John C. (2)

Io lavoro meglio come dilettante, lontano dal sistema convenzionale degli studios. Credo che l’opportunità di lavorare come dilettante attiri molte persone – se per «professionista» si intende uno che è costretto a fare un lavoro, e per «dilettante» uno a cui piace farlo.

Non stiamo costruendo una casa o qualcos’altro di tangibile. È soltanto qualcosa che vedi su uno schermo. E che scompare in un attimo. E che sia bello o no è solo un’opinione. Devi mantenere in continuazione l’atmosfera, e devi farlo con onestà.

Come fai a “adorare” quel film? Non puoi! Non voglio che la gente dica: «È un bel film». Lo detesto. Perché se qualcosa ti piace davvero, allora è un fatto personale. Il miglior complimento è il silenzio assoluto. Odio l’intrattenimento. Non sono un intrattenitore.

Non mi interessa se alla gente piacciono o meno i nostri film, purché riesca a farli, a dire quel che voglio e a lavorare con persone a cui voglio bene, che non hanno paura di esprimere se stesse e a cui non importa della fama. Se vogliamo far vedere “Faces” nelle università, lo faremo. Se vogliamo seppellirlo e non farlo più vedere a nessuno, possiamo farlo. In altre parole, è nostro. Perciò, se lo proiettiamo ai festival, bene. Se no, bene lo stesso. Se alla gente piace, bene. Se non gli piace, bene uguale.

L’espressione «adattarsi» si usa molto a Hollywood. «Adattarsi» significa rinunciare alle tue idee in cambio di una buona posizione.

Se muori per il tuo paese non è un granché, ma se si tratta di un film, anche se è l’ultima cosa che farai, vuoi che sia finito. Con quell’atteggiamento, se lo fai così, allora vivi la tua vita in maniera fruttuosa, riesci davvero a realizzare qualcosa.

Quello che cerco di ottenere dagli altri è ciò che loro vogliono davvero. Li critico solo quando non mi danno quello che vogliono.

Oggi molti registi, attori e sceneggiatori si preoccupano più di quello che dicono i critici che del lavoro che hanno per le mani. Una volta odiavo la censura. Ora c’è qualcosa che odio più della censura, ed è la commercialità. Quando qualcuno fa qualcosa per i soldi, penso che non sia un artista. Lo disprezzo, lo odio e penso che sia un pompinaro.

Potrei lavorare anche in una fogna piuttosto che fare un film che non mi piace. Se dovessi dirigere un film come “Il ritorno dello Jedi”, o anche solo recitarci, mi verrebbe da svenire – morirei dalla vergogna, e non rinverrei più. Se avessi diretto “L’inferno di cristallo”, sarebbe tutta pellicola non impressionata. Niente. Mi verrebbe da vomitare.

Mi piace fare film difficili, che facciano urlare il pubblico. Il mio mestiere non è l’intrattenimento. Se non piace a nessuno, allora evidentemente non va bene. Ma questo non cambia il mio atteggiamento verso ciò che sto facendo. Sento che c’è tanta gente che vuole apprezzarlo, così come ce n’è altrettanta che è felice di odiarlo. Io non sono un film-maker convenzionale e non cerco il successo in quell’area. Ma non dico nemmeno che se la gente non capisce allora è stupida. Forse le mie idee e i miei metodi non sono in linea con ciò che certi spettatori si aspettano, ma in ogni caso, se vogliamo un cineasta che li faccia sentire a loro agio, quello non sono io. A me interessa scuotere le persone, non blandirle per farle contente.

Non chiamo il mio lavoro intrattenimento. Il mio lavoro è esplorazione. È porre continue domande alle persone: quanto intenso è il tuo sentimento? Quanto sai? Sei consapevole di questo? Puoi affrontare questo? Un buon film ti pone domande che non ti sei mai posto prima, a cui non pensi tutti i giorni. Oppure, se ci hai pensato, non te le sei poste in quel modo. Il film è un’indagine sulla vita. Su ciò che siamo. Su quali sono le nostre responsabilità nella vita, se ne abbiamo. Su cosa stiamo cercando; che problema hai tu che potrei avere anch’io? Di quale aspetto della vita vorremmo entrambi sapere di più?

Stiamo cercando un modo diverso di dire le cose, diverso dal solito linguaggio convenzionale e noioso amato dalla maggior parte del pubblico, solo perché vive una vita insignificante. È così! Il mondo è popolato di persone che hanno opinioni ma non emozioni.

In ogni caso, sono contento di non avere successo, perché quando ce l’hai, anche se sei convinto di avere più libertà, in realtà ne hai molta di meno. Come fai a fare quello che vuoi quando hai dieci milioni da spendere per un film? Dove andrà ora Spielberg dopo “Lo squalo” e “Incontri ravvicinati del terzo tipo”? Mi va bene continuare a essere un fallimento molto stimato, credo.

Se i miei film non vi piacciono, non ci posso fare niente, ma sono un uomo della strada, perciò la stima degli altri non mi interessa. Se la stima ti aiuta a fare il prossimo film, benissimo. Se invece è l’antipatia ad aiutarti a fare il prossimo film, chi se ne frega. Io voglio essere me stesso. Voglio fare un film di cui essere orgoglioso.

Sono disorientato dalla vita. Non so niente della vita. Faccio un film, e non so nemmeno il perché. So solo che in quel film c’è qualcosa. Solo dopo, attraverso le opinioni degli altri, riusciremo a capire di cosa parlava.

Lotterò per fare un film che non sia di moda. Non voglio un film di moda. A me piace occuparmi di storie pericolose. Economicamente pericolose. Voglio il film che sento in quel momento. Se vi serve qualcuno che faccia film impersonali, ci sono un sacco di film impersonali in giro. Quelli con cui lavoro io sono individui personali, ed è per questo che ci mettiamo insieme per fare film personali.

Fare un film non è come stare in chiesa, almeno per me, è come un’arrampicata. (…) I registi, e io sono uno di loro, non hanno il minimo rispetto per niente e per nessuno all’infuori del film, e dal primo giorno delle riprese fino all’uscita la situazione non cambia, se non in peggio.

Tutte le mie idee migliori provengono dal fatto di non avere risposte – dal non sapere. Non sai mai qual è la verità finché non ti metti all’opera. E proprio quando pensi di sapere come andrò un film, ecco che tutto comincia a cambiare e a diventare qualcos’altro. E tu devi capire che non sta andando male. Che è proprio così che vanno le cose.

Per come la vedo io, per fare un film perfetto bisognerebbe girare per dieci settimane e poi buttare via tutto e ricominciare da lì. È quello il momento in cui inizi davvero, e di solito è anche il momento in cui il film è finito, in cui tutto diventa facile.

John Cassavetes, s.d. (estratti da “John Cassavetes. Un’autobiografia postuma”, a cura di Ray Carney; traduzione di Silvia Castoldi)