William Bendix fan club

Nel cinema americano degli anni ’40 e ’50, soprattutto in quello cosiddetto noir, non raramente ci si può imbattere nel faccione inconfondibile di William Bendix, quasi sempre in ruoli di gangster duro e brutale1, talvolta con manifestazioni sadiche, come in The Glass Key – quando ostenta il suo selvaggio compiacimento nel torturare Alan Ladd, anche con qualche sfumatura omo-erotica – o come quando, in The Dark Corner, per vendicarsi schiaccia la mano di Mark Stevens a terra privo di sensi, dopo che lo aveva cloroformizzato. Eppure, questi atteggiamenti non lo rendono antipatico, e neppure troppo sgradevole, anche se la sua presenza non ha niente di attraente, e soprattutto non traspare in lui nessuna intenzione di apparire tale. Lui è così, grosso, sgraziato, sopra le righe, e non lo nasconde proprio, se ne frega dell’opinione degli altri, anzi, sembra fregarsene perfino del pubblico in questo suo mostrarsi così com’è, privo del minimo infingimento. Proprio perciò, probabilmente, piace, più è cattivo e scorretto e più piace, perché si capisce che lui deve essere così, quindi che non recita, non sembra nemmeno un vero ‘attore’, tale è il suo realismo nelle mosse e nelle battute di dialogo. Quando appare al centro dell’azione, grosso e tozzo com’è, riempie lo schermo, come si dice, calamita l’attenzione dello spettatore, che ne percepisce la presenza proprio fisica, quasi ne sente l’odore – certamente forte, umano, e si vede che sta realmente sudando – e istintivamente sta in guardia, intuendo che da un momento all’altro lui può fare qualcosa di particolarmente eclatante e pericoloso, oltre i limiti. Certi particolari poi rafforzano questa impressione, ad esempio la sua capigliatura, ricciuta e folta: quando si batte con qualcuno, oppure dopo aver fatto qualcosa di veramente eccessivo, un omicidio ad esempio, c’è sempre un momento in cui si rialza e subito sistema di nuovo al suo posto un lungo ciuffo che si era scomposto nell’azione. È qualcosa di stridente rispetto alla maggioranza degli altri attori, sempre ben pettinati, sempre vestiti nel modo giusto, composti anche quando si picchiano con qualcuno. Anche i suoi vestiti sono un po’ così, eccessivi e smodati, ad esempio il completo bianco che indossa – deliberatamente, per essere notato – quando pedina Bradford Galt / Mark Stevens. Dopo l’involontario rovesciamento del calamaio, questi, stizzito, con un gesto volgare e arrogante si pulisce la mano sporca d’inchiostro sulla giacca bianca di Bendix, che pure non reagisce, limitandosi a osservare, interdetto. Ma un breve lampo nel suo sguardo incredulo ci fa capire che il gesto, così come tutto il comportamento aggressivo del rivale, non gli sono proprio piaciuti e prima o poi si vendicherà. Ciò che succederà infatti quando schiaccia, con visibile compiacimento, la mano di Stevens svenuto a terra, prima di eclissarsi dal luogo del delitto2.
Pare che più di una volta Bendix abbia dichiarato il suo scarso coinvolgimento nella professione dell’attore, qualcosa da fare giusto per intascare il compenso, e poi subito pronto a calarsi con noncuranza in un nuovo ruolo, con un atteggiamento da proletario, da manovale senza fisime. Un blue collar come dicono gli americani: gente che si sporca le mani, l’opposto dei white collar, gli impiegati sempre vestiti in modo formale, che guadagnano di più e non si sporcano mai le mani lavorando. Bendix sembra veramente uno di loro, un blue collar – e non mi risulta abbia mai impersonato un ‘colletto bianco’, gli sarebbe stato impossibile –, ciò che induce nell’errore di credere a quelle sue parole, di credere cioè che non sia un vero attore. In realtà si tratta di un eccellente attore, sempre privo di smancerie, inetto al birignao, perfino misurato nella sua smisuratezza. Infatti, non atteggia mai o quasi mai il volto a smorfie o atteggiamenti ‘attoriali’, usando soprattutto gli sguardi e le movenze del suo corpaccione, e quella voce inconfondibile, tutto meno che coltivata e artefatta, che è indispensabile ascoltare com’è, quindi non doppiata, per apprezzare completamente la maestria sprezzata, noncurante, di questo grande, inimitabile attore.

1 L’eccezione che viene subito in mente è quella di Lifeboat, il film di Hitchcock ambientato su una lancia piena di naufraghi dopo l’affondamento di una nave da parte di un sommergibile tedesco. Qui peraltro, nella parte di un brav’uomo molto sfortunato e altrettanto altruista, vien fuori meglio la vera natura dell’uomo Bendix, descritto da tutti come una persona positiva e gradevole, alieno rispetto a certi canoni hollywoodiani al punto di rimanere per tutta la vita sposato, dall’età di 21 anni, con un’amica d’infanzia.

2 La scena, una delle due del film in cui i due si confrontano, apparendo insieme per alcuni minuti, è molto eloquente nel farci vedere come tra i due il più bravo sia senza dubbio Bendix, che si muove pochissimo quasi limitandosi ad osservare, perfino con un certo distacco, le mosse di Stevens. Che è – qui come in tutto il film – artificioso, affettato, già a partire dalla voce, che sono sicuro abbia contraffatto, malamente, per sembrare più duro e più amaro. Invece Bendix è Bendix, e senza apparentemente impegnarsi esce vincitore dal confronto attoriale; e noi – per me almeno è stato così – sotto sotto stiamo più con lui, dalla parte del cattivo, piuttosto che da quella del presunto buono (in verità alquanto antipatico, e ben poco plausibile) Stevens. Lo stesso regista Hathaway dichiarò la sua delusione per la scelta di questo attore, a suo parere il punto debole del film.

Allestire una mostra

Pubblicato ad aprile 2024 in 250 copie, il libro consta di 256 pagine nel formato 13 x 19 e contiene 23 immagini in b/n e 27 a colori, tutte fuori testo.
Nei 35 capitoli che lo compongono – oltre al testo che li precede e a quello che chiude il libro, a un Album di immagini e a un’Appendice – vengono trattati molteplici aspetti della vicenda di e/static, sviluppatasi fra il 1999 e il 2018 nei due luoghi espositivi torinesi (quello omonimo, in via Parma 31, e poi blank, in via Reggio 27) e in altri esterni, in Italia e all’estero.
In chiusura del libro la ricostruzione completa di tutte le iniziative realizzate, insieme a un elenco delle pubblicazioni.


Le memorie, in buona parte immaginate, talvolta sognate, di un gallerista per caso (o un non-gallerista, forse). Le sue esperienze in certi luoghi, con la complicità di molti amici, per lungo tempo. Quando a farla da protagonisti sono stati anche quei luoghi, e chi venne a vedere che cosa vi succedeva.

La notte di C.

Moltissimi anni fa, quando avevo pressapoco quindici anni, iniziai ad acquistare regolarmente la rivista mensile Linus, che conteneva molti fumetti e anche parti solo testuali. Ero un suo accanito lettore, a lungo acquistai tutti i numeri man mano che uscivano, e non potevo certo farmi sfuggire un curioso supplemento chiamato Ali Baba. Ormai l’ho perso, da decenni, anche se mi ricordo benissimo la copertina, e uno solo dei contenuti. Era il racconto di un certo Cortazar, scrittore sudamericano – argentino per la precisione – che non conoscevo, anche se il nome bastava ad ammaliarmi. Lo lessi tutto d’un fiato, per quanto possa ricordarmi, tanto era appassionante, aveva qualcosa che suonava del tutto nuovo per me, ma nello stesso tempo mi pareva di riconoscere, o ricordare, vagamente. Da allora, per quanto possa sembrare strano (Cortazar era già molto noto, e divenne celebre) non lessi mai nient’altro dello stesso autore, e il racconto – di cui avevo ben presto dimenticato il titolo – era sparito nel nulla, insieme alla mia copia di Ali Baba. Negli anni che seguirono, ogni tanto ripensavo a quello strano, affascinante racconto, perché mi era rimasto dentro, come se fosse diventato parte di me, sia pure sepolto da qualche parte, chissà dove. Per qualche motivo non avevo mai acquistato libri di Cortazar, forse perché ce n’erano tanti, pure troppi, non avrei saputo quale scegliere. Mi rimase però sempre il desiderio di ritrovare quel racconto, per rileggerlo (ma chissà, forse temevo di rimanere deluso, a volte capita, perciò, inconsciamente, evitavo la possibilità di leggerlo una seconda volta, dopo tanto tempo). Finché, qualche anno fa, mi decisi: credo fossi in una libreria del centro, lo scaffale dei libri di C. era cospicuo, erano anche in edizione economica, così ne acquistai uno, non ricordo più quale. Era comunque una raccolta di racconti, e così presi a leggere il libro nell’attesa di imbattermi in ‘quel’ racconto, di cui peraltro non ricordavo assolutamente il titolo. Ma niente, non saltava fuori, e non ce n’era neppure un solo altro che gli assomigliasse. Stessa sorte ai tre o quattro altri libri dello stesso autore che acquistai in seguito, ed ero ormai rassegnato: forse il racconto era apparso soltanto su Ali Baba, quel supplemento di Linus uscito verso la fine degli anni ’60, una vita fa… Ma alla fine, quando non ci speravo più, leggendo la raccolta Fine del gioco, uscita per la prima volta nel 1956, eccolo apparire, proprio in fondo, penultimo. Il titolo è (e forse era già quando lo lessi la prima volta, ma di questo non sono sicuro) La notte supina, un titolo piuttosto ‘chiuso’, poco attraente, come se fosse stato scelto apposta per nascondere il contenuto, distogliendo i curiosi e riservandolo ai pochi che avrebbero intuito e si sarebbero messi a leggerlo, chissà…
Il racconto è davvero perfetto (uso a malincuore il termine, ma forse ci sta, una tantum), mi ha preso anche alla seconda lettura, dopo tanti anni, perfino alla terza di qualche giorno fa (e anche stavolta ho dovuto cercarlo fra tutti i libri di C. che possiedo, perché mi ero di nuovo scordato il titolo). Ma è davvero uno dei più bei racconti che abbia mai letto, e direi anche il più bello di Cortazar, dopo averne letti un bel po’. Forse dico così dopo averlo cercato e desiderato per anni, rimanendo sempre deluso perché nessuno lo riecheggiava, tanto ero condizionato dalla mia irripetibile esperienza di quindicenne (analogamente alla vicenda descritta da Alain-Fournier in Le Grand Meulnes). Ma ho come l’impressione che lui stesso, Cortazar, la pensasse come me, e dopo averlo scritto ed essersi reso conto di aver raggiunto il massimo che era nelle su possibilità, continuò, sì, a scrivere, ma senza illudersi di poter creare qualcosa che fosse alla pari di La notte supina, se non addirittura meglio. Forse la penso così dopo aver letto certe cose successive che mi paiono sicuramente ingegnose e accattivanti, ma anche piuttosto artificiose, piene di parole e di trucchetti, che spesso mi distraggono mentre leggo facendomi perdere la concentrazione. Mentre in quel racconto non c’è una parola di troppo, non ci sono trucchetti verbali né congegni narrativi troppo sofisticati. Perché è davvero così, un racconto perfetto1.

1 Ce n’è bensì un altro, di una decina d’anni dopo, che ho trovato su un’altra raccolta, si intitola L’isola a mezzogiorno e ha un po’ lo stesso meccanismo narrativo, anche lì alla fine salta fuori una verità che spiazza il lettore, squinternando certe convenzioni spazio-temporali, con un gioco di altalena piuttosto agile ed efficace fra la cosiddetta realtà e il sogno. Ma non è altrettanto bello di La notte supina, che ha una qualità evidentemente inattingibile, da Cortazar e forse da chiunque altro.

Pubblicato in post

Elegia della panchina

In un film di Rivette del 1981 visto di recente, le protagoniste (soprattutto una delle due, Bulle Ogier) fanno spesso uso della panchine che si trovano – o quanto meno si trovavano, vi manco da anni – in gran numero a Parigi, soprattutto, ovviamente, nei parchi e nei giardini, o sui boulevard, tutte cose che lì abbondano. Non è una grande novità per il cinema francese – girato in massima parte a Parigi, da sempre, e soprattutto in quegli anni – ma certamente in questo film le panchine sono spesso co-protagoniste e accompagnano la vita errabonda delle due donne attraverso la città. Ci si siedono, soprattutto di giorno, per fare una pausa che interrompa una camminata, oppure ci si sdraiano la sera per dormirci sopra e passare così la notte, all’addiaccio, ma almeno sollevate da terra1. L’ho subito notato perché io amo le panchine e ne faccio spesso uso quando sono in giro. Mi ci siedo sopra e spesso apro un libro per leggerlo, come fa Bulle proprio all’inizio di Le pont du nord, dopo essersi stirata guardando verso il cielo, visibilmente compiaciuta. È bello leggere un libro seduti su una panchina (io se potessi leggerei i miei sempre e soltanto lì), ancor di più se si trova in un luogo piacevole e interessante: una bella vista (ad esempio sul fiume, sotto gli alberi) e anche la tranquillità, se è collocata in un parco; e poi l’ombra fresca, d’estate, se la panchina si trova sotto grandi piante dalla chioma rigogliosa. Se non si è soli, ma insieme a una persona amica, si può conversare, distraendosi ogni tanto per seguire con lo sguardo qualcuno che passa, o qualsiasi altro evento insolito e attraente, come un uccello trasvolante nei dintorni o una foglia che cade. Tutte cose che ci possono distrarre momentaneamente anche durante la lettura di un libro, che pure risulta così ancora più piacevole e stimolante, per l’effetto rinfrescante di certe pause.

La panchina più comune è costruita in modo semplicissimo: due tavole di legno come seduta, ognuna larga circa 20 cm e lunga circa due metri, fissate a due sostegni saldamente ancorati al terreno, per lo più in ferro, che fungono da struttura, fornendo anche l’appoggio per lo schienale. Che è a sua volta costituito da una tavola come le altre due, stessa larghezza e lunga uguale, fissata al montante in ferro di cui sopra. Questa è la tipologia più diffusa qui in città, anche se non sono poche quelle dalla forma apparentemente più anatomica (in realtà meno comode delle altre, almeno secondo me), simile a un’onda, formata da molte assicelle in legno (5-6 cm ognuna) giustapposte e fissate anche qui a una struttura in ferro. Recentemente sono apparse nuove tipologie di panchina – anche se un po’ esito a chiamarle così – in cemento, o materiale consimile, massicce, apparentemente indistruttibili ma non molto comode, per di più fredde in inverno e bagnate a lungo dopo una pioggia. Anche queste possono fare all’uopo, ossia fornire una possibile seduta al viandante, seppure il contatto con il legno è ben altra cosa. Ma anche quando ci si siede su una rara panchina in pietra (ovviamente senza schienale, quasi sempre) la sensazione può essere altrettanto piacevole di quella che si prova sedendosi sul legno: sono pur sempre materiali naturali, hanno un’anima.

A me la panchina sembra una grande invenzione, perché dà la possibilità di fermarsi a riposare, e a meno che non sia piazzata proprio davanti a un muro (capita, talvolta) permette a chi c’è seduto sopra di guardare panorami spesso piacevoli, oppure di osservare all’intorno la vita che continua a pulsare mentre si rimane fermi e seduti, godendo di una fugace vacanza. In verità l’invenzione sta nel fatto che la panchina è staccata dal suolo, anche soltanto di una cinquantina di centimetri, così non si sporcano gli abiti stando seduti per terra; oltretutto il suolo può essere umido, sedercisi, soprattutto a lungo, non è salutare. Purtroppo, per motivi che non ho mai capito bene (mi riprometto sempre di chiederlo, ma non mi sono mai osato) ci sono persone che invalidano la proprietà della panchina di stare seduti su un supporto pulito. Essi infatti, con un gesto che trovo molto irritante, si siedono bensì sullo schienale, appoggiando i piedi, ovvero le scarpe che li calzano, certamente non pulite, sulla seduta della panchina. Ma perché? Non si sa, e non lo saprò mai finché non mi deciderò a chiederlo. Ammesso che poi mi si risponda: sono molteplici gli atteggiamenti di uso comune che la gente adotta senza che saperne bene il motivo, soltanto perché lo si è visto fare da altri, magari con una certa aria sprezzante, di noncuranza e di superiorità, e allora perché no.

Ho intitolato questo piccolo testo Elegia della panchina, ma l’elegia (stando ai vocabolari connsultati) generalmente ha qualcosa di malinconico, come un rimpianto per qualcosa o qualcuno che si è perduto, mentre le panchine ci sono ancora, in giro, in certi angoli della città. Ma sono sempre meno, e non poche sono malandate, anche molto: le tavole di legno alla lunga marciscono, inevitabilmente, dovrebbero essere sostituite di quando in quando, ma ciò non succede quasi mai. Come se fosse un lusso, sedercisi, qualcosa da fare quasi con un certo senso di vergogna, dato che ci si ferma e si sta seduti lì sopra sottraendosi all’ordinaria frenesia della vita urbana. Infatti sono spesso deserte, nei giorni feriali, occupate quasi soltanto da persone anziane che si vogliono riposare qualche minuto, oppure da qualcuno che ci si sdraia sopra e addirittura si addormenta, perché probabilmente non ha una casa, e quasi certamente nemmeno un lavoro. Forse perciò le panchine vengono trascurate dagli addetti alla loro manutenzione: non sembra una priorità la loro cura, perché non servono realmente a nulla, non sono produttive, ma inutili bensì (nel senso che il loro uso non dà un utile, e non serve quindi alla società). Sono quindi, le panchine, connesse a un’idea diversa del vivere, più libera, meno legata ai ritmi e agli obblighi imposti dalla società, e chi ci si siede quasi mai è appena sceso da un’auto, ma ci arriva a piedi, o al massimo è appena sceso da una bicicletta. Inoltre, esse sono pubbliche nel miglior senso della parola, appartengono ogni volta a chi ci sta seduto sopra, ma soltanto finché rimane lì, dopodiché la loro momentanea proprietà passerà al prossimo, o ai prossimi, che ci si siederanno.
Per questi motivi, e per il timore che questo strumento (e simbolo) di libertà possa alla lunga sparire, o quantomeno – come succede già ora molto di frequente – sia lasciato deperire fino a sfasciarsi, tristemente, penso che abbia senso intendere questo testo come un’elegia.

1 In un’occasione, ci viene mostrato un esempio di un altro uso, fra i più nobili bensì, di questo elemento, ossia lo scambio di effusioni fra due innamorati, anche spinte, se si tratta, come in questo caso, di amanti. Il film sembra davvero essere, almeno in parte, un omaggio alla panchina, esponendo tutti i vari usi che se ne possono fare.

Pubblicato in post

un regalo

Preambolo alle istruzioni per caricare l’orologio

Pensa a questo: quando ti regalano un orologio, ti regalano un piccolo inferno fiorito, una catena di rose, una cella d’aria. Non ti danno soltanto l’orologio, tanti auguri e speriamo che duri perché è di buona marca, svizzero con àncora di rubini; non ti regalano soltanto questo minuscolo scalpellino che ti legherai al polso e che andrà a spasso con te. Ti regalano – non lo sanno, il terribile è che non lo sanno – ti regalano un altro frammento fragile e precario di te stesso, qualcosa che è tuo ma che non è il tuo corpo, che devi legare al tuo corpo con il suo cinghino simile a un braccetto disperatamente aggrappato al tuo polso. Ti regalano la necessità di continuare a caricarlo tutti i giorni, l’obbligo di caricarlo se vuoi che continui ad essere un orologio, ti regalano l’ossessione di controllare l’ora esatta nelle vetrine dei gioiellieri, alla radio, al telefono. Ti regalano la paura di perderlo, che te lo rubino, che ti cada per terra e che si rompa. Ti regalano la sua marca, e la certezza che è una marca migliore delle altre, ti regalano la tendenza a fare il confronto fra il tuo orologio e gli altri orologi. Non ti regalano un orologio, sei tu che sei regalato, sei il regalo per il compleanno dell’orologio.

Julio Cortázar, da Historias de cronopios y de famas, 1962 (trad. di Flaviarosa Nicoletti Rossini)

Pubblicato in post

Il calicanto

Il calicanto che si trova tuttora sul terrazzo di via Reggio 27 proviene dalla Val Garfagnana, dove, nel giardino della casa di Addo Lodovico Trinci, autore con Daniela De Lorenzo della prima mostra di e/static, nel 1999, raccolsi qualche seme di una di queste piante proprio in quell’epoca, quasi 25 anni fa. Questa storia l’ho già raccontata altrove, di come – soprattutto per la sua origine – sia strettamente legato ad e/static e a blank, ancor di più da quando, credo alla fine del 2006 (o all’inizio del 2007) trapiantai alcune piantine, forse quattro o cinque, che nel frattempo erano cresciute sul balcone di casa mia, in un grande vaso sistemato appunto sul terrazzo di blank, che aveva appena iniziato a funzionare come nuovo spazio di e/static. Da allora esse sono ancora cresciute, a dismisura si può dire, o comunque al massimo consentito dal vaso, che è sì molto grande ma pur sempre limitato e limitante, rispetto alla natura selvaggia e smisurata.
In questi giorni stanno sbocciando i suoi fiori – i primi già da metà mese – ed essi sono, oltreché piuttosto vistosi, con i loro gialli e rossi, indistinguibili anche per il profumo molto intenso che emanano. Si può tranquillamente dire che anche un cieco, stando a pochi metri da un calicanto in piena fioritura, si accorgerebbe subito della sua presenza e lo vedrebbe, proprio grazie a quel profumo inconfondibile.
Proprio ieri notte c’era la luna piena, la prima di gennaio, che si è unita, in qualche modo, ai primi fiori dell’anno. Quelli del calicanto, infatti, fioriscono per primi (simboleggiando per i cinesi proprio il nuovo anno), quando tutte le altre piante ancora dormono, molte profondamente, altre vicine al risveglio. È insomma una pianta eccentrica, controcorrente, per questa attitudine connaturata di fare ora, in pieno inverno, ciò che tutte le altre piante faranno quando sarà primavera, o appena prima. Direi una pianta un po’ ‘bastian contrario’, in cui mi riconosco volentieri, e che anche perciò può rappresentare la storia, o meglio le storie di e/static e blank. Ho infatti sempre avuto una tendenza irreprimibile a non seguire la corrente, a non conformarmi, ma a fare, e dire, sempre quello che in quel momento mi sembrava giusto fare e dire, anche se magari sono il solo a farlo. Così il calicanto è il solo a pronunciare ora, a modo suo, la parola fiore, o la parola profumo, perché ora è venuto per lui/lei (chi lo conosce il sesso di un calicanto? io no di sicuro) il momento di farlo, né prima né dopo. E per quanto mi riguarda, anche come direttore di e/static e blank, ho sempre fatto quello che in quel momento mi sembrava giusto, se non addirittura necessario, fare, senza conformarmi a modelli esterni, altri da me. Semmai, in un certo senso un po’ come il calicanto, ho sempre avuto l’attitudine a fare, dire, scrivere sempre ogni cosa come se fosse la prima volta, partendo da zero insomma. Questo non per una sorta di insensatezza, men che meno per una qualche velleità provocatoria, ma proprio perché se avessi agito diversamente, ripetendo, conformandomi, adeguandomi, facendo quello che in quel momento sembrava di dover fare, e continuando a farlo per abitudine, avrei tradito me stesso. Peraltro, come avrei potuto? Non mi sarebbe riuscito, e in ogni caso, anche riuscendoci, per una specie di ottuso puntiglio contronatura, non mi sarei divertito, mi sarei anzi annoiato, o addirittura rattristato.

Il calicanto, nome scientifico Chimonanthus [dal greco antico: ‘fiore d’inverno’], è una pianta originaria della Cina, da dove, nel XVII secolo, fu portata in Giappone, e anche lì, come già in Cina, venne ben presto cooptata nella cultura, comparendo nelle pitture e nelle poesie anche per simboleggiare determinate virtù e qualità. Soltanto nel XIX secolo arrivò in Inghilterra, e da lì si diffuse un po’ in tutta Europa, per lo meno dove le condizioni climatiche erano favorevoli alla sua crescita (condizione sine qua non, ovviamente). Anche il mio calicanto ha viaggiato, come detto, e ancora lo farà; ogni due anni circa produce una quantità di baccelli carichi di semi al loro interno, che spesso regalo ad amici, sia qui in città sia altrove, anche fuori Italia: chi li trapianta, con un po’ di fortuna e molta cura, vedrà crescere nuove piante, ciò che potrebbe accadere – ed è già accaduto – un po’ ovunque. Esso, o essa, che mi rappresenta, in buona parte, così come rappresenta e/static e blank, per le ragioni dette sopra, anche attraverso i suoi ‘figli’ ci sopravviverà. E questo pensiero, pensato per la prima volta pochi secondi fa mentre scrivevo, mi rallegra e mi rasserena: sono davvero contento che mi sia, finalmente, venuto in testa.

26 gennaio 2024

Nel bosco (piccolo formato)

Il libro consta di 24 pagine (compresa la copertina) e misura cm 10,5 x15; stampato nel mese di gennaio 2024 su carta usomano avoriata e righettata gr. 90; copertina in cartoncino usomano avoriato liscio, gr. 300. Contiene gli stessi nove testi della versione in formato grande (v. qui) pubblicata lo scorso mese di aprile.
Terza edizione, in un diverso formato, dopo la prima del 2008 (v. qui) e quella sopra indicata, è stata stampata in 20 copie (+ tre).

Contrasti

Ero in un supermercato ieri mattina, e mi guardavo attorno. L’ambiente è formalmente pressoché impeccabile, tutto bene ordinato, le vetrine risplendenti, come i pavimenti, che sembrano sempre essere stati appena lavati (e forse lo sono davvero). C’è un ordine quasi assoluto nella disposizione dei reparti, con le scaffalature parallele (stracolme di cose, tutte bene ordinate) che hanno su un lato altre scaffalature messe a perpendicolo. Poi ci sono, sparse in giro, le persone, i dipendenti e i clienti, che spingono, quasi tutti, un grosso carrello al quale sembrano aggrapparsi per non cadere. Ed effettivamente è così, sono molti gli anziani dalle gambe malferme, alcuni proprio claudicanti, uno – un uomo alto e molto loquace, doveva avere almeno ottant’anni – dignitosamente appoggiato a un bastone. L’espressione sui volti di tutti è seria, in qualche caso ansiosa, in altri, pochi, una mascherina impedisce di vederla. Peraltro, Ivan Illich già qualche decina di anni fa affermò, da qualche parte in uno dei suoi smilzi, densissimi libri, che i supermercati stavano assomigliando sempre più a ospedali.
In quel luogo che ci siamo abituati a considerare normale, ma che talvolta, come per me ieri mattina, è realmente inquietante, il contrasto con vetrine, pavimento e scaffalature è stridente e la sostanziale fragilità degli avventori messa in forte evidenza. Perché è proprio così: noi umani siamo fragili, corruttibili (in senso fisico), invecchiamo tutto sommato velocemente e invecchiando diventiamo sempre più cagionevoli di salute. Ma pure diversi giovani non è che appaiano molto prestanti e sani: c’è chi denuncia una eccessiva magrezza, con un colorito malsano, chi al contrario una tendenza all’obesità, chi si muove con difficoltà a causa di qualche handicap. E molti di loro sembrano incerti, indeterminati, attenti soprattutto a qualcosa – suoni o voci – che promana dalle cuffie che portano in testa, o dagli auricolari, una cosa e l’altra collegate all’inseparabile smartphone, la (relativamente) nuova protesi portata da quasi tutti ormai, senza la quale, si presume, si sentirebbero totalmente persi e che tornano di continuo a guardare ossessivamente.
Dico queste cose, noto certi contrasti, forse anche perché quest’anno, nel giro di pochi mesi, sono morte tre persone amiche, e per due volte sono andato alla loro funzione funebre, per salutare il defunto insieme ad altri che lo conoscevano. Ho rivisto persone che non incontravo più da anni, in qualche caso quasi irriconoscibili, e una in particolare era sì riconoscibile, ma con mio sgomento, appurando il suo terribile declino, avvenuto nel giro di pochissimi anni.
Sembrerebbe che in quest’epoca, che a me – e forse non soltanto a me – appare tristissima, forse anche perché ci sono pochi bambini, a loro volta quasi sempre tristi e assorti (e quasi tutti dotati della propria protesi-smartphone), la gioia di vivere e una certa positiva leggerezza stiano sparendo, nonostante qui, in questa parte del mondo, non ci siano più guerre da molte decine di anni. Dal mio punto di vista di persona anziana, sempre più vicina alla fine del tempo datomi, credo sia impossibile non accorgersene, soprattutto perché confronto ciò che vedo e vivo ora con ciò che vidi e vissi molte decine di anni fa. E non posso neppure ignorare il contrasto stridente fra l’astratta, implacabile perfezione delle cose che ci circondano (anche le auto, ad esempio, e certe case che si costruiscono adesso, fredde e aliene) e condizionano la nostra vita in ogni frangente, per lo meno quando usciamo di casa, e la nostra – di noi umani – sostanziale imperfezione e impotenza.
Mi sono così tornate in mente, proprio ieri mattina, certe opere di Walter De Maria degli anni ’60, soprattutto. Quel cubo di acciaio cromato – credo fosse sui 40 cm di diametro, forse 50, non di più – su uno spigolo del quale era stata appoggiata una candela, quindi accesa. La candela bruciava, riducendosi sempre più, quasi a vista d’occhio, fino a spegnersi, mentre il cubo rimaneva intatto, irriducibile, soltanto un po’ sporco su un lato, quello dove era colata la cera disciolta. Che poi si poteva ripulire facilmente, riportando l’acciaio al suo splendore originario, mentre la candela non c’era più, una volta che la fiamma si era spenta. È un’opera di una semplicità e di una concisione assolute, ma quasi da vertigine la sua efficacia, se ci soffermiamo un attimo a pensare a cosa è e soprattutto a cosa rappresenta.
Ma ce ne sono altre dello stesso autore, che però conosco soltanto attraverso fotografie o descrizioni – testuali o verbali – mentre quella la vidi bene da vicino almeno una volta. Me ne ricordo una perfino più disturbante, perché trovava la propria ragione d’essere soltanto attraverso il suo possesso da parte di un cosiddetto collezionista, altrimenti è come se non esistesse realmente, se non come materiale. Un’asta di acciaio inox, ma piena, quindi piuttosto pesante, ancorché relativamente sottile (per poter essere impugnata, quindi, volendo, portata in giro), di lunghezza pari all’altezza media di una persona. Anzi, credo che ogni compratore entrasse in possesso di un’asta che aveva la sua stessa altezza in quel momento, fatta su misura per lui. Credo anche – ma la memoria potrebbe ingannarmi – che si dovesse stipulare un contratto: il compratore, finché fosse rimasto in vita, si impegnava a non vendere mai l’asta, perché era sua e soltanto sua, da lui o da lei indivisibile. Ecco, il contrasto fra le due entità, una dura, inscalfibile e immutabile (se non con una fusione in altoforno), l’altra fragile, continuamente modificata dal tempo, che nel corso degli anni si accorciava, diventando sempre più debole – oltreché paurosa –, sempre esposta al rischio di malattie, patendo il caldo e il freddo eccessivi, continuamente sull’orlo della fine, e quindi della dissoluzione, tutt’ora mi sgomenta come poche altre cose riescono a fare. Forse perché l’asta è del tutto passiva, non fa realmente nulla di male al suo possessore, ma proprio così, rimanendo immobile, ferma e assolutamente noncurante, agisce come uno spietato termine di paragone e rappresenta per contrasto la sua estrema – al confronto – fragilità e caducità, la sua irrimediabile finitezza. E gli sopravviverà indefinitamente.

Pubblicato in post

una poesia di fine anno

E tièntele per te queste sere
dell’anno nel mese ultimo, le nere
le di nafta e di carbone lorde sere!
Tièntele care, ghiaccio prega e neve,
compatte chiuse lunghe notti vere…

Quando tra gli echi estremi degli schianti
sui vomiti che chiazzano gli asfalti
l’Epifania avrà menato via
tutte le feste, il raggio del gennaio
stridendo ai vetri crèmisi sue ire

ti chiederà, vecchia carne, di uscire.

di Franco Fortini, dalla raccolta Composita Solvantur, 1994

Pubblicato in post

Uccelli fra i rami

Qui davanti alla finestra del mio ufficio-studio c’è una pianta piuttosto alta. Non so bene di quale specie sia, la piantarono più di quindici anni fa, direi, ed è molto cresciuta da allora. Ora, data la stagione, non ha più molte foglie sui rami, e quelle rimaste sono tutte secche. Il suo massimo pregio consiste nella quantità di uccelli, di varie specie, che si vedono sempre fra i rami, i più piccoli – cince, codirossi, passeri – saltellano continuamente di ramo in ramo, è la loro natura, non stanno mai fermi, mentre i merli stanno spesso immobili, come assorti, o forse guardinghi. Ci sono poi spesso delle gazze, ben più grosse, che un po’ stanno ferme e un po’ si muovono da un ramo all’altro, ma in modo molto diverso dagli altri piccoli uccelli, più lentamente e più di rado. Inoltre emettono spesso il loro caratteristico verso, che ha qualcosa di ipnotico ed è forse uno dei miei preferiti fra quelli di tutti gli uccelli. Ogni tanto alzo lo sguardo dal mac a cui sto lavorando e l’albero è lì, immobile per lo più (a meno che non ci sia vento) ma scosso ogni tanto dai movimenti dei suoi temporanei abitanti – che sono poi soltanto dei visitatori, nessun nido fra i rami.
Circa due, tre ora fa, mi trovavo già qui, ero molto, molto triste, avevo appena appreso una notizia che mi aveva sconvolto: un caro amico è morto stamattina, prima dell’alba, per la precisione alle quattro e mezza, l’ora preferita per morire o per nascere, a quanto pare. Ma anche l’ora in cui il condannato a morte di Bresson decide di tentare la fuga dal carcere, in questo caso per sfuggire a una sicura morte. Subito arrivando ho notato un movimento fra i rami, segno inequivocabile della presenza di qualche uccello. Si trattava di un merlo, l’ho intravisto per un attimo, e non ho potuto fare a meno di collegare la sua apparizione a quella notizia, come se vedessi in lui, o lei, il mio amico appena scomparso, venuto un’ultima volta a salutarmi. Si è trattenuto davvero per pochi secondi, prima di sparire per sempre.
Pensavo poco fa che questo albero così rigoglioso, ricco com’è di rami e rametti intricatissimi, dev’essere davvero un mondo per gli uccelli che lo visitano di quando in quando. Lì dentro devono sentirsi protetti, sia dalle intemperie (ora è inverno, fa freddo) sia da eventuali pericoli, come predatori di varia specie, ad esempio, ovvero altri uccelli, oppure gatti, o uomini. È un mondo per noi, per me, inaccessibile, anche se osservandoli quando stanno lì dentro, saltando di ramo in ramo, qualcosa della loro serenità, o della loro eccitazione gioiosa, riesce ad arrivarmi, dandomi un temporaneo senso di benessere.

(scritto ieri, 18 dicembre, poco prima delle ore 17)

IL VENTO DEL SOLSTIZIO INVERNALE

La pianta qui davanti alla mia finestra stamattina è quasi del tutto spoglia: il vento, che deve aver preso a soffiare durante la notte, ha portato via le ultime foglie, quelle che c’erano ancora lunedì. Sembra che siano passati molti più di questi quattro giorni circa. Ora gli uccelli, dai più piccoli ai più grandi, che prima si nascondevano fra i rami, non si vedono più, nemmeno uno. Ma neppure altrove, non soltanto sull’albero. Come se stessero aspettando di capire cosa fare, perplessi.

(21 dicembre, poco prima delle 9)

Pubblicato in post