Avevo visto “Alice nelle città” (bel titolo) una prima volta al cinema, molti anni fa, e fu forse l’unica in una sala. Poi, due o tre anni fa, presi un dvd inglese, si vedeva decentemente, anche se in un formato – me ne sarei accorto soltanto in seguito – insolito per un film dei primi anni ’70, il 4:3. Così, leggendo sul sito di Wim Wenders che aveva curato il restauro del film, pochi anni fa, portandolo nel formato 1,66:1, perché questo era quello voluto dallo stesso autore e dall’operatore Robby Müller, ma che il film venne costretto nel 4:3 per una pretesa. all’epoca, della televisione tedesca, ho deciso di acquistare questa versione, ben presto ‘riconoscendo’ il film (perché così si era visto nelle sale, all’epoca, mentre evidentemente la versione inglese del dvd utilizzava l’altro, ‘televisivo’). È questo un film speciale, anzi unico, visitato dalla grazia dall’inizio alla fine, un vero miracolo. Quarto lungometraggio di Wenders, veniva dopo il fallimento di “La lettera scarlatta”, e lui dice che se non avesse ottenuto qualcosa in cui riconoscersi appieno, che lo facesse star bene già nelle fasi di lavorazione, avrebbe probabilmente abbandonato il cinema. Fu fatto con quattro soldi, una troupe minima, due attori dei quali uno è una bimba di nove anni, quindi una non-attrice, Yella Rottländer, peraltro straordinariamente brava, proprio perché non recita veramente, ma vive il suo personaggio, grazie anche a molte analogie con la sua ‘vera’ vita, per cui in pratica si può dire che l’unica cosa diversa sia il nome. È un film che, così come fece star bene Wenders e la troupe (Rüdiger Vogler ricorda quei giorni come i più belli della sua vita) fa star bene chi lo vede, come se fosse in viaggio con loro, con Philip e Alice. È anche un film irripetibile, e Wenders non farà mai più niente di meglio (pur provandoci più volte, come peregrinando in cerca di quell’atmosfera), anche se ci arriverà vicino, in “Falso movimento” e, soprattutto, in “Nel corso del tempo”.
L’ho rivisto due sere dopo, nella versione commentata da Wenders, Vogler e Yella, che all’epoca (nel 2005) aveva poco più di quarant’anni, anche se gli altri due, regista e attore protagonista, ancora si rivolgono a lei un po’ come quando aveva nove anni, al tempo delle riprese. Come sempre, vedere un film commentato da chi lo fece è un’esperienza molto particolare, diversa dalla visione consueta, e in questo caso direi che mi ha fatto piacere il film ancora di più. Ci sono tanti momenti freschi e indimenticabili, credo che chiunque lo abbia visto avrà i suoi. A me sono piaciute molto certe scene con Yella, che sembrano davvero vissute, e in effetti lo sono, perché un bambino di nove anni, soprattutto se non influenzato dagli adulti, ma lasciato libero di avere un approccio spontaneo alla recitazione, in effetti non recita veramente, non più, e non così diversamente, di quando racconta qualche bugia per ingannare i grandi; che pure generalmente mangiano la foglia, e fingono di buon grado a lor volta, stando al loro gioco. Ora mi viene in mente quando Philip, incassata con enorme autocontrollo la notizia che la nonna di Alice non abita a Wuppertal, e lei l’aveva sempre saputo, tornando dal bagno le comunica, con fredda calma, senza neppure alzare la voce, che la porterà alla polizia. Lei, che stava mangiando un grosso gelato, si interrompe di colpo, si vede benissimo che le si è chiusa la bocca dello stomaco, come si dice. E dire che poco prima, mentre era lì aspettando che lui tornasse dal bagno, al passaggio di una carrozza del treno sospeso (caratteristica unica di Wuppertal, città che venne scelta proprio per il fatto di avere questo treno) aveva alzato lo sguardo sorridendo compiaciuta: ovviamente, è un effetto del montaggio, ma funziona benissimo, con la massima naturalezza. Poi le ultime due sequenze, collegate fra loro dal montaggio: prima, Yella e Philip seduti nello stesso scompartimento del treno verso Monaco, chiacchierano con molta tranquillità mentre sullo sfondo vediamo il paesaggio scorrere oltre il finestrino. Lei chiede a lui cosa farà dopo, e Philip, dopo averle risposto, piuttosto vagamente, le chiede la stessa cosa: Yella sembra riflettere, fa una specie di smorfia incomprensibile girandosi verso il finestrino, poi si alza in piedi, imitata da lui, e insieme abbassano il finestrino, guardando fuori. Che meraviglia questa risposta senza parole, questa non-risposta! Subito dopo, li vediamo dall’altra parte del finestrino, dall’alto, come allontanandoci, perché la mdp è su un elicottero, evidentemente, che si alza sempre più alto in cielo, e ben presto vediamo tutto il treno mentre, da sinistra verso destra – la direzione del tempo che passa, allontanando le persone da momenti vissuti, da luoghi e persone – corre costeggiando un fiume, e sull’altro alto ci sono dolci colline coltivate1: una sequenza di una bellezza struggente, forse una delle più belle, più toccanti, che abbia mai visto al cinema2. Avevamo già visto qualcosa di simile, ma molto vagamente, in “Prima del calcio di rigore” e lo rivedremo, ancor più somigliante (anche qui un addio, che potrebbe essere un arrivederci, ma quasi certamente no, perché quei giorni vissuti insieme sono perduti per sempre, irripetibili, come loro stessi) alla fine di “Nel corso del tempo”.
1: credo siano le stesse colline di “Falso movimento”, nella valle del Reno, dove Wenders visse molta della sua infanzia”.
2: curiosamente, questa sequenza me ne ha fatto venire in mente un’altra che compare in un film di Aki Kaurismaki, sicuramente molto diverso da questo, più virato su un certo umorismo ‘deadpan’, come di consueto nei film di questo regista. Si trova in “Calamari Union” ed è quella in cui un tipo è seduto, in un locale apparentemente deserto, con una giovane donna che vorrebbe conquistare, mentre una band sta provando, e lei improvvisamente, attratta da un altro che passa di lì, lo abbraccia e lo bacia, abbandonando lì il suo pretendente. Che osserva in silenzio la scena, senza fare nulla, seguendo con lo sguardo i due mentre lasciano il locale; poi si alza, va verso il palco, prende la chitarra da uno dei musicisti e si mette a cantare “Stand by me”. In tutte e due le scene si vede qualcuno rispondere in maniera non verbale a una domanda o a una rivelazione del tutto inaspettata, e sconvolgente. Ovvero, si risponde con un gesto, che poi non è neppure una vera risposta.
[scritto il 23 aprile 2021]