Elogio di Francis Fredrick von Taschlein

Frank Tashlin ha diretto diversi film con Jerry Lewis, ma ancora prima aveva fatto (ossia diretto dopo averli disegnati) moltissimi corti animati delle serie Merrie Melodies e Loony Tunes, giustamente celebri. Questo background emerge spesso nel suo lavoro come regista di lungometraggi (feature films), che svolse nella seconda parte della sua carriera nel cinema, fra i primi anni ’50 e la fine dei ’60, soprattutto, appunto, nei film con Jerry Lewis. Recentemente ne ho rivisto uno,The Geisha Boy, in italiano, curiosamente, Il ponticello sul fiume dei guai1. Si nota, per prima cosa, la cura dell’inquadratura, che è sempre un po’ squilibrata, apparentemente, ma in realtà ben bilanciata, e pure, nello stesso tempo, quasi sbilenca, ripudiando ogni tentazione di simmetria e di staticità, e riuscendo così ad ottenere miracoli con il nuovo, per l’epoca, formato, con base decisamente più lunga dell’altezza, diversamente da ciò che accadeva con il 4:3. Il fulcro dinamico dell’azione non è mai al centro, oppure quando c’è – come l’inquadratura con il baule, alla fine – gli elementi di contorno (ammesso che abbia senso parlare di contorno nell’inquadratura tipica di questo autore) sono disposti in modo da ‘squilibrarla’, scongiurando così il rischio di avere un’immagine piatta e statica.
Poi, il colore di tutti gli elementi, costumi degli attori compresi, ovviamente: essi vengono scelti accuratamente, in modo da creare inquadrature vive, dinamiche, in cui l’attenzione non è ostinatamente costretta a dirigersi sull’attore protagonista, o sugli attori protagonisti2. Il film che ho appena rivisto, e molto apprezzato – una visione che mi ha veramente procurato un genuino piacere – è del 1958, e guardandolo, e notando questa caratteristica, ho subito pensato a certi film di Kaurismaki, come Nuvole in viaggio, L’uomo senza passato e altri, che mostrano chiaramente una particolare attenzione del regista nella scelta degli arredi e dei loro colori, molto simile a quella di Tashlin. Ma anche nei film a colori di Ozu (all’incirca negli stessi anni dei film di T. con Lewis), soprattutto gli ultimi, accade un po’ la stessa cosa; e mi viene ora in mente quel che ha fatto Bresson nei suoi film a colori, soprattutto Così bella, così dolce e L’argent.
Analogo il lavoro su tutti gli elementi che concorrono a formare un’inquadratura, scelti sempre con la massima accuratezza (anche qui, come gli stessi autori citati prima) e disposti in maniera tale da ottenere gli stessi effetti perseguiti con i colori; ovvero, essi tendono tutti ad assumere la stessa importanza degli attori, e contribuiscono all’ottenimento di quel certo effetto dinamico e di ‘sbilanciamento controllato’. C’è una scena che io trovo bellissima all’inizio di The Geisha Boy, quando Jerry si muove carponi lungo il corridoio dell’aereo, e mentre lui si vede sempre intero, o quasi, ogni tanto compaiono, in primo piano o dietro di lui, pezzi di corpi appartenenti agli altri passeggeri, tutti dormienti. Si vedono soprattutto gambe e piedi, qualche testa, e queste membra paiono staccate dai corpi a cui appartengono, quindi utilizzate dal regista per comporre l’inquadratura. È un po’ la tecnica del collage, e credo proprio che sia stata affinata da Tashlin nel suo lungo periodo di lavoro nel cinema di animazione, quando componeva le inquadrature, e quindi le sequenze, giustapponendo parti di personaggi e di cose, ognuna con un colore ben diverso, e scelto per combinarsi con gli altri senza appiattire l’immagine, bensì vivacizzandola3.
Talvolta – e sono momenti che mi hanno particolarmente elettrizzato l’altra sera – sono gli stessi abiti, o costumi, degli attori a prevalere sullo stesso, anche se si tratta del protagonista, che è poi Jerry Lewis, uno che davvero riempiva lo schermo e non poteva passare inosservato, calamitando tutta l’attenzione sulle sue mosse ed espressioni. Penso soprattutto a una sequenza (credo sia quella in cui si presenta al cospetto del maggiore, che lo scaccerà dalla tournée, dopo le tante sue, sia pure involontarie, malefatte) in cui Lewis indossa una stupefacente giacca rosso cupo in lamé, un capo veramente molto bello, al punto di attrarre irresistibilmente la mia attenzione, quasi ignorando l’attore.

Peraltro, Jerry Lewis è Jerry Lewis, campione della smisuratezza (peraltro, sospetto, appresa, o quanto meno coltivata proprio lavorando tante volte con Tashlin) e non può mai essere del tutto ignorato, neanche in un film come questo, esempio riuscitissimo della particolare metodologia di Tashlin, volta, come detto, a ‘democratizzare’ (ovvero, a ricomporla, appunto, ‘democraticamente’, senza quasi rispettare alcuna gerarchia precostituita, dopo averla destrutturata) ogni inquadratura, e quindi la sequenza di cui fa parte. Ma le sue smorfie e le sue movenze sono un retaggio del cinema muto – Lewis adorava Stan Laurel4, ne studiò ogni mossa di ogni suo film – così come la tecnica di Tashlin, con l’uso ricorrente della cosiddetta sight gag (una scena che fa ridere mostrando situazioni soltanto visive, spesso senza parlato)5 deriva a sua volta dal cinema muto oltreché dalle sue esperienze in quello di animazione. E anche perciò si può dichiarare, senza alcun timore, che questo è un grande autore cinematografico, insomma uno di quelli che riuscirono a liberare sempre più quest’arte dagli iniziali condizionamenti del teatro arrivando a definire le modalità stilistiche che sono sue proprie, del cinematografo, anche se tante e tante volte, nel corso della sua già lunga storia, ci fu chi volle ritornare a scimmiottare quel tipo di espressione, smettendo così automaticamente di fare vero cinema ma piuttosto del ‘teatro filmato’6.
Infine, non credo che nessuno si possa stupire sapendo che Jean-Luc Godard era un ammiratore veramente sfegatato del cinema di Tashlin (e poi di quello del suo allievo Lewis, i primi film che fece, all’inizio degli anni ’60), considerandolo un autentico maestro, sia pure ‘minore’, di quest’arte. E indubbiamente la sua maestria nella costruzione di ogni inquadratura, attraverso la scelta accurata, e mai banale, di tutte le componenti – collocazione degli oggetti e degli stessi attori, con una particolare attenzione nella scelta di tutti i colori, adozione di angolature di ripresa spesso inusitate – è innegabile, e salta particolarmente agli occhi in un film come The Geisha Boy.

1. Ma con ragione, essendo il celebre film di David Lean, Il ponte sul fiume Kwai, uscito nelle sale un anno prima, ripetutamente citato, in vari modi.
2. In questo modo essi vengono ‘declassati’ e portati al livello di tutti gli altri elementi, che diventano a loro volta protagonisti: una oggettiva ‘democratizzazione’ dell’inquadratura, e quindi dell’intera pellicola, con qualche comprensibile eccezione (se hai Jerry Lewis, o Bob Hope, nel tuo film, devi tenerne conto e dar loro comunque il giusto risalto).
3. Un altro evidente legame con il cinema d’animazione creato da Tashlin per molti anni, con le tante Merrie Melodies e Looney Tunes, è la presenza del coniglio bianco, utilizzato generosamente lungo tutto il film per creare situazioni tipiche di quel cinema. In molte di esse Harry sembra uno di quei personaggi, improvvisamente diventato ‘vero’.
4. Incidentalmente, Tashlin, agli inizi della sua carriera, ancora negli anni ’30, scrisse la sceneggiatura di un corto di Laurel and Hardy.
5. Anche in questo film esse abbondano, soprattutto molte di quelle in cui appare Harry, il coniglio – che poi si rivelerà essere una coniglia (“Hey, you’re not a Harry; you’re a Harriet!”).
6. Robert Bresson, in molte delle sue interviste (vedi Bresson su Bresson) batte su questo punto, sul cinematografo che non è teatro filmato, e deve essere realizzato in modo del tutto diverso, a tutti i livelli, compresa ovviamente la recitazione degli attori.