(apparizioni e altro)
Stavo salendo da San Lorenzo, sul tratto di strada che porta fino alla chiesa, quando vedo davanti a me, a qualche decina di metri, un’auto rallentare e poi fermarsi. Rallento a mia volta, e improvvisamente appare alla mia sinistra, scendendo a rotta di collo dal pendio, un capriolo, che mi taglia la strada – ma io ero quasi fermo – e si dirige in linea retta non so bene in quale direzione, perché da quella parte non ci sono, nelle immediate vicinanze, i boschi fitti che immagino questi animali prediligano. Forse si era trovato in mezzo alla mandria di mucche che pascola lì sopra, si sarà inquietato (poteva esserci anche un cane) e avrà soltanto pensato a fuggire, rischiando anche grosso.
L’ho visto per qualche istante, è passato a cinque o sei metri da me, e sono sicuro, ora, che si tratta dello stesso capriolo disegnato una volta da Beuys. Credo si tratti di un acquerello, ce l’ho a casa riprodotto su una cartolina – non vedo l’ora di riaverla fra le mani –, un lavoro dei primi tempi di B., che usò un tono ocra rossa. È un disegno molto bello, vi si vede l’animale vivo: probabilmente anche Beuys lo vide apparire all’improvviso mentre fuggiva (nella stessa direzione, da sinistra verso destra, scendendo) e l’immagine, fortissima e fugace, si impresse nella sua memoria con grande vividezza, per sempre.
Dopo poco meno di mezz’ora, arrivato al colle della Vaccera, ho fatto una breve camminata – l’idea era di aumentare un poco la difficoltà e la durata, per superare questa fase di debolezza fisica che dura ormai da troppo tempo – lungo la strada sterrata a mezza costa sulla val d’Angrogna, sotto il Monte Servin. Si sarebbe rivelata come forse una delle più spiacevoli di sempre, a mia memoria: oltre al caldo quasi insopportabile, davvero anomalo per quei luoghi, soprattutto a quell’ora (fra le 9.30 e le 11), sono stato tormentato, continuamente e senza poter fare molto per difendermi, da nugoli di mosche che mi ronzavano attorno e si attaccavano ovunque, sia che camminassi sia che, di quando in quando, mi fermassi in una rara zona d’ombra. È stata un’esperienza davvero sgradevole, al ritorno, in leggera discesa, correvo quasi, per sfuggire alle mosche, ma invano1. Ogni tanto pensavo al protagonista di Sotto il vulcano, di cui ho soltanto visto una versione cinematografica, di John Huston. Chi ha visto il film credo capirà a quale scena mi riferisco.
Un giorno, stavo andando in auto verso San Lorenzo, e sono arrivato all’imbocco di un breve rettilineo prima di una curva a gomito, un tratto di strada sovrastato dalle chiome di molte piante, quindi sempre in ombra. D’estate poi, quando c’è il sole, il contrasto fra l’ombra di quel tratto di strada e l’intensa luce prima e dopo è fortissimo. Ero appunto appena entrato in quell’ombra quando vedo, a circa cinquanta metri da me, appena prima della curva (quindi della luce più intensa) una sagoma scura che si infila nella macchia a destra della strada, in forte pendenza. Penso che potrebbe appartenere a un cane di taglia abbastanza grande (ce ne sono, da queste parti, che vanno in giro da soli), ma non ne sono del tutto convinto, e istintivamente rallento, quasi fermando l’auto (da queste parti non si va mai troppo velocemente, la strada è stretta, con molte curve), raddoppiando la mia attenzione e come in attesa di qualcosa. Sono ormai a meno di dieci metri dalla curva quando vedo un piccolo capriolo (questo lo vedo bene, non ci possono essere dubbi) che attraversa la strada, sulle tracce dell’altro – che evidentemente non era un cane. Ripartendo, mi giro per un attimo verso la macchia e vedo, a pochi metri dalla strada, la sagoma quasi nera del giovane capriolo che, immobile, mi sta guardando, palesemente incuriosito.
[scritto parecchio tempo dopo gli altri due, oggi è il 29 agosto; il fatto risale a un paio di settimane fa]
La scorsa settimana [oggi è il 29], mentre camminavo verso Serre – la solita passeggiata, l’avrò fatta una dozzina di volte almeno – ho scorto, in alto alla mia sinistra, sul limitare del bosco dopo un pendio piuttosto ripido, sgombro di piante, una volpe. Non si è accorta della mia presenza, forse anche perché è molto concentrata seguendo una pista, col naso quasi attaccato al suolo. La osservo per qualche secondo, prima che si infili nel bosco: non è molto grande – diciamo come un cane di taglia medio-piccola – ma ha una coda lunghissima, lunga quasi quanto il corpo, muso compreso.
Scaramuccia – molto probabilmente per ragioni di dominio territoriale – fra due cornacchie e un rapace (gheppio?) in un luogo aperto non lontano dalla casa in cui abito. Il rapace era in difficoltà, non sapeva come sottrarsi all’attacco, fra giravolte, brevi picchiate e bruschi cambi di direzione: l’altro uccello – perché nel frattempo una delle due cornacchie si era chiamata fuori – non mollava mai. A un certo punto sono volati oltre le piante più alte alla mia sinistra, dove non potevo più vederli. Ma dopo un paio di secondi ho udito delle strida, piuttosto acute, e credo proprio fosse il verso del rapace, ormai soccombente.
Stamattina [30 agosto], per qualche motivo, ho deciso di imboccare una via di Torre Pellice che non conoscevo proprio, vicina al centro del paese ma nello stesso tempo defilata, e priva di attrattive evidenti. Mentre camminavo sono stato attratto da un forte stridere, suono che è inevitabile, almeno per me, associare immediatamente alle rondini, anche quando non si possono vedere (magari perché ci si trova in casa). Su un lato della via, oltre un piccolo cortile, c’è un caseggiato abbastanza alto, almeno quattro piani, direi, con una forma simmetrica, come si cominciò a farne negli ultimi decenni del secolo scorso. La parte centrale, la più ampia, ha in alto, sopra l’ultimo piano, una specie di timpano verticale, alto alla sommità circa quattro metri, direi, e largo forse una decina; ai lati, due specie di ali assai più ridotte, e anche più basse di quella centrale. La facciata della casa è rivolta a sud, ci batteva il sole a quell’ora (anche piuttosto caldo, dopo la pioggia) e lì, soprattutto davanti al timpano, volavano vorticosamente moltissime rondini. Sotto la grondaia si vedevano molti nidi, dai quali entravano e uscivano le rondini, ma la cosa veramente strana, che ci ho messo qualche secondo a capire, era quel che facevano molte altre rondini, probabilmente sprovviste di nido. Erano attaccate, non riuscivo nemmeno a capire bene come, alla parete, quindi in verticale, al modo di certi ungulati, soprattutto stambecchi e camosci, quando si spostano con assoluta calma e noncuranza su pareti rocciose a picco, o sulle altissime pareti di qualche diga. Si appoggiano, con le loro zampe dalla forma particolare, perfette per la bisogna, ad ogni minima sporgenza, perché ce ne sono, anche se non visibili da lontano, osservando dal basso. Ma le rondini? Evidentemente la parete doveva essere stata intonacata con quella modalità, diciamo ‘rustica’, che si utilizzava spesso nelle case del secolo scorso: ‘grotoluta’, si usa dire, ovvero scabra, non appiattita e neppure liscia, ma piena bensì di piccolissime sporgenze irregolari, sufficienti comunque a sostenere l’infimo peso di una rondine, che ci si aggrappa con le sue zampine, per diversi secondi, fors’anche un minuto.
Non avevo mai visto niente di simile, mi sono quindi soffermato in quel tratto di strada a naso in su per qualche minuto.
Il luogo in cui ho assistito, giorni fa, all’inseguimento del rapace da parte di una cornacchia è forse il mio preferito di questa lunga estate. Si trova poche centinaia di metri dopo la borgata Serre, sulla strada verso Buonanotte, sul lato sinistro della strada. Lì, appena prima dell’ingresso di una proprietà (due belle case in pietra affiancate) c’è un vecchio ciliegio, piuttosto grande, che proprio accanto, attaccato al suo tronco si può dire, ha un bellissimo, e forse perfin più vecchio, bosso, uno dei pochi, qui e altrove, scampati a certi parassiti che hanno decimato la specie; proprio lì qualcuno, penso molto tempo fa, ha sistemato due sedute. Sono state, ognuna, ricavate da un tronco, e modellate con due soli tagli di sega, uno verticale e uno orizzontale; molto simili, ma anche diseguali, una dallo schienale più basso, ma dalla seduta più ampia, e una invece più stretta ma con lo schienale più alto. Insieme semplici e sofisticate, ovvero frutto di un lavoro mentale piuttosto evoluto (i reciproci rapporti fra misure di seduta e schienale lo stanno a dimostrare, a mio parere), e anche rischiarato dalla poesia, o forse dall’amore, sono state messe in modo tale, affiancate, a una distanza di circa un metro una dall’altra, da permettere a chi ci si siede una vista fra le più belle di questa valle, verso il basso, dove si trova un gruppo di case dai tetti in pietra, oltre un prato in pendenza dall’erba sempre rasata e costellato di alcune piante da frutto. Dietro le case, un bosco, e dietro ancora la montagna sull’altro versante della valle, fittamente boscosa, con pochissime case – è il versante a mezzanotte, più umido e freddo. Fra i due versanti, laggiù in basso, invisibile ma ben udibile, il torrente che dà il nome alla valle.
Mi sono spesso fermato lì, quasi sempre da solo, per prendere fiato durante una passeggiata (per quasi un mese sono stato convalescente, ero debole, e nelle ore centrali della giornata, fino a metà agosto, faceva molto caldo) e intanto guardare il panorama, così bello e rasserenante. I momenti più belli, forse, quelli in cui la mia sosta coincideva con i battiti del campanile della chiesa poco lontana, sempre due volte ogni ora: un minuto prima dello scoccare e un minuto dopo. Ma ricordo anche alcune conversazioni telefoniche, con qualche amico o una persona cara: facevo sempre in modo da trovarmi lì a una certa ora, quando avrei chiamato qualcuno o ne sarei stato chiamato. La strada carrozzabile, che passa proprio vicino alle sedie, non è mai trafficata, giusto un’auto, o un trattore, ogni tanto, così si può parlare a voce normale, senza il bisogno di alzarla: proprio come se ci si trovasse insieme lì, seduti ognuno su una delle due sedie, conversando mentre guardiamo il paesaggio.
1 Oggi dopo le 17.30 ha piovuto con una certa intensità, sia pure brevemente, e il cielo è ancora coperto; viene così spiegata l’abnorme abbondanza di mosche fastidiosissime durante la passeggiata di stamattina: come mi ha rammentato un amico poco fa, il fenomeno prelude sempre ad eventi temporaleschi, presentiti dagli insetti, che probabilmente faticano a volare normalmente nell’aria che si sta ‘ispessendo’.