia pure sempre velato da una quasi impercettibile tristezza, soprattuto nello sguardo – che le consentono così di conquistare subito sia la padrona sia le altre donne presenti nella casa. Viene infatti assunta come domestica, un ruolo umile che lei però svolge con una dedizione, una gentilezza di modi, davvero una nobiltà d’antan, da farla diventare una presenza importante in quel luogo. Che è abitato da persone tutte variamente afflitte da numerose negative esperienze, da cui sono uscite sempre sconfitte, quindi piene o di amarezza o di nostalgia per un benessere un tempo ambito ma mai realmente provato, anche se una certa vaga attitudine a sognarlo ancora rimane, soprattutto in Otsuta. Rika non è più molto giovane, ma le sue doti umane – fra le quali predominano l’umiltà e l’empatia per chi le sta vicino, e che cerca in ogni modo di aiutare, sono davvero rare, eccellenti al punto da renderla interessante per chiunque viva nel quartiere e la incontri ogni tanto per strada. L’attrice che interpreta questo personaggio è Kinuyo Tanaka, molto famosa in Giappone (fu anche regista), soprattutto per i suoi ruoli nei film di Mizoguchi, fra i quali, appunto, Oharu nel film omonimo, che riesce ad esprimere appieno la natura di questa bellissima persona, una specie di angelo sia pure con limitati poteri, un po’ come quelli dei film ‘berlinesi’ di Wenders. La stessa attrice che interpreta Otsuta, Isuzu Yamada, una star del cinema giapponese già a partire dagli anni ’30, vista anche in un film di Ozu, il tristissimo Crepuscolo a Tokyo, è molto brava. E sempre brava, nella parte di Someka, Haruko Sugimura, che chiunque abbia visto almeno tre o quattro film di Ozu riconoscerà subito, anche perché i suoi personaggi si somigliano sempre molto fra loro, come se lei fosse davvero un po’ così, un misto di superficialità, vitalità prorompente e quasi volgare, e dei modi spesso obliqui, che fanno intendere macchinazioni segrete e poco rassicuranti dietro il suo largo sorriso. Ma più o meno tutte (a parte ovviamente Sugimura, quasi una Magnani giapponese…), compresa Takamine, recitano con semplicità, quasi con sprezzatura, e con minime variazioni dell’espressione facciale, abbastanza però per far intendere rivolgimenti interiori anche molto profondi.
La fine del film – che procede agilmente e senza mai troppi rallentamenti, grazie a un superbo montaggio – è veramente malinconica, e nella sua intensità ed efficacia credo dia a tutto il film, conchiudendolo in modo mirabile, caratteri di grandezza, tali da renderlo probabilmente uno dei migliori fra i moltissimi girati da Naruse. I nodi, come si dice, si sciolgono: l’altra sorella, Ohama, ex-geisha e patrona di una casa ben più efficiente, molto più prosaica di Otsuta, più scaltra e avveduta, scopre le sue carte, sempre ben dissimulate durante tutto il film fino a quel momento, e rivela a Rika-Oharu i suoi veri intendimenti. Dopo aver acquistato la casa, dicendo alla sorella che avrebbe potuto continuare a dirigerla, finalmente libera dall’assillo dell’ipoteca, la trasformerà in un ristorante, ma senza coinvolgere la sorella nell’impresa, ritenendola inadatta. La furba imprenditrice convoca la domestica-tuttofare a casa sua per offrirle di dirigere lei il locale, dopo essersi resa conto delle sue molte qualità e ritenendola adatta a tale impegno. Oharu immediatamente si rattrista, il suo solito sorriso quasi si spegna, e dopo aver capito che prenderebbe il posto di Otsuta, chinando il capo in segno di umiltà, declina l’offerta, suscitando una breve reazione di stupore in Ohama, che però abbozza. Tornando a casa, annuncerà prima a Katsuyo il suo ritorno al paese in campagna, motivandolo con ragioni di famiglia piuttosto vaghe, poi vorrebbe dirlo anche a Otsuta, ma non può, perché in quel momento, interrompendo una lezione a due giovani allieve, la padrona, accompagnata da Someka, entrambe allo shamisen, canta un’antica, classica canzone (le cui parole purtroppo non sono tradotte nel dvd francese che ho visto). Sono entrambe profondamente ispirate, rapite e come in trance mentre emettono quei suoni così poetici, arcaici, e hanno gli occhi chiusi, come assorte in un’esperienza di tipo quasi soprannaturale che evidentemente le trasporta in un passato lontano. Le due allieve sono a loro volta rapite, assistono alla scena immobili e in assoluto silenzio, seminascoste da un tramezzo, per non turbarla. E la stessa Oharu, con la sua proverbiale, innata discrezione, si tiene in disparte, mente guarda e ascolta. C’è uno stacco di montaggio molto significativo, e molto chiaro, quando vediamo, al piano di sopra, la figlia china sulla macchina per cucire mentre lavora. La vediamo di spalle, evidentemente non si cura della performance al piano di sotto, neppure la può ascoltare, perché il rumore meccanico, ripetitivo della macchina copre quei suoni: la prosaicità ottusa e spietata della modernità che travolge la poeticità effimera e lieve del canto e dei suoni. Così Naruse dimostra chiaramente come le due geishe, appartenenti a un mondo in via di estinzione, siano destinate a soccombere e sparire a loro volta. Mentre la figlia di Otsuta, che si è arresa, in qualche modo andrà avanti, a sua volta sempre soffrendo, ma senza il sostegno e il balsamo della poesia e dell’arte, che le sono precluse. Poco prima, durante il colloquio con Saeki, camminando lungo la riva del mare (un momento ricorrente in ogni film di Naruse – almeno quelli che visto io, una decina forse – una sua cifra stilistica, si può dire) la giovane aveva dichiarato, con un tono rassegnato e mesto, la sua missione di vita: prima di pensare a se stessa, a sposarsi (come lui le ha chiesto) trovare al più presto un lavoro che le permetta di mantenere se stessa e la madre, convinta, non a torto, dell’inadeguatezza di quest’ultima alla società così come si stava rapidamente evolvendo, e alla quale non potrebbe mai adattarsi, neppure volendolo.
1 In verità il termine può significare anche ‘spazzar via’, quindi ‘spazzato (o spazzati/e) via’, ed è forse questa l’accezione più pregnante in questo contesto.
(ho visto questo film la sera di venerdì 10 marzo 2023)
Se sono in casa, mi accorgo dell’arrivo del vento sentendo improvvisamente certi rumori. Dato che l’appartamento in cui vivo ha le tapparelle alle finestre, sono quelle che si mettono a vibrare, e subito, se sono intento a fare qualcosa, non capisco immediatamente l’origine del rumore – ne sono perfino allarmato, per qualche attimo – né perché si produca. Ma ben presto si sentono anche i rumori del vento per antonomasia, quando soffia più forte, e allora non ci sono più dubbi. Messo sull’avviso da questi segnali auditivi comincio a guardare fuori dalla finestra, vedo panni stesi e tende alle finestre che svolazzano all’impazzata, foglie e altri oggetti molto leggeri volare ovunque, spesso librandosi per qualche attimo (quando le folate sono intermittenti) e i rami dell’albero qui davanti alla finestra oscillano come non mai, spogli ancora di foglie e senza nemmeno gli uccelli che si vedono sempre saltellare da uno all’altro. Ma è anche la luce a cambiare drasticamente, togliendo ogni dubbio residuo: l’aria viene letteralmente spazzata e ripulita, ogni impurità sparisce, si può vedere molto più lontano, così certe cose molto lontane, ad esempio le montagne, sembrano vicinissime. In poco tempo tutto cambia, tutto si rinnova, e infatti proprio il vento di oggi è tipico di questa stagione, che è ormai primaverile, e già molte piante hanno le gemme, qualcuna addirittura i fiori. Finché soffia così impetuoso sembra che tutto il resto si fermi, anche persone o veicoli che si muovono sembrano farlo lentamente, per il contrasto prodotto da questa attività così potente, che esercita la sua influenza ovunque, senza che si possa far niente per ostacolarla, men che meno interromperla.
Socrate: «Giunti all’arte di regnare ed esaminandola a fondo, per vedere se fosse quella a offrire e a produrre la felicità, caduti allora come in un labirinto, mentre credevamo di essere ormai alla fine risultò che eravamo ritornati come all’inizio della ricerca, e avevamo bisogno della stessa cosa che ci occorreva quando avevamo incominciato a cercare».
Una montagna ha un dato aspetto da vicino, un aspetto diverso da qualche chilometro di distanza, un altro aspetto ancora da una distanza maggiore. La sua forma cambia ad ogni sosta, e tanto più quanto più l’osservatore si allontana; cambia a seconda che la si guardi da questo o da quel lato, o da quell’altro ancora. L’aspetto muta ogni volta che si sposta il punto di vista. Chiaro dunque che ogni montagna contiene in sé la forza di parecchie decine o d’un centinaio di montagne. Ha un aspetto in primavera e in estate, un altro in autunno e in inverno: la scena cambia secondo le stagioni. Ha un aspetto la mattina, un altro al tramonto, uno sotto la pioggia e un altro nel sole, uno il giorno e un altro la notte. Chiaro dunque che che una montagna contiene in sé gli aspetti di parecchie decine o d’un centinaio di montagne.
Numero 6 di la nostra musica, stampato su carta usomano avoriata nel mese di gennaio 2023 in 30 copie (+ tre) numerate a mano, consta di 20 pagine compresa la copertina, nel formato (chiuso) cm 13 x 19. Vi è inoltre inclusa un’immagine fuori testo in b/n. Il libro contiene sette testi scritti da Dominique Petitgand fra il 2005 e il 2006. Stampati su altrettanti fogli A4, che furono affissi su una parete, essi vennero presentati nella sua mostra personale Con voci e senza, allestita fra maggio e luglio 2006 nello spazio espositivo di e/static, in via Parma 31 a Torino.
da Con voci e senza, 2006
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Il Deserto dei Tartari è l’ultimo film di Valerio Zurlini, l’ho visto diverse volte, l’ultima poche sere fa, in una versione recentemente restaurata, scaricata da un sito online. Ci sono alcune differenze, ad esempio brevi parti della versione francese evidentemente tagliate in quella italiana, e il film risulta più lungo. La parte, all’inizio, in cui si vede Drogo uscire dalla città accompagnato da un amico – entrambi sono a cavallo – me la ricordavo meno di tutto il resto, mi è sembrata un po’ diversa, in parte nuova per me, e credo anche che quando lo si vede da lontano, ormai solo, e sullo sfondo si vede un castello sulla cima di una collina, quella sia una sequenza a sua volta assente dalla versione italiana a me nota. Ne sono abbastanza convinto anche perché le altre volte non avevo mai notato (quanto meno non me ne ricordo) una somiglianza piuttosto accentuata con la parte del Nosferatu di Herzog in cui Harker-Ganz esce a cavallo dalla città per andare in Transilvania. Anche là, come qui, il protagonista lascia la sua città, e la civiltà, per andare verso luoghi sempre più selvaggi e aspri, intraprendendo un viaggio nello spazio ma anche nel tempo dal quale non ritornerà (Drogo) oppure tornerà ma radicalmente mutato (Harker). Il film di Herzog uscì nel 1979, tre anni dopo quello di Zurlini1. Io non ho mai letto il libro di Buzzati, pubblicato nel 1940, anche se so che il film, per diversi aspetti, se ne discosta: inevitabile, trattandosi di un altro medium, con regole molto diverse, dovendo anche fare i conti con problematiche di tipo produttivo. Nel corso del tempo, diversi tentativi, da parte di registi come Antonioni, ad esempio, oltre a Sautet, Lean e Jancsó, fallirono, soprattutto per la difficoltà di trovare il luogo, la fortezza Bastiani (curiosamente, Bastiano nel film). Finché negli anni ’70 del secolo scorso Jacques Perrin, attore francese noto in Italia (e già protagonista di ben due film di Zurlini, sui soli otto girati dal regista), diventato poi nel tempo, e sempre più, un produttore – nel senso più pieno e autentico del termine – si interessò al progetto, occupandosene poi attivamente, e forse proprio grazie a lui emerse, finalmente, il nome di Arg-e-Barm, antichissima cittadella in Iran, tutta costruita in adobe, ancora esistente, sia pure diroccata, ai piedi della imponente fortezza che sarà il set principale del film. Una scoperta definita “fortunosa”, ma determinante, perché un luogo simile, immaginato da Buzzati, non esisteva realmente e non si sarebbe certamente potuto creare dal nulla. Anche i dintorni stessi, le montagne che sempre si vedono sullo sfondo, ci dovevano assolutamente essere, per dare un’idea veramente convincente della Fortezza Bastiani. Che realmente domina il film, protagonista al pari, al meno, di Drogo, e anche più degli altri personaggi, più in secondo piano rispetto a lui, come il capitano – poi maggiore – Ortiz, il tenente Simeon – che sarà l’ultimo comandante della fortezza, dopo Ortiz e Filimore – il tenente Hamerling, il medico dottor Rovine [sic]. Tutti, in modi diversi, sono dapprima respinti, poi ammaliati, infine avvinti irresistibilmente dal luogo, insieme ostile e stregante; addirittura uno di loro, Ortiz, non potrà far altro, una volta ricevuto il comando di trasferimento, e sulla via del ritorno ‘alla normalità’, che uccidersi con un colpo di pistola. Gli attori sono quasi tutti di alto livello, e molto presenti nelle produzioni di spicco di quel periodo: il viscontiano Helmut Griem, il già bergmaniano Max Von Sidow, il grande Laurent Terzieff, che lavorò con molti dei più importanti francesi, oltre a Rossellini, Pasolini e Bunuel, i due bunueliani si può dire per eccellenza Fernando Rey e Francisco Rabal, infine Philippe Noiret (che si limita, come generale, a visitare brevemente la fortezza, dove rimane una sera a cena con tutti gli ufficiali) e Vittorio Gassman. Quest’ultimo riesce – non si sa se spontaneamente o se contenuto dall’autorità del regista – a rimanere al di qua della consueta esuberanza, manifestata spesso e volentieri nei film della cosiddetta commedia all’italiana, non di rado tracimante fino ad essere incontenibile e fastidiosa, e si limita qui a espressioni misurate e a battute pronunciate a mezza voce, quasi distrattamente. Anche se, a ben vedere, il suo linguaggio del corpo talvolta tradisce un po’ la sua natura di ‘mattatore’, come veniva chiamato… ma chiedergli di dissimulare anche quella parte della sua recitazione era evidentemente troppo. E comunque, nessuno di questi personaggi, interpretati tutti da eccellenti attori, a partire dallo stesso Perrin, può fare a meno di soccombere, ognuno di loro è sovrastato, schiacciato dall’atmosfera opprimente e pervasiva della Fortezza Bastiani, dalla sua misura di tempo immobile e apparentemente eterno, a fronte dell’ineluttabile brevità e debolezza delle loro vite umane.
C’è un’altra parte che emerge, sia pure brevemente, ma con forza e nitore, nella parte centrale del film: Lazare, il soldato che a un certo punto scompare, misteriosamente, per riapparire d’improvviso in piena notte, quando arriva sotto le mura della fortezza, tenendo alla briglia il cavallo bianco che poco prima, con la sua apparizione, aveva tanto inquietato Drogo e il maresciallo Tronk (Rabal). Già qualche minuto prima si era colta sul suo volto, fugacemente, una strana espressione, indecifrabile e allusiva a qualcosa che non sappiamo – non ancora –, poco dopo l’episodio del cavallo. A me pare che Zurlini abbia volutamente conferito a questa parte qualcosa di ineffabile e inquietante, e non so se nel libro di Buzzati – che non ho ancora mai letto – questa accezione del personaggio sia presente. Così, quando Lazare riappare davanti al forte, instillando subito in Tronk e nella sentinella il dubbio, se davvero sia lui, oppure, se è lui, come pare evidente, perché si comporta così, cosa nasconde? Quei pochi secondi in cui la sentinella e Tronk si guardano in silenzio (e gli occhi del maresciallo, che rimane muto e immobile, sono palesemente terrorizzati) mi hanno colpito, trovo che siano fra i più intensi, se non i più intensi di tutto il film. Succede l’irreparabile, perché non c’è alternativa, il regolamento, sempre applicato con estremo rigore in quella guarnigione fuori del tempo e dal mondo, non lascia alcuna alternativa. Ma i due sanno, soprattutto Tronk sa che stanno per compiere un assassinio, sia pure inevitabile, costretti a farlo. Pure, a me sembra che la regia abbia – magistralmente – saputo infondere in quella figura fantasmatica apparsa nella notte davanti alla porta di accesso al forte, qualcosa di soprannaturale, come se non fosse in realtà lui, Lazare, a rivolgersi alla guardia notturna con parole e voce familiari. Ma il colpo di fucile è infallibile, e i soldati accorsi vicino a lui, esanime al suolo, non potranno fare altro che riconoscerlo, è lui, in quel momento, ormai morto. Ho trovato affascinante anche la parte della della spedizione in alta montagna, sotto la tormenta di neve, con Terzieff-Hamerling che va incontro, barcollando ma anche impavido, e sorridente, al suo ineluttabile destino: è in testa alla fila dei soldati che procede lentamente sprofondando nella neve, e scompare ben presto nella tormenta, come scompariranno tutti quelli che lo seguono, al termine di una lunga sequenza.
A proposito di Arg-e-Barm, avevo appreso il suo nome, e dell’importanza decisiva che aveva avuto per il film (che altrimenti non si sarebbe mai fatto) soltanto pochi anni fa, e avevo aggiunto il luogo alla lista di quelli in cui sono stati girati alcuni dei film più importanti per me. Alcuni li ho già realmente visitati, quasi sempre per puro caso – Hanging Rock, Bagno Vignoni, Stromboli, e certi angoli di Parigi, o della Bretagna – ma in molti altri non sono ancora mai stato, ad esempio in Spagna, nei pressi di Almeria, oppure nella Death Valley, o nel londinese Maryon Park, e nella stessa cittadella iraniana, sottostante al leggendario forte. L’ultima inquadratura del film, una scritta di tre righe bianche su fondo nero, mi ha informato, proprio l’altra sera, che non ci potrò mai andare, dopo il distruttivo terremoto di circa diciannove anni fa2.
Poche ore fa, scorrendo pagine Wikipedia dedicate al film di Zurlini e ai suoi personaggi e attori, ho scoperto, con sincero dispiacere, che Jacques Perrin è morto pochi mesi fa, in Francia, poco più che ottantenne. Lui era stato Drogo, nel film, e lui era anche stato – molto probabilmente – colui che scoprì l’esistenza di Arg-e-Barm, la perfetta Fortezza Bastiani, o Bastiano, senza di cui Il Deserto dei Tartari di Valerio Zurlini, il suo ultimo film, non sarebbe mai stato fatto, e nessuno lo avrebbe mai potuto vedere.
1 Va detto che Herzog rifece il film del 1922 di Murnau replicandolo in gran parte quasi scena per scena, con minime varianti; e mi par di ricordare che proprio l’uscita di Harker a cavallo dalla città sia pressoché identica.
2 In verità, il sito è stato in seguito ricostruito, per uno sforzo congiunto, e sicuramente lodevole, del governo iraniano e di altre realtà internazionali. Ma qualche immagine dei risultati ottenuti mi ha tolto ogni dubbio; sembra essere Arg-e-Barm, ma è tutt’altra cosa, e francamente escludo che ci potrei mai andare ‘in pellegrinaggio’. Proverei sicuramente una terribile delusione, quasi come trovarsi a Disneyland o in altri luoghi simili, al cospetto dell’imitazione di un qualcosa che, o non esiste più, oppure c’è, altrove, ma di cui è appunto, nient’altro che una copia, anche troppo fedele.
Quinto numero della collana la nostra musica, stampato su carta usomano avoriata nel mese di novembre 2022 in 30 copie (+ quattro), consta di 20 pagine compresa la copertina, nel formato (chiuso) cm 13 x 19; sono inoltre incluse due immagini fuori testo, in b/n. Il libro contiene due testi scritti in occasione dei due più recenti appuntamenti annuali di Mun ange, il luogo espositivo creato dallo stesso autore a Crissolo (CN). Mun ange esiste dal 2015, la sua attività è ampiamente illustrata sul sito munange.it.
Il padrone della bottega sentiva che era suo dovere pensare al destino della bottega, a cosa ne sarebbe stato dopo di lui. Non era sposato, non aveva figli, nessun parente importante cui affidarla, dopo un lungo tirocinio guidato da lui. Tutto sarebbe finito in un disordine tumultuoso, violento. E soprattutto ingiusto, come ogni morte improvvisa. Ma questo non si addiceva a una bottega, a ciò che una bottega significa per un paese. L’unico luogo in cui avvenivano scambi sostanziali, tutti minuziosamente regolati. Dove lo status delle persone, e delle loro famiglie, veniva ogni volta silenziosamente sottoposto a conferma. Perché una bottega era, subito dopo la chiesa, ciò che di più permanente esiste in un paese.
La scorsa estate a B. mi capitava spesso di fermarmi a sedere su una o l’altra di due piccole sedie di legno poste sotto un grande ciliegio, lungo la strada [ v. qui ]. Da lì si può godere la visione di un bellissimo panorama, sempre calmo, sereno, dove predomina il silenzio, interrotto quasi soltanto dai rintocchi regolari della campana del tempio di S., la borgata poco distante. Era per me sempre una sosta piacevole, e riposante, se venivo da una passeggiata abbastanza lunga; nel pomeriggio poi, da una certa ora in poi lì c’era ombra, ed era quindi fresco anche nelle giornate più calde di luglio. Qualche volta successe perfino che ci fosse qualcuno con me, e perciò le due sedie erano entrambe occupate; si creava così un luogo in cui due persone stavano per qualche tempo insieme chiacchierando mentre guardavano il panorama. Ogni tanto passava un trattore guidato da un uomo anziano, sempre lentamente, per dirigersi nel campo lì sotto e fare certe cose per me non sempre facili da capire, ma che dovevano avere la loro importanza, e bisognava farle anche con una certa regolarità. Il vecchio, che vive in una delle due belle case in pietra affiancate, a poche decine di metri dal ciliegio, ogni volta mi salutava con un cenno, spesso un breve sorriso appena accennato, a cui io sempre rispondevo; oppure era lui che rispondeva al mio saluto. Tornando lì un mattino di un mese fa circa – c’era un bellissimo sole quel giorno, ti scaldava – mi ero accorto di una novità: di fronte alle due sedute, a poca distanza (più o meno la stessa che c’è fra i due piccoli ‘troni’ in legno) ora c’era un nuovo ceppo, tagliato in modo tale da avere un piccolo piano superiore, insomma un tavolino, qualcosa di cui, pensai subito, effettivamente si poteva sentire la mancanza lì. Il fatto che la situazione fosse mutata, con l’aggiunta di quel rudimentale tavolino, mi fece piacere, significava un’evoluzione, ovviamente gestita da qualcuno; insomma qualcosa di vivo e vitale, mentre prima pensavo che forse le due sedute si trovavano lì già da molto tempo, un po’ dimenticate, e magari chi le aveva sistemate non era nemmeno più al mondo… Ieri mattina, vigilia di Natale, sono tornato da quelle parti, come sempre ho lasciato l’auto poco dopo Serre, incamminandomi poi verso B., dove avrei ritirato il pane che avevo prenotato. C’era ancora un po’ di neve nei campi, ma la strada era sgombra e splendeva il sole, si camminava bene. Dopo pochi passi incontro un cane, al solito piuttosto diffidente, e ringhiante, ma subito zittito, ovvero tranquillizzato da un uomo che stava sistemando una rete lungo la strada, di quelle usate per trattenere bestie – mucche, capre o pecore – al pascolo. Era lui, il vecchio, stavolta a piedi, senza trattore, e ci siamo salutati, come sempre molto sobriamente. Una ventina di minuti dopo, sulla via del ritorno per raggiungere la mia auto e ripartire, lo vedo già da una certa lontananza, sullo sfondo della nebbia che nel frattempo era salita; constato che era andato avanti col suo lavoro, e mi accorgo subito che mi sta guardando. Quando, dopo qualche secondo, ripasso davanti alle due sedie e al ‘tavolino’, rivolgo loro uno sguardo rapido ma anche ostentato, dopodiché, passando accanto al vecchio (si trovava lì vicino, a pochi metri), sorridendo gli dico “Ho visto che avete aggiunto un tavolino… ci mancava proprio!”, senza neppure fermarmi, e lui mi risponde, pronto, con un largo sorriso, senza dire una parola. Penso che ho fatto bene a pronunciare quella battuta, deve essergli piaciuta. Soltanto molte ore dopo, alla sera tardi, mentre sto parlando con mia figlia, che vive lontanissimo dall’Italia, ma che la scorsa estate era stata qualche giorno con me a B., e almeno una volta ci eravamo seduti insieme per qualche minuto là sui due ‘troni’ sotto il ciliegio, improvvisamente capisco. Deve averlo costruito lui, quel tavolino, pensando che mi sarebbe potuto servire, se un giorno fossi tornato lì per leggere un libro, come mi aveva visto fare tante volte, e ha agito senza neppure sapere se sarei tornato, ma forse, chissà, sperandoci. Perciò ieri mattina ha risposto alla mia battuta con quel largo sorriso, veramente soddisfatto e compiaciuto.