Momenti in alcuni film visti recentemente

Quando non sai quale sia la via giusta scegli la più difficile.
(da “Il Generale Della Rovere”, di R. Rossellini)1

Recentemente ho visto film, che pure mi sono piaciuti, il più delle volte, dei quali ho soprattutto notato certe scene, magari brevi, che mostrano un comportamento del protagonista davvero impressionante, per la sua singolarità – e, in alcuni casi, per l’istintiva saggezza di chi lo attua. In due vecchissimi film di Frank Capra2, prima James Stewart e poi Gary Cooper, accusati ingiustamente da gruppi importanti di persone appartenenti al potere costituito (una commissione d’inchiesta del Senato, nel primo caso, e la corte di un processo giudiziario nell’altro), con argomentazioni pretestuose frutto di malafede, o quanto meno di disinformazione, rispondono col silenzio, rifiutandosi di controbatterle. Essi capiscono che se assecondassero gli accusatori, ribattendo a tali affermazioni, per difendersi, oltre a dover spendere enormi quantità di energia e di tempo, inutilmente (tanta è la sproporzione fra le parti avverse, uno solo contro molti o moltissimi), ciò sarebbe sicuramente pernicioso per la tutela dei propri interessi, perché se rispondessero a domande capziose e si opponessero ad accuse del tutto infondate finirebbero per legittimare queste e quelle. Perciò Mr. Smith (James Stewart) preferisce abbandonare l’aula rifiutando di confrontarsi con chi lo accusa ingiustamente e Mr. Deeds (Gary Cooper) rimane al suo posto muto e assente, del tutto disinteressato a difendersi da insinuazioni talmente assurde e prive di fondamento. Mi è parso, il comportamento dei due personaggi, assolutamente condivisibile, dignitoso, rispettoso della propria integrità morale.

In un altro film, “The Damned”, di Joseph Losey, del 1961 – film che non mi è piaciuto, devo dire – emerge proprio alla fine l’idea che un gruppo paramilitare, peraltro governativo, al servizio di una specie di scienziato tanto privo di senso etico quanto sicuro di sé, abbia messo in atto un’operazione oggettivamente mostruosa (isolare dalla nascita un gruppo di bambini, tutti nati lo stesso giorno dello stesso anno con una intensissima radioattività assunta durante la gravidanza delle rispettive madri, soltanto per preparare un’ipotetica cellula di umanità che sopravviverebbe a una catastrofe atomica data per sicura e imminente) frutto di una allucinazione, presa però per realtà certa e inconfutabile. Infatti il titolo della versione italiana del film è “Hallucination”, e per una volta è successo che il titolo italiano fosse migliore, più pregnante, di quello originale. Ecco, questa cosa, che vien fuori proprio alla fine di un film che, come detto, non mi è piaciuto, e ho trovato davvero invecchiato male, come si dice, per come è, penosamente, attuale, lo riscatta in parte, e mi fa sentire come non sia stato tempo del tutto sprecato, quello passato guardandolo, spesso infastidito dalla recitazione degli attori, probabilmente anche piuttosto mal diretti da Losey. Un autore che ultimamente – l’anno scorso ho rivisto “L’incidente” – mi è parso assai sopravvalutato, e che un tempo consideravamo invece, io e qualche amico, un grande.

Gene Tierney e Cornel Wilde in una scena all’inizio di “Femmina folle” (che titolo! Quello originale sarebbe “Leave her to heaven”, una citazione scespiriana), di Lewis Stahl, del 1945, quando sono sul treno, seduti uno di fronte all’altra, coprono, a turno, la parte del voyeur: lui la guarda mentre lei dorme, e lei lo fissa a lungo, ostentatamente, dopo essersi svegliata. Da quella seduta di ‘voyeurismo reciproco’ prenderà avvio tutta la storia, tragicissima, del film.

In “Dark Passage” (bellissimo titolo, in italiano diventa, didascalicamente, “La fuga”), di Delmer Daves, del 1945, che fino a oltre la metà è girato ‘in soggettiva’, per cui vediamo con gli occhi del protagonista, e gli altri personaggi guardando lui è come se guardassero anche noi, che condividiamo il punto di vista di Humphrey Bogart. Mi ha preso in particolare la parte quando lui rimane solo, per poco tempo, in casa di Lauren Bacall – all’epoca giovanissima e molto bella. Bogart è da poco arrivato in questa bellissima casa, di nascosto, essendo ricercato dalla polizia, come evaso da San Quentin; lei, Lauren-Irene, gli parla, guardandolo negli occhi, quelli di Bogart ma anche i nostri. Poi lei se ne va (per compragli dei vestiti) e lui si guarda in giro, curiosando un po’ ovunque, e si sente – grazie forse a una certa lentezza nei movimenti dello sguardo – la sua ammirazione per quella casa così bella e particolare, fra l’altro una vera casa di San Francisco, credo esista ancora, anche se sono trascorsi quasi ottant’anni. Oltretutto lui viene da un carcere notoriamente piuttosto inospitale, e anche questo influisce sulla sua percezione del luogo, del tutto nuovo, in cui ora si trova. Per qualche secondo ho provato, credo, le sue stesse sensazioni, era come essere lì, e la sua ammirazione, e il suo compiacimento, erano anche i miei.

In “Cenere e diamanti”, un film polacco, di Andrzej Wajda, del 1959, molto famoso ma che non avevo mai visto prima di qualche giorno fa, i fatti avvengono tutti o quasi tutti praticamente per caso. I due attentatori, che vediamo subito all’inizio del film mentre stanno in attesa del passaggio delle vittime designate, compiono un tragico errore assalendo una camionetta che casualmente precedeva quella che aspettavano, e così uccidono a colpi di mitra due innocenti. Soltanto dopo, mentre si trovano in un caffè della cittadina nei pressi del luogo dell’attentato, uno dei due (l’altro sta telefonando al mandante, per comunicargli l’avvenuta esecuzione dell’ordine) si rende conto, dalle parole che si scambiano alcune persone entrando nel caffè, che hanno commesso un fatale errore: uno di loro è proprio il principale bersaglio dell’attentato – qualcuno gli si rivolge pronunciandone il nome. Ancora dopo, Maciek, il più giovane dei due attentatori – e il vero protagonista del film – aprendo la finestra della stanza d’hotel in cui è appena entrato coglie al volo, e del tutto casualmente, un dialogo fra due persone, una delle quali, una prostituta, dice, fra le lacrime, di essere la fidanzata di uno dei due assassinati. Ciò che, inevitabilmente, insieme ad altri fatti successivi, lo porterà a ripensare la legittimità del suo coinvolgimento in quelle azioni terroristiche, mettendola seriamente in discussione (anche se poi non rinuncerà all’ultima, che gli sarà fatale). In una scena successiva, il giovane attentatore e la ragazza che sta corteggiando escono per fare due passi, ma la pioggia piuttosto intensa li costringe a riparare in una chiesa semidistrutta dai bombardamenti sovietici durante la guerra appena finita. Mentre conversano fra loro, arrivano in una sala dove scoprono, anche qui per caso, sotto due lenzuoli, le salme dei due uccisi, ‘vegliate’ da un uomo armato di fucile che si era assopito e risvegliandosi d’improvviso, e scoprendo la coppia nei pressi delle salme, inveisce contro di loro, rivelando l’identità dei due morti.

Ed è sempre per caso che Maciek scopre, mentre si trova, in piena notte, ancora all’interno del caffè, che Szczuka, colui che deve uccidere, inopinatamente è uscito dalla sua stanza (dove M. aveva previsto di irrompere per assassinarlo), e resta in attesa, sulle scale, che un’auto mandata dalla polizia lo venga a prendere. Poco prima l’uomo politico era stato informato che il figlio diciassettenne, perso del tutto di vista da prima della guerra, ora diventato anche lui un “terrorista”, quindi un suo nemico, è stato arrestato insieme ad altri compagni, catturati nel corso di un rastrellamento. Maciek seguirà, di soppiatto, l’anziano segretario del Partito Polacco dei Lavoratori che, non riuscendo più a sopportare l’attesa, decide di uscire da solo dall’albergo per raggiungere a piedi il commissariato di polizia. Lo abbatterà scaricandogli addosso l’intero caricatore della sua pistola, e i colpi si confonderanno con le improvvise, e assolutamente inattese (anche per noi spettatori), esplosioni dei fuochi artificiali sparati per festeggiare la fine della guerra, appena comunicata alla nazione.
Dopo ancora, alla fine del film, del tutto casualmente il giovane si imbatterà in una pattuglia di soldati, e preso dal panico si darà alla fuga, durante la quale, pur sfuggendo agli inseguitori, rimarrà colpito mortalmente da un proiettile sparato da uno di loro.

Di “Giorni perduti” (The Lost Weekend) vecchio film di Billy Wilder che avevo visto alla televisione quando ero molto giovane, a Novi Ligure, non ricordavo la lunghissima camminata del protagonista, lo scrittore interpretato da Ray Milland, attraverso New York, alla ricerca di un banco dei pegni in cui lasciare, in cambio dei soldi necessari per comprarsi del whisky, la sua macchina per scrivere. Dopo il primo, il secondo, il terzo, e così via: li trova tutti chiusi, e non se ne capacita, nessuno pare in grado di dirgliene la ragione, si sente perseguitato dalla sorte, eppure non cede, prosegue nella sua ricerca, camminando per ore, invano. Finché, finalmente, apprende da due ebrei – uno dei quali è il titolare dell’ennesimo banco dei pegni trovato chiuso – che quel giorno, un sabato, cade la ricorrenza di Yom Kippur, importante festa ebraica. In quel giorno, tutti sono chiusi, anche quelli gestiti da cristiani, e in cambio gli ebrei chiudono sempre il loro banco a Natale, perciò ogni anno in quei due giorni i banchi dei pegni (contraddistinti dalla ben nota insegna con tre palle, esibita all’esterno) sono sempre tutti chiusi.
La sequenza venne girata in gran parte nella Terza Avenue, in East Manhattan, tutta in incognito, per ottenere la massima freschezza, con le reazioni del tutto spontanee dei passanti che si accorgevano dell’uomo vagante, con un’espressione allucinata, con la macchina per scrivere tenuta per il manico della scatola che la contiene. Per ottenere lo scopo, la macchina da presa era nascosta all’interno di un camion pieno di casse, e così nessuno potè accorgersi che si trattava di una finzione cinematografica. Credo sia la parte migliore del film, soprattutto sapendo del particolare della mdp nascosta; film che, francamente, mi è piaciuto assai meno di quella prima volta, trovandolo spesso eccessivamente melodrammatico, piuttosto inverosimile (soprattutto il finale, frettoloso e ben poco credibile) e decisamente, direi, datato, ben più di altri film girati in USA in quegli anni (i ’40, questo è del 1945). Era quella l’epoca d’oro del noir, cosiddetto, e di film così ne ho visti moltissimi negli ultimi due anni, e quasi tutti mi sono piaciuti, alcuni anche molto, e se li ho trovati, inevitabilmente, un po’ datati, mi sono però sembrati anche freschi e convincenti.

1: la frase viene pronunciata nel film da un detenuto che la legge su una lettera inviata dalla moglie del vero generale Della Rovere a quello fittizio, impersonato da Vittorio De Sica, e palesemente ha un effetto decisivo sulle sue successive azioni; fino all’ultima, quando si presenta, senza esservi costretto, di fronte al plotone d’esecuzione tedesco. Io mi sono permesso di modificarla leggermente, e la frase ‘giusta’ sarebbe “Quando non sai quale sia la via del dovere scegli la più difficile”.
2: rispettivamente, “Mr. Smith goes to Washington”, del 1939, e “Mr. Deeds goes to town”, del 1936.