due film di Shimizu

Hiroshi Shimizu, un nome giapponese fra altri mille (che fatica, spesso, ricordarseli e distinguere bene fra le persone che li portano) da ieri sera mi è diventato quasi familiare. È a causa del film che ho visto, Ornamental hairpin (titolo internazionale, che traduce il giapponese Kanzashi), che Shimizu girò nel 1941, proprio quando il Giappone era già in piena guerra (ancora non contro gli Alleati, bensì contro la Cina). Nessuno potrebbe dirlo, guardandolo, perché già la prima sequenza ci porta lontanissimo da qualsiasi ipotetico scenario bellico. Ha subito qualcosa di particolare, questa sequenza, qualcosa di inaudito, perfino. Siamo su una strada sterrata, fra alberi altissimi, c’è uno splendido sole, noi è come se precedessimo un gruppo molto gaio, soprattutto donne (geisha) andando nella loro stessa direzione e girandoci verso di loro per osservarli bene. L’immagine traballa un po’, evidentemente la mdp non era su una rotaia o su un qualsiasi supporto fisso e rigido, ma tenuta ‘a spalla’ bensì. Già questo particolare stupisce e spiazza: non sono un esperto di storia del cinema, non ho quindi idea se tale modalità di ripresa venisse già praticata, ma tenderei ad escluderlo. Poi la mdp è come se si fermasse (e noi stessi ci fermiamo) per lasciar avvicinare il gruppo, dopodiché si concentra su due donne, che seguiamo mentre camminano (e anche noi è come camminassimo con loro) ma ora molto più da vicino, così da poter udire bene la loro conversazioni. Sono allegre, si vede che stanno bene, soprattutto una delle due, che poi sparirà per circa una decina di minuti dalla scena per riapparire quindi diventando la vera protagonista del film. Lei è Kinuyo Tanaka, una grande attrice, anche molto famosa, avendo lavorato con Mizoguchi, Ozu, Naruse e appunto il nostro Shimizu (con il quale fu anche, brevemente, sposata). Ecco, quest’ultimo non somiglia a nessuno di quei tre grandi, anche se ogni tanto emerge qualche tratto che può ricordare Ozu (suo coetaneo e grande amico), nelle scene in interno, altre volte Mizoguchi (certe carrellate lente e vertiginose, e poi le parti in esterno, con gli attori spesso molto lontani dalla mdp) altre ancora Naruse, quando i personaggi – come nella sequenza iniziale e in molte altre ancora – camminano attraverso il paesaggio, e intanto conversano, e noi li seguiamo continuamente, vicini ma non troppo. Poi ci sono i primi piani, soprattutto della Tanaka, che invece non mi sembrano ricordare nessun altro autore coevo e sono quindi, forse, i momenti più autenticamente suoi.
La storia è tratta da un racconto di uno scrittore giapponese, ma è molto esile, a contare sono soprattutto i comportamenti delle persone, quello che fanno e quello che (si) dicono. Una buona parte del film si svolge all’aperto, e pare che Shimizu avesse una particolare predilezione per le riprese in esterni, preferendole quasi sempre a quelle in studio, o comunque in interno. È tutto piuttosto leggero, anche se i personaggi sono molto reali (quello della Tanaka in particolare) e anche quando sembrano più spensierati e leggeri – si tratta pur sempre di una commedia – risultano comunque credibili, persone con dei problemi e dei pensieri che possono talvolta angustiarli (è sempre il caso della Tanaka). Per tutti questi motivi a me sembra che si possa sicuramente fare un paragone con certi film di Renoir usciti pochi anni prima, come il celebre La grande illusione e Un partie de campagne. Ma lì c’era un contrappunto più forte e più serrato fra leggerezza e serietà, mentre almeno in questo film di Shimizu prevale la gaiezza, e non si assiste ad alcuna situazione realmente drammatica. I dialoghi sono davvero brillanti, si sorride spesso alle battute di questo o quel personaggio e la situazione – piuttosto poco plausibile, o comunque anomale, ai nostri occhi occidentali – di un gruppo di persone che si trova a passare insieme (addirittura dormendo nella stessa stanza fianco a fianco, pur essendosi da poco conosciute proprio lì) alcuni giorni in una stazione termale, si presta a continue gag spesso divertenti ma anche sempre molto garbate, senza la minima volgarità.

La parte finale, in cui vediamo la Tanaka rimasta sola nelle terme dopo che tutti gli altri sono tornati a Tokyo, è bellissima. Lei prima legge una lettera inviatale dal personaggio interpretato da Chishu Ryu (bravissimo e molto diverso dai personaggi dei film di Ozu, più spigliato, con una recitazione molto più libera) in cui la si invita a riunirsi con lui e gli altri per una rimpatriata. La malinconia traspare dal suo volto, anche se sorride leggendo la lettera, dopodiché, del tutto sola, ripercorre certi luoghi in cui erano avvenute molte cose piacevoli quando c’erano tutti. Lei sa che non potranno più accadere, le può soltanto rievocare così, rifacendo gli stessi percorsi, attraversando il precario ponte di assi sul torrente e salendo la scalinata nel bosco, due luoghi teatro delle situazioni da lei più felicemente vissute. Non dice una parola, tutto traspare dalle sue espressioni facciali, dagli sguardi, e anche da come si muove, fermandosi ogni tanto a ricordare, a rivedere quei momenti perduti per sempre. Il suo futuro è incerto – ha abbandonato il suo lavoro di geisha, rompendo con il suo protettore, si capisce che non vorrebbe più tornare indietro – ma in quei momenti riesce ad essere ancora serena, come quando era stata lì con gli altri. Anche se la malinconia prevale, pure la donna non è depressa, sembra sapere che la sua vita potrebbe forse ritrovare quella serenità, altrove, in altri modi. Oppure no, ma non importa, perché l’esperienza vissuta, pur se irripetibile, l’ha arricchita e forse anche cambiata per sempre
Così come la fine è, secondo me, una delle parti migliori del film – anzi, probabilmente la migliore, la più intensa e la meglio riuscita, tutta senza parole – anche l’inizio è davvero notevole. Dopo le riprese del gruppetto di geisha in cammino nel bosco assolato, quando queste arrivano in albergo la mdp compie una meravigliosa carrellata trascorrendo fra pareti, porte e tende trasparenti mentre segue le donne che invadono le stanze. Qualcosa che avevo già visto in Mizoguchi, ad esempio, ma realizzato qui con una freschezza e una naturalezza che dissimulano perfettamente ogni eventuale pretesa di maestria. Ovvero, la maestria del regista – e del suo operatore – c’è, ovviamente, però, appunto, rimane nascosta, non ostentata.
Mizoguchi disse una volta, per esprimere la sua grande ammirazione verso l’amico e collega:
« Persone come me e Ozu per fare un film devono lavorare duramente, ma Shimizu, lui è un genio…».

In un film precedente di Shimizu, Anma-to-onna (i massaggiatori ciechi e la giovane signora) del 1938, curiosamente assistiamo a una vicenda molto simile a quella di Kanzashi, con svariate ricorrenze (topoi in comune fra i due film): i massaggiatori ciechi, una stazione termale sperduta in una valle montana, una bella e giovane donna e almeno una storia d’amore inespressa, finita ancor prima di sbocciare, fra la ragazza e un massaggiatore che da lei è molto attratto, ma non corrisposto. C’è anche un ragazzino alquanto capriccioso e prepotente, con suo zio (nell’altro film erano due, con il nonno), che fra l’altro simpatizza palesemente per la ragazza, che a sua volta non sembra disdegnare. Lei è Mieko Takamine, all’epoca neppure ventenne, molto bella, di una bellezza misteriosa e affascinante, anche se dietro la sua espressione enigmatica si cela – anche stavolta – un travaglio interiore di natura molto simile a quello di Kinuyo Tanaka nel film del 19411. Lo zio è Saburi Shin, noto per aver fatto diversi film con Ozu, un bell’uomo anche simpatico, seppure sempre piuttosto distaccato e flemmatico. Qui la simpatia appare reciproca, anzi, forse è proprio lei quella più attratta dall’altro (gli chiede, in un moto quasi di spudoratezza, se è sposato, e si capisce che è contenta di sapere che è ancora celibe).
Il film sembra quasi un prototipo di quello di tre anni dopo, ci sono molte situazioni simili, ad esempio anche qui un precario ponticello di assi su un torrente, che per la giovane rappresenta momenti sereni recentemente vissuti e ormai perduti, quando verso la fine del film ci ritorna protetta da un ombrello, dato che sta piovendo (anche Tanaka porterà un ombrello aperto nella scena analoga dell’altro film, ma per ripararsi dal sole – o forse per creare la giusta intimità in un momento di intenso struggimento). La parte iniziale è anche molto simile: stavolta due ciechi, piuttosto sull’allegro, camminano per una strada di montagna in leggera salita e noi li vediamo come se ci trovassimo davanti a loro, a una distanza di pochi metri, ma rivolti appunti verso di loro (come stando seduti su una carrozza o su una corriera). Il loro colloquio è molto piacevole, frizzante, emerge una certa loro fierezza, quasi un senso di superiorità rispetto agli altri, i vedenti, grazie all’estremo affinamento degli altri sensi. Ora sono impegnati (pare lo facciano sempre, qualcuno lo dice) a superare il maggior numero possibile di altri viandanti, contandoli, in una gara a superarsi. Anche qui molte scene divertenti, spesso prendendo un po’ in giro (quasi al limite dello sberleffo) i ciechi, che camminando si scontrano sempre soltanto con i vedenti – per colpa di questi ultimi, secondo loro – e dimostrano spesso la loro eccellente capacità di ‘leggere’ la realtà che li circonda (e perfino i sentimenti delle altre persone) con gli altri quattro sensi, sviluppatissimi per compensazione. In una breve sequenza all’aperto, la ragazza e il cieco innamorato di lei inscenano un curioso balletto2, con lei che evita sempre – per gioco, senza intenzione di deriderlo – le mosse dell’altro quando sta per arrivarle troppo vicino. Lui sa che lei è lì, con un altro uomo, e non capisce perché lo eviti rimanendo silenziosa, perciò soffre, pur senza ammetterlo, per orgoglio. Verso la fine, il cieco le rivela il suo amore e anche che aveva capito – fraintendendo certi segni3 – essere lei chi rubava nelle locande della stazione termale. Lei lo lascia parlare, dopodiché, sorridendo, gli dice che si è sbagliato, sono altri i suoi problemi, altre le cause del suo malessere interiore. Nello stesso tempo lo ringrazia, avendo apprezzato la sua empatia e la sua sensibilità (lui, certo che la polizia stesse per catturarla, la convince a nascondersi – lei pensa che stia arrivando il suo ex-amante e, spaventata, segue il massaggiatore, mettendosi in fuga con lui).
Nella scena finale vediamo lei che sta per partire verso chissà quale meta, è seduta sulla stessa carrozzella che l’aveva portata lì giorni prima e guarda sorridendo il cieco che è venuto a salutarla. Quando la carrozzella parte, lui, che è rimasto sempre lì silenzioso e visibilmente turbato, dopo qualche secondo si mette a correre, in un vano, goffo tentativo di raggiungerla, dopodiché si ferma e rivolge lo sguardo vuoto nella direzione della carrozzella che si sta allontanando per sempre da lui, con lei sopra.

Direi, sulla scorta di questi soli due film su un totale di 160 (!) realizzati da questo autore, che mentre ad esempio Ozu è sempre molto preciso, quasi programmatico (si percepisce sempre, o quasi sempre, che sta trattando un tema, sempre soprattutto di carattere sociale), Shimizu è più sfuggente, le cose importanti le mantiene implicite, facendole emergere per lo più obliquamente. I suoi personaggi (di estrazione sociale affatto eterogenea) spesso sorridono, o ridono perfino, e si vede che sono felici, ma a tratti, fugacemente, una lieve ombra attraversa il loro viso, lo sguardo soprattutto. Questo è molto reale, chiunque sa che anche nei momenti più gioiosi continuiamo a percepire, di quando in quando, la presenza latente delle nostre preoccupazioni, oppure sono ricordi spiacevoli che riappaiono; o pensiamo per un attimo a ciò che ci potrebbe riservare il futuro, e l’inquietudine ci prende.

1 In quel caso si trattava di una geisha stancatasi della vita che faceva e decisa a non riprenderla mai più. Stavolta si capirà alla fine che la giovane donna interpretata da Takamine aveva un amante a Tokyo, un uomo sposato, molto possessivo, dal quale fugge dopo aver capito il dolore che la loro relazione ha provocato alla moglie e al figlio.

2 Nel film ci sono anche altre situazioni simili, dove alcuni personaggi – fra i quali sempre almeno un cieco – si incrociano per strada, o su un ponte e sembrano spesso fare mosse di aikidō per scansarsi.

3 Massaggiandole le spalle si accorge che i muscoli sono tesi e induriti, chiaro segno di tensione e inquietudine.

Un vecchio film davvero sgradevole

Edge of Doom, del 1951, è un film davvero sgradevole, ancora capace, dopo 72 anni, di suscitare disgusto in chi lo vede. Una storia di preti, il primo – veramente un prototipo del peggior modo di fare il suo mestiere – si disinteressa dei problemi del prossimo, è spassionato, vile; insomma, quando il povero Farley Granger gli molla un colpo di crocifisso (in bronzo, bensì) sulla nuca è difficile reprimere un moto di soddisfazione: se l’era davvero cercato, e meritato. L’altro prete, il generalmente ottimo Dana Andrews, potrebbe essere pure peggio, pur apparendo assai migliore: ambiguo, indisponente con la sua flemma, la sua parlata lenta e melliflua e il sorrisetto falso, anche quando compie qualche azione positiva e perfino coraggiosa. Ma alla fine frega il ragazzo, spiando non visto la sua confessione presso la salma della madre morta la notte prima, coprendo anche la presenza, alle sue spalle (ma erano sicuramente venuti insieme) del laido tenente di polizia. Costui assurge a vette di sporcizia morale, arroganza, falsità davvero inarrivabili, sempre con un’espressione bieca che si può guardare a malapena, tanto mette a disagio. Non meno orrendi i due poliziotti che seguono Granger nel ristorantino dove è entrato per mangiare. Insospettiti dai suoi modi, lo prendono in mezzo senza alcun rispetto dei suoi diritti, spietatamente, trascinandolo anche via prima che possa toccare il cibo appena portatogli dal cuoco, e obbligandolo comunque a pagare: una scena da vomito.
Un film americano nell’accezione peggiore della parola, moralista, manicheo, che ci impone di soprassedere di fronte ai comportamenti oggettivamente inaccettabili dei poliziotti, tutti sbirri nell’accezione peggiore della parola (che ha comunque sempre qualcosa di negativo). Tutti si accaniscono nei confronti del poveretto, nessuno lo aiuta, anzi, il vecchio untuoso e ipocrita del negozio di fiori dove lavora reagisce con squallida aridità alle richieste del ragazzo, limitandosi anche a frettolose e insincere condoglianze per la morte della madre, avvenuta da poche ore (stesso comportamento del prete ucciso) e infine licenziandolo in tronco, tanto in America si è sempre fatto così, e nessuno può opporsi. Il prete impersonato da Andrews, poi, sembra aver preso come un puntiglio di dover dissuadere la nipote dell’altro prete dall’intenzione – anzi, c’era già una data fissata in comune per la cerimonia – di sposare un uomo divorziato (Dana, per cortesia, ma perché non ti fai gli affaracci tuoi?). Il bello è che, assurdamente, la ragazza sembra prestargli ascolto, rimanendo nella parrocchia a fare cosa non si sa, ma evidentemente si vuol far vedere allo stupido spettatore medio americano che è pentita e vuole riportarsi sulla retta via.
Ma è tutto all’insegna del moralismo più abbietto, con l’intento di creare un quadretto edificante in cui i cattivi, come sempre, pagano e tutto procede come sempre, nella solita disastrosa ingiustizia. Anzi, forse l’unica figura un pelo simpatica (a parte la fidanzatina, che pure appare poco incisiva e non sembra poter costituire un solido appoggio allo sventurato) è quella del vero cattivone, impersonato da Paul Douglas, che prima mostra empatia per il dolore di Granger e poi gli sta vicino anche dopo, nel corso di quel grottesco riconoscimento dell’assassino da parte di una testimone (una beghina petulante e mezza orba che addirittura dichiara di riconoscere Douglas, diversissimo da Granger).
Davvero un brutto, bruttissimo film, moralmente disgustoso, anche se la regia, va detto, non è malvagia, anzi. Ciò che in fondo aumenta ancora di più il disappunto in chi ha avuto il fegato di guardare questa robaccia dall’inizio alla fine.
Curiosamente, soltanto due sere prima avevo visto L’Age d’Or di Bunuel, del 1930, un film agli antipodi, in quanto a intenzioni in ambito morale, alquanto datato (mi sono un po’ annoiato guardandolo) ma utilissimo per farci capire che c’erano tanti validissimi motivi per sputare su certi presunti ‘valori’, ancora vent’anni dopo. Nel film di Bunuel il perfido protagonista, oltre a schiacciare con la suola della scarpa uno scarabeo di passaggio, sbatte in terra a calci uno strano cieco che passava di lì e infine molla un potente ceffone alla patronessa (altra figura esemplare della rispettabilità borghese) del salotto in cui si trovava, che gli aveva inavvertitamente versato addosso una tazzina di caffè. Rifiuto e ribellione: l’esatto contrario del film americano, esemplare del puritanesimo osceno e micidiale che è alla base di quella malsana società.

Quel che ci mostrano certi film

Accadono spesso, in certi film di Hong Sang-soo1, fatti ‘secondari’, o perfino irrilevanti, inconsistenti quasi, che forse non vengono ben compresi dagli stessi protagonisti e non paiono realmente incidere nello/sullo sviluppo narrativo, e la loro apparizione non sembra lasciare tracce evidenti. In Turning Gate il vassoio posato con noncuranza in bilico su un frigorifero dalla signora che gestisce il locale, prima di uscire, e che poi cade a terra facendo rompere in mille pezzi i bicchieri di vetro che vi erano appoggiati sopra, proprio quando il protagonista arriva lì vicino. Lui rimane attonito per qualche secondo guardando i cocci, poi li raccoglie uno ad uno, rischiando di tagliarsi (la voce fuori campo della giovane donna che è con lui lo esorta a stare molto attento). In Hotel by the River l’anziano poeta ripete più volte l’affermazione «ha bisogno di essere innaffiata», riferendosi a una pianta presente nella hall dell’albergo. Lo dice seriamente, non come diversivo durante una conversazione, almeno così pare. Nello stesso film i due figli adulti dell’uomo si addormentano allo stesso tavolo presso il quale, poche ore prima, si erano seduti incontrando il padre dopo molto tempo (avrebbero potuto chiedere una stanza, ma chissà, forse non avevano abbastanza soldi, oppure erano troppo ubriachi e sono stati colti dal sonno). In Introduction, che è molto simile, a sua volta girato in b/n e dove vediamo, seduto a un tavolo di ristorante accanto a una vetrata (in maniera quasi identica all’altro film) l’attore che impersonava il poeta – qui un attore teatrale –, i due ragazzi, uno figlio dell’amante dell’attore e l’altro un suo amico, si addormentano sull’auto di quest’ultimo, al freddo. Risvegliatisi e usciti per sgranchirsi, vedono da lontano affacciarsi la madre del primo al balcone dell’hotel. Non si salutano, anche se quasi sicuramente si sono visti, e ci si chiede come mai questo distacco, dopo la scena assai imbarazzante – quando erano tutti seduti al tavolo del ristorante – in cui l’attore aggredisce verbalmente, in modo brutale2, il figlio dell’amante con motivazioni apparentemente assurde3, a fronte della grande sincerità del ragazzo nell’esprimere i motivi della sua inadeguatezza a svolgere il ruolo dell’attore. Poi l’uomo si scuserà con la donna in lacrime, in un modo che appare assai poco convincente, anche perché i due ragazzi non ci sono più, sono frettolosamente usciti dal ristorante sottraendosi all’imbarazzo di quella scenata a cui non hanno neppure minimamente reagito. Ancora: in due film assistiamo a una sequenza onirica4, presentata bensì in modo atipico, con nessuna delle caratterizzazioni sempre viste al cinema (sonorità accentuate o distorte, deformazioni dell’immagine, eccetera), quasi come fossero fatti ‘reali’ che si inseriscono agevolmente nel corso della vicenda. Il trascorrere del sogno, senza soluzione di continuità, nel mondo reale fa venire in mente Luis Bunuel, il modo in cui trattava questa materia in alcuni dei suoi film più noti (Belle de jour, La via lattea, Il fantasma della libertà, ecc.). E questa smitizzazione dell’elemento sogno contribuisce, così come certi gesti compiuti nella realtà, a conferire al cinema di questo autore una valenza realistica particolare, molto fuori dagli schemi.

Sono soltanto alcuni esempi di fatti e fatterelli che accadono a tutti continuamente (v. Kafka, Una confusione che accade ogni giorno) e che il regista accoglie nei suoi film, quando invece, di norma, un’opera cinematografica è costituita da fatti strettamente inerenti la trama, il cosiddetto plot, che sono conseguenti ad altri fatti e dai quali nasceranno conseguenze rilevanti per il prosieguo del film. Questi fatterelli no, sono inconsequenziali, lasciano il tempo che trovano, anche se sono proprio gli stessi che succedono sempre a tutti, non soltanto ai personaggi di questo film (e non si possono quindi neppure definire come eccezionali). Che sono distratti, confusi, irresoluti, goffi, pronunciano magari gravemente discorsi nei quali forse non credono essi stessi, e che lasciano comunque perplessi e increduli chi li ascolta. Certi gesti sono tutti ‘in brutta copia’, malriusciti, non meditati e sfuggiti a chi li compie, e anche quando sembrerebbero avere un qualche fine più o meno positivo non vengono mai perfezionati, anzi neppure portati a termine, così da rimanere insignificanti (ma non necessariamente dimenticati, anzi spesso essi persistono nella memoria più a lungo degli altri, quelli ‘importanti’, accaduti alla luce del sole).
In questi film nessuno sembra aver realmente combinato qualcosa nella vita, e anche quando c’è qualche personaggio di successo, come si suol dire, noi lo vediamo negli altri momenti, quelli della normalità più ‘bassa’, della debolezza, della bassezza, perfino. Ne consegue, apparentemente, che certi successi – evocati o descritti da qualcuno ma ai quali mai assistiamo realmente – sono fallaci, non hanno realmente valore, e le miserie, piccole e grandi, della vita di tutti i giorni prevalgono massicciamente. E ciò accade forse perché quasi tutti fanno lavori artistici, quindi discontinui, pieni di tempi vuoti, durante i quali si è spesso del tutto soli con sé stessi. Oppure, se si tratta di lavori ‘normali’, essi sono alienanti, assolutamente non in grado di dare senso e valore alle vite di queste persone, che infatti, nei momenti di tempo libero, non fanno praticamente altro che fumare compulsivamente, ubriacarsi in modo sconsiderato e mischiarsi con prostitute di bassa lega, sprecando del tutto l’occasione di fare qualcosa di più elevato, di diverso, ‘uscendo realmente dal solco’. Gli amori poi sono sempre altrettanti fallimenti, già da subito, con approcci goffi e privi di autentico trasporto (il doppio bacio al tavolo dopo la cena a tre, in Turning Gate5), destinati a finire presto oppure a trascinarsi stancamente, soltanto perché reali alternative non ce ne sono. E quando sembra che davvero sia amore – come accade in Turning Gate fra l’attore e la giovane sposata con un insegnante più vecchio di lei – ecco che finisce subito dopo il suo sbocciare, perché non c’è alternativa, sarebbe stato un remare controcorrente continuo, ciò che lei capisce bene, sottraendosi all’ultimo, forse decisivo incontro con lui.

Hong Sang-soo ci propone quasi sempre il lato peggiore, o il meno piacevole, delle persone non per una forma di cattiveria, per fare, strumentalmente, una critica sociale (come ad esempio Germi) ma perché il suo realismo non può esprimersi che così, pessimisticamente, senza alcuna fiducia nella possibilità che le persone – per una lunga serie di motivi – riescano ad attingere al meglio di sé. Sono tutte intrappolate in una forma che una volta acquisita (ma se la sono in gran parte costruiti essi stessi da soli), prima nell’infanzia, poi a scuola, infine con l’ingresso in una società mediocre e insulsa, non si potranno mai più togliere di dosso. Peraltro, il regista sembra esprimere, oltre alla comprensione del disagio dei suoi personaggi, anche pietà per loro, come si vedrà.
Ecco, forse quegli accadimenti improvvisi, quegli incidenti che accadono al cospetto di qualcuna di queste persone, lasciandole per qualche secondo attonite, potrebbero essere altrettante occasioni per risvegliarsi, per sottrarsi alla prigionia della routine (vedi lo stupore del giovane dopo che il vassoio è caduto a terra facendo rompere i bicchieri), che però svaniscono quasi subito, senza che lui o lei ne approfitti per fuggire dal suo personaggio, da una forma mai realmente scelta ma imposta e quindi subita.

Ognuna delle tre parti di Introduction finisce con un momento di apparente serenità, o quantomeno di effimero oblio delle sventure che la ‘normalità imperfetta’ delle vite dei personaggi li costringe a subire. Ogni volta si vedono due che si abbracciano, nel primo caso il giovane e la segretaria del padre mentre sono fuori e sta cominciando a nevicare, ciò che procura loro un temporaneo senso di sperdimento sublimato in un gesto affettuoso (sia pure in senso puramente amichevole). Nel secondo la goffa e insicura ragazza finita insensatamente a Berlino «per studiare la moda, che mi è sempre piaciuta fin da bambina», abbraccia il suo fidanzato appena giunto dalla Corea, senza preavviso, rispondendo a un impulso assurdo (ma non sembrano convincenti le espressioni amorose di nessuno dei due, uno verso l’altra e viceversa); presso di loro, un ponte che sormonta un canale. Nel terzo vediamo i due giovani amici su una spiaggia desolata, mentre si stringono amichevolmente (il figlio si era anche appena buttato semisvestito in mare, prendendosi solo un gran freddo) e di fronte al loro sguardo attonito il mare vuoto e scuro continua minacciosamente a rumoreggiare. In ognuna di queste situazioni – uniche in tutto il film, altrimenti privo di una colonna sonora musicale – si odono le note sparse e delicate di una chitarra (suonata forse dallo stesso regista?).

A me quei momenti, in cui mi sembra emerga, grazie anche a quelle poche note musicali, la pietà e la compassione del regista nei confronti dei suoi personaggi, ne hanno fatto venire in menti altri, visti o vissuti nella mia vita tante volte, soprattutto nella mia infanzia. Quando la madre, al mattino prima di salutare il figlio o i figli che vanno a scuola, nel mondo là fuori, li trattiene per qualche attimo pettinandogli i capelli arruffati dopo il sonno: un gesto che lei sa essere inutile, ma pure intensamente amorevole e pietoso.
il cinema di Hong Sang-soo mi sembra sia fatto con le parti meno nobili delle nostre vite, le nostre debolezze, quello che si nasconde sempre e che quando emerge ci mette in imbarazzo, perché potenzialmente in grado di demolire la nostra immagine pubblica ‘positiva’ (quando c’é). Perciò li nascondiamo, ce ne vergogniamo, e li temiamo sapendo della loro carica distruttiva. In verità essi sono di gran lunga la maggior parte, proprio in termini quantitativi, delle nostre vite, e nasconderli o negarli, piuttosto che accettarli riconoscendoli come profondamente nostri, può esserci esiziale, alla lunga.

1 Ho visto, fino ad oggi, un numero assai limitato di film realizzati dal regista coreano, autore di ben 27 lungometraggi e anche di qualche corto. Baso perciò questo testo su di essi, intuitivamente ritenendoli rappresentativi di tutto il suo cinema. Anche perché fra di loro ci sono il suo primo film (The Day a Pig Fell into the Well), uscito nel 1996, e uno degli ultimi, Introduction, del 2021, più altri usciti nel frattempo.

2 Perdere le staffe è un comportamento ricorrente nei personaggi maschili del cinema di questo autore.

3 In verità, lui reagisce così alla sincera, disarmata confessione del ragazzo, che ammette la sua incapacità a fingere un abbraccio d’amore, perché questi, sia pure involontariamente, ha demolito la sua parte ‘buona’, quella pubblica di attore teatrale di successo. Il vecchio capisce immediatamente che il ragazzo ha ragione, che il suo lavoro è insulso e vacuo, privo di autenticità e di reale valore, e così perde le staffe, arrivando quasi al punto di aggredirlo fisicamente (ma c’è un largo tavolo fra i due, nonché la presenza dell’amante, madre del ragazzo).

4 In List è piuttosto lunga, mentre in Introduction (quando il ragazzo incontra la ex-fidanzata sulla spiaggia, e lei gli racconta della sua malattia agli occhi e di come le sia venuta dopo averlo lasciato per sposare un altro) dura assai meno, oltre ad essere meno apertamente dichiarata la sua natura onirica.

5 Una situazione simile ha luogo in un altro film di Hong Sang-soo, In another land, quando il regista, adducendo motivazioni piuttosto inconsistenti, prova a scroccare un bacio a Isabelle Huppert, suscitando l’ira della moglie incinta.

Due ragazze in nero

Ieri sera ho scaricato da un sito internet, quasi impulsivamente, un film greco del 1956, per me del tutto nuovo, mai visto, e di cui neppure avevo mai sentito parlare. Lo avrei visto dopo cena, come faccio praticamente tutte le sere (intendo vedere un film in dvd). Ben presto, è comparsa la giovane donna da cui il titolo del film (Una ragazza in nero), impersonata da un’attrice greca che non avevo mai visto prima. Mi ha subito colpito la sua forte rassomiglianza con una giovane donna – già mamma di un bimbo che dovrebbe avere al massimo due anni – che da qualche mese è venuta ad abitare proprio qui davanti, con l’altrettanto giovane marito. Inizialmente mi aveva colpito, non so bene per quali motivi, anche se direi soprattutto per l’espressione quasi sempre seria, pensierosa, e nello stesso tempo altera, su un viso interessante. Mi ero fatto l’idea che non fosse felice della sua nuova casa, e mi sembrava che il suo rapporto col marito non fosse sereno, ma chissà, ci potevano essere chissà quali altri motivi. Lui sempre premuroso, pieno di attenzioni, sempre in movimento, portando a casa la spesa, oppure il bimbo a passeggio, spesso con il loro cane nero, peloso, tranquillo (mai sentito abbaiare, quando qui intorno ci sono decine di cani, quasi tutti piuttosto nevrotici e rumorosi). Ma negli ultimi tempi lei sembra più serena, le amorose attenzioni del marito (un tipo magro, sembra anche un po’ più giovane di lei), che a volte ho colto mentre, per strada, la accarezzava, suscitando in lei un certo imbarazzo, ma anche piacere, ovvio, piano piano stanno avendo successo, e la si vede più distesa e meglio disposta al sorriso e alla benevolenza di lui nei suoi confronti, più serena in generale.


Anche la ragazza del film è seria, e molto triste, la vita le ha già procurato molti dispiaceri, è disillusa, rassegnata. Ma il giovane ateniese – uno scrittore – venuto in vacanza a Hydra con un amico la nota subito, e cerca di starle appresso il più possibile, sfruttando ogni minima occasione. Il film era così così, ma anche percorso da diversi colpi di scena, quindi non noioso. E ogni volta che la mdp inquadrava lei, il mio pensiero andava sempre all’altra, la giovane mamma che sta qui vicino, per la loro somiglianza a tratti veramente incredibile. Tutto comunque si volge al meglio, alla fine si aprono inaspettate e luminose prospettive, dopo una tragedia che coinvolge l’incolpevole scrittorello ateniese: la ragazza in nero, attraverso l’amore – mai provato prima – riesce a uscire dalla sua apatia, coinvolgendo lui stesso, che finalmente sembra deciso a prendere sul serio la sua vita, dividendola con lei. Ora, al di là della storia – o delle storie, perché ci sono diverse sottotrame che si intersecano con quella principale, della storia d’amore fra i due – io ero anche interessato al luogo, l’isola di Hydra, non lontana da Atene. Soltanto stamattina, mentre cercavo notizie sul film, ho capito che questo nome mi era già noto, anche se ieri sera non me ne ero reso conto. A Hydra visse a lungo, sia consecutivamente sia ritornandoci ogni tanto, Leonard Cohen quando aveva dai 25 anni in poi, e lì conobbe Marianne, la norvegese che ispirò poi la celeberrima canzone, instaurando con lei quella che davvero pare una grande storia d’amore, protrattasi ben oltre la loro separazione, dato che rimasero sempre in contatto, scrivendosi spesso, e vedendosi ogni tanto, fino alla morte di entrambi, nel 2016, a distanza di pochi mesi l’uno dall’altra (lei a luglio, lui a novembre). L’incontro fra i due (descritto da lei stessa in modo alquanto icastico, affascinante1) ebbe luogo nel 1960, circa cinque anni dopo le riprese del film, quindi sicuramente – a quei tempi i cambiamenti erano ancora molto lenti, se non assenti – era tutto uguale come lo vediamo nel film, le strade in salita, lastricate in pietra, le case bianche, il cielo terso, e le persone (molti i bambini), con i cori degli uomini nelle taverne, lo stesso mare limpido e dalla colorazione intensa.

(testo scritto lo scorso 27 giugno)

1 Curiosamente, l’apparizione di Cohen sulla soglia del negozio dove lei si trovava in quel momento, piangendo sconsolata, ricorda moltissimo quella dell’ufficiale russo – ovvero Bruno Ganz – all’inizio della Marchesa von… di Rohmer (da Kleist), che lo vede così, anche lei come Marianne, per la prima volta.

Kiarostami, infine

Qualche sera fa ho visto, per la prima volta, 24 Frames, l’ultima opera di Kiarostami, uscita postuma un anno circa dopo la sua morte. Non ne sapevo granché, ma pensavo a qualcosa di simile, o di analogo, a 51, di qualche anno precedente, che avevo apprezzato, soprattutto l’ultima parte, quella di più complessa realizzazione, mi era molto piaciuta. Ma già subito, leggendo la breve introduzione al film dello stesso K., intuivo che non era come pensavo, tutt’altro, e il primo dei 24 frames mi toglieva ogni dubbio. Fra l’altro, la sua posizione all’inizio mi sembra un gesto di cortesia, perché ci mette subito sull’avviso: così come parti del celebre quadro di Pieter Bruegel il Vecchio, Cacciatori nella neve, iniziano, inopinatamente, ad animarsi, tutto quello che verrà dopo, anche quando non si direbbe, ebbene, anche quello è ‘falso’, o ‘falsificato’, grazie all’utilizzo (a quanto si sa, da parte di tecnici esperti che avranno messo in pratica le indicazioni del regista) di sofisticate tecnologie digitali. Già questo particolare basta a spiazzarmi e a mettermi in una cattiva disposizione: Kiarostami, il maestro della semplicità e della leggerezza, che ha fatto i suoi film più belli e più famosi, negli anni ’80 e ’90, con troupe ridotte all’osso, girando sempre all’aperto, in bilico fra realtà e finzione (ma quest’ultima agita da non-attori, che così creavano, senza neppure averne l’intenzione, un nuovo livello ibrido fra le due diverse dimensioni) alla fine della sua carriera, e della sua vita, fa un film tutto di effetti speciali digitali? Dove, col procedere dei vari frames, non si può essere mai sicuri di niente, e quel che pare assolutamente vero, autentico, quasi mai è tale, o forse sì, in parte, ma chi può dirlo? Perciò si è sempre sul chi vive, scettici e perplessi, difficile lasciarsi andare, come invece accadeva sempre con naturalezza, senza alcuno sforzo, in Dov’è la casa del mio amico?, E la vita continua, Fra gli ulivi, Close-up, ecc.
Tornando al quadro di Bruegel (che era già stato ‘animato’ da Tarkovskij in Lo specchio, nel 1974, ma con mezzi ‘naturali, connaturati alle potenzialità della macchina da presa, semplici dissolvenze in fase di montaggio) a me ha lasciato quasi sgomento vedere il fumo uscire dai camini delle case, e poi udire suoni e rumori, mentre qualche animale si spostava all’interno del quadro… voleva forse scherzare, il nostro eccelso Kiarostami? e a che pro?

Tralascio di proseguire nella disamina di questo film, tutto basato su fotografie dello stesso autore, che aveva deciso valesse la pena ‘animare’, per fare vedere “il prima e il dopo dell’inquadratura” (parole sue, dall’introduzione). A me sembra un’idea risibile, come se ne possono avere a volte, magari prima di prendere sonno, a letto, e poi il mattino dopo, ritrovata la lucidità e la freschezza, vengono cestinate, preferibilmente senza parlarne con nessuno, per un sopraggiunto senso di pudore… Insomma, non considero 24 Frames un’opera riuscita – e date le premesse, forse non poteva esserlo – anche se è realizzata si può dire alla perfezione, tecnicamente parlando. E anche qui emerge una stranezza, se si pensa che tutti i suoi migliori film dal punto di vista tecnico non erano proprio perfetti, ma anche perciò, forse, avevano una freschezza e una naturalezza che qui latitano si può dire dall’inizio alla fine del film. Ma tant’è, il film c’è, è stato pubblicato, dopo essere stato completato (e già qui sorgono molti pensieri), dopo la sua morte, dai suoi collaboratori; gli stessi che, a quanto ho potuto apprendere, hanno selezionato i cortometraggi, lasciandone fuori parecchi altri, e stabilito anche l’ordine in cui appaiono. Mi stupisce un po’, peraltro, che moltissimi abbiano preso terribilmente sul serio questa strana opera postuma (perché di questo si tratta) di Kiarostami, scrivendo saggi anche estesi, e concettosi, che si avventurano a formulare una pletora di supposte intenzioni dell’autore, sforzandosi in tutti i modi di collocare 24 Frames all’interno dell’opera omnia di K., quasi un suo coronamento. Ma i critici, si sa, devono fare il loro lavoro, prendono sempre tutto sul serio e riescono a trovare ovunque aspetti, sottostrati, intenzioni anche le più improbabili, attingendo a livelli di vertiginosa complessità, e infarcendo ognuno il proprio saggio di una pletora di citazioni dotte, come a voler chiudere la bocca agli scettici che abbiano la ventura di leggerli.
A me pare che l’ultima fase creativa di Kiarostami, pur essendo lodevole il suo intento di cambiare un po’ per non rischiare di diventare la caricatura di sé stesso, mostri, riconsiderata dopo qualche anno, non pochi segni debolezza, e non basta, a mio avviso, che egli abbia un po’ pudicamente apposto la ‘pecetta’ del termine “sperimentale” su alcuni di essi, come per giustificarsi e nello stesso tempo collocare questi tentativi in un’area diversa rispetto alle sue opere più riuscite e più importanti. Insomma un po’, come dire, fuori concorso, per sottrarle a un giudizio troppo severo, che non sopporterebbero facilmente (ciò di cui forse era consapevole).
Il primo fu il controverso (vedremo perché) 10, che sembra un tipico film di K., con tutte quelle conversazioni all’interno di un’auto, cifra di tanti suoi film, epperò… Già la protagonista di tutte le varie scene era un’attrice-regista, anche attraente, fra l’altro, e certe situazioni (ad esempio la discussione fra lei e il figlio, figura alquanto indisponente, va detto, come mai accaduto prima in alcun film di K.) mi erano da subito parse strane, come artificiose, si intuiva qualche discrepanza rispetto a prima proprio nella scelta dei personaggi, in diversi casi protagonisti di situazioni affatto insolite per questo autore. E infatti… soltanto recentemente sono venuto a conoscenza della sgradevole querelle fra l’attrice-regista e Kiarostami, del fatto che tutto (o quasi tutto) il materiale era già stato girato da lei (incidentalmente, applicando una delle più tipiche modalità di K., due persone che dialogano su un’auto, l’autista e il passeggero seduto accanto a lui), quindi dallo stesso utilizzato, con l’approvazione di lei, per mettere insieme il film nella sua forma definitiva. Non mi pronuncio sulla questione, ci mancherebbe, oltretutto me ne mancano i necessari strumenti, so giusto qualcosa, e inoltre K. è morto prima che che la signora denunciasse al mondo la sua scorrettezza, quantomeno, dato che avrebbe utilizzato il suo girato, manipolandolo in parte, senza darle il dovuto credito. Addirittura, il regista l’avrebbe anche violentata, o quantomeno molestata due volte (un copione che si ritrova in molte denunce, non tutte credibili, fatte soprattutto da donne molti anni dopo i fatti, incoraggiate dal vento del me too, cosiddetto). Insomma, una storia sgradevole che avrei preferito non sapere, ma che mi conferma nella mia sensazione che qualcosa di poco chiaro sottostasse a 10, facendomelo piacere meno di molte altre sue opere.

Quando, dopo le normali vicissitudini che incontra chiunque (ma soprattutto chi si addentra in territori ancora inesplorati), le incomprensioni, le frustrazioni che vi sono connesse, eccetera, finalmente si viene accettati, quindi elogiati, premiati e acclamati, allora viene il difficile. Soltanto elogi ora, quasi nessuno trova più niente da ridire, non si fanno più critiche e quei pochi che ci provano rimangono inascoltati, ignorati, quando non zittiti, quasi come bestemmiatori. Così può diventare veramente difficile per un autore rendersi conto se quel che sta facendo merita veramente, e se per caso non abbia fatto qualche grave errore. Proprio perché nessuno si azzarda a farglielo notare, ora sono tutti impegnati ad elogiare e acclamare, prima ancora di vedere e considerare.

1 5, o Five (anglicizzato come un po’ tutto ovunque, questi sono i tempi che ci tocca vivere…), spesso viene ampliato con l’aggiunta di Dedicated to Ozu. Non metto in dubbio che sia vero, certamente K. doveva avere un’alta opinione di Ozu, ma mi fa strano che la dedica divenga parte del titolo, appesantendolo con una caratterizzazione che a me pare un po’ forzata. Ma è così, questa è l’epoca della semplificazione e volgarizzazione spinte all’estremo, il secco, il conciso – come appunto può apparire un titolo fatto di una sola cifra numerica, non vanno bene, bisogna dare un aiutino ai poveri di spirito, e soprattutto ai frettolosi, che sennò saltano altrove – mentre smanettano sul proprio smartphone – in un nanosecondo, e non li becchi più.

La fine di Papet

Siamo verso la fine del film. Sappiamo già che il vecchio César (“Papet”) ha praticamente deciso di lasciarsi morire, prostrato moralmente e fisicamente da due eventi terribili. Prima, la morte del nipote, che si è impiccato, poi una rivelazione sconvolgente fatta da una vecchia amica, cieca, che lo ha annichilito, costringendolo a ribaltare tutto il suo sistema di giudizi, mettendolo di fronte all’inutilità e allo scialo di un’intera vita, proprio quando è ormai giunto alla sua fine. La sua domestica – sordomuta – sta preparando il caffè del mattino, appresta un vassoio con tazze e quant’altro, per portarglielo in camera da letto (da giorni ormai non usciva quasi più, e aveva già chiamato il prete al suo capezzale, per confessarsi). La donna percorre la casa ancora in penombra fino ad arrivare alla camera del vecchio, dove regna il buio fitto. Noi siamo già lì, siamo in quel buio quando la porta si apre e la donna – che ancora non si vede, immersa nel buio – entra nella stanza, silenziosa e leggera mentre si dirige verso la finestra, la apre, spalancando con un gesto non troppo brusco le ante, e subito si odono canti di uccellini venire da fuori – prima non era possibile, finestra e scuri di legno chiusi lo impedivano. Immediatamente dopo si gira verso César, lo guarda – ma noi l’avevamo già visto, prima di lei –, è disteso sul letto, vestito di tutto punto, con la mano destra sul petto e la sinistra distesa al suo fianco, stringendo qualcosa. La donna, un attimo dopo aver rivolto lo sguardo verso il letto, si blocca, ha intuito qualcosa, perciò si dirige verso il vecchio, per sincerarsi – anche se ha già capito, e sembra avere sempre meno dubbi mentre procede, lentamente, con cautela. Si ferma allora nei pressi del letto, sempre fissando l’uomo, ora dall’alto, e in quel momento di stupefacente, fugace intensità – il più intenso e arrestante di tutto il film, di tutti e due i film1 – udiamo il canto di un gallo, là fuori.
Un attimo dopo – ora non ci sono più dubbi, César è morto – la muta sfiora il viso del vecchio con un gesto di dolcezza e di pietà, e intanto la mdp, che era rimasta ferma, inizia una zoomata molto lenta sul braccio sinistro del vecchio fino alla sua mano, che vediamo infine in primissimo piano, a riempire quasi lo schermo. È per farci capire che essa stringe un pettine da donna, quel pettine, sempre conservato per cinquant’anni, che rappresenta tutta la sua vita come avrebbe potuto essere, piena e felice, e anche, per contrasto, quella che invece è stata, arida, avvelenata da avidità e cattiveria, la vita di un uomo spietato e crudele fino al punto di distruggere sé stesso e il suo (apparentemente) unico erede, che pure amava.
La seconda parte della sequenza, in cui la mdp si avvicina, zoomando, alla mano, è accompagnata da una musica che nasce così, proprio dal nulla2, in contrasto col profondo silenzio precedente, e ci rivela un particolare tutto sommato quasi pleonastico, a paragone di quanto accade subito prima. Quel pettine stretto nella mano non ci turba, non ci tocca con la stessa intensità di quel momento in cui abbiamo udito il canto del gallo (un canto breve, simile a un’esclamazione rituale) proprio quando la muta sta per toccare César – toccando la morte. È come un’aggiunta, una nota a piè di pagina, certamente utile e pregnante, ma assai meno intensa e meno profonda della prima parte. Ha anche, io credo, una funzione distensiva per i sensi dello spettatore, dopo l’intensa attenzione esercitata appena prima, spiando la scena fino al momento in cui si raggiunge l’acme – della stessa sequenza e dell’intero film, pur essendo del tutto dissimile dal resto, un’oasi di pace in un paesaggio sempre concitato. Quando, per poco meno di un minuto, siamo rimasti trattenendo il fiato in ascolto di quel lungo silenzio interrotto, e fortemente drammatizzato, dal breve canto venuto da fuori.

1: Manon des sources, questo, e la prima parte, Jean de Florette, di Claude Berri.
2: E proprio quando la zoomata sta arrivando al suo termine udiamo, addirittura, l’armonica che suonava Jean de Florette, quello che César scoprì, troppo tardi, essere suo figlio naturale. Un momento davvero debole, di un sentimentalismo piuttosto banale, e incongruente con la prima parte del tutto priva di musica, in cui udiamo soltanto pochissimi rumori ambientali e il canto degli uccellini prima e del gallo poi.

Nagareru

Nagareru, tradotto, penso appropriatamente, come Flowing [scorrere, corrente, flusso] nel titolo inglese e Au gré du courant in quello francese [direi ‘secondo – o seguendo – la corrente’]1, è un film di Mikio Naruse del 1956. Come spesso accade nei film di questo autore, si vedono quasi soltanto donne – in questo caso tutte attrici molto importanti nella storia del cinema giapponese – mentre gli uomini compaiono, sì, ma brevemente, e senza mai assumere una parte determinante per lo sviluppo della storia. Ovvero, chi determina, o ha determinato svolte decisive per ognuna delle donne o non appare, ed è soltanto evocato, oppure appare ma brevemente, e quasi sempre – fatta eccezione per il gentile Saeki, che sembra affascinato dalla protagonista, Otsuta, e anche blandamente interessato alla figlia di lei, Katsuyo – portando una nota sgradevole. E sono il rozzo e brutale zio della fuggiasca Namie, il fatuo e irresponsabile marito (separato) di Yoneko, che non degna neppure di uno sguardo la figlioletta ammalata a letto, ma si sgrava la – assai labile – coscienza – consegnando alla moglie qualche medicinale imprecisato, un gesto impudente e miserabile; oppure il ricco signore che vorrebbe posare le zampe sulla non più giovane ma ancora affascinante geisha, uomo di una bruttezza laida, che quando sorride mostra una dentatura da squalo. A non apparire sono l’ex-marito di Otsuta e padre di Katsuyo, che pure qualche responsabilità sulle disgrazie della ex-moglie deve avere (se ne accenna all’inizio, in un dialogo fra lei e la sorella più anziana) e un ex-amante, Hanayama, persona peraltro, apparentemente, abbastanza positiva, che si interessa ancora di lei pur essendone stato lasciato (anche se poi manca all’appuntamento, dopo che lei, con molta riluttanza, aveva acconsentito a rivederlo sperando in suo aiuto economico).


Il luogo in cui si svolge la maggior parte del film è la casa di geishe gestita da Otsuta, ormai in declino e gravata da un’ipoteca (accesa con la sorella, avida e prosaica, sempre sprezzante nei confronti della sorella minore: decisamente odiosa) e sempre meno frequentata, tanto che le geishe, da sette che erano, si sono ridotte a tre, una della quali, Someka, è avanti con gli anni e non molto attraente. La figlia di Otsuta vive con la madre, anche lei nella casa anche se non fa la geisha, una professione che disprezza, anche se ci aveva provato, una volta, ma desistendo subito, per assoluta mancanza di interesse e soprattutto di passione. Interpretata dalla ben nota Hideko Takamine (questo è uno dei nove film di Naruse in cui compare), la ragazza è perennemente corrucciata, si strugge per il destino della madre, che vorrebbe convincere a lasciare la professione, ma sa bene che lei non lo farebbe mai, essendo quella la sua vita da sempre, oltretutto una brava geisha, soprattutto come suonatrice di shamisen e cantante. Katsuyo non sembra avere grandi qualità – pur essendo sicuramente attraente – è piuttosto irresoluta, vorrebbe aiutare la madre, verso cui ha sempre un atteggiamento protettivo, ma non sa bene come fare, e alla fine si risolve, nonostante il netto diniego della madre, che la trova una scelta indegna di lei, a diventare una cucitrice, e la vediamo curva sulla macchina da cucire al piano di sopra, presenza incongrua e stridente (anche per il rumore, discorde rispetto alle note dello shamisen) in quella casa. Ha nostalgia del padre, vorrebbe andare a trovarlo dove vive, fuori Tokyo, ma poi desiste, anche perché la madre la convince, senza neppure grande sforzo, dell’inutilità del gesto – che probabilmente, negli intenti della figlia, tenderebbe a provocare un’impossibile riconciliazione fra i due.


Un altro personaggio molto interessante, e che infatti apre il film, con il suo arrivo nella casa dalla campagna, è Rika (poi ribattezzata – deliberatamente, come vedremo – Oharu dalla patronessa della casa. Pur venendo da due tragedie recenti e ravvicinate nel tempo, che hanno completante stravolto la sua vita (le sono morti prima il marito e poi la figlioletta) ha una stupefacente serenità nei modi e nell’espressione del volto – sia pure sempre velato da una quasi impercettibile tristezza, soprattuto nello sguardo – che le consentono così di conquistare subito sia la padrona sia le altre donne presenti nella casa. Viene infatti assunta come domestica, un ruolo umile che lei però svolge con una dedizione, una gentilezza di modi, davvero una nobiltà d’antan, da farla diventare una presenza importante in quel luogo. Che è abitato da persone tutte variamente afflitte da numerose negative esperienze, da cui sono uscite sempre sconfitte, quindi piene o di amarezza o di nostalgia per un benessere un tempo ambito ma mai realmente provato, anche se una certa vaga attitudine a sognarlo ancora rimane, soprattutto in Otsuta. Rika non è più molto giovane, ma le sue doti umane – fra le quali predominano l’umiltà e l’empatia per chi le sta vicino, e che cerca in ogni modo di aiutare, sono davvero rare, eccellenti al punto da renderla interessante per chiunque viva nel quartiere e la incontri ogni tanto per strada. L’attrice che interpreta questo personaggio è Kinuyo Tanaka, molto famosa in Giappone (fu anche regista), soprattutto per i suoi ruoli nei film di Mizoguchi, fra i quali, appunto, Oharu nel film omonimo, che riesce ad esprimere appieno la natura di questa bellissima persona, una specie di angelo sia pure con limitati poteri, un po’ come quelli dei film ‘berlinesi’ di Wenders. La stessa attrice che interpreta Otsuta, Isuzu Yamada, una star del cinema giapponese già a partire dagli anni ’30, vista anche in un film di Ozu, il tristissimo Crepuscolo a Tokyo, è molto brava. E sempre brava, nella parte di Someka, Haruko Sugimura, che chiunque abbia visto almeno tre o quattro film di Ozu riconoscerà subito, anche perché i suoi personaggi si somigliano sempre molto fra loro, come se lei fosse davvero un po’ così, un misto di superficialità, vitalità prorompente e quasi volgare, e dei modi spesso obliqui, che fanno intendere macchinazioni segrete e poco rassicuranti dietro il suo largo sorriso. Ma più o meno tutte (a parte ovviamente Sugimura, quasi una Magnani giapponese…), compresa Takamine, recitano con semplicità, quasi con sprezzatura, e con minime variazioni dell’espressione facciale, abbastanza però per far intendere rivolgimenti interiori anche molto profondi.


La fine del film – che procede agilmente e senza mai troppi rallentamenti, grazie a un superbo montaggio – è veramente malinconica, e nella sua intensità ed efficacia credo dia a tutto il film, conchiudendolo in modo mirabile, caratteri di grandezza, tali da renderlo probabilmente uno dei migliori fra i moltissimi girati da Naruse. I nodi, come si dice, si sciolgono: l’altra sorella, Ohama, ex-geisha e patrona di una casa ben più efficiente, molto più prosaica di Otsuta, più scaltra e avveduta, scopre le sue carte, sempre ben dissimulate durante tutto il film fino a quel momento, e rivela a Rika-Oharu i suoi veri intendimenti. Dopo aver acquistato la casa, dicendo alla sorella che avrebbe potuto continuare a dirigerla, finalmente libera dall’assillo dell’ipoteca, la trasformerà in un ristorante, ma senza coinvolgere la sorella nell’impresa, ritenendola inadatta. La furba imprenditrice convoca la domestica-tuttofare a casa sua per offrirle di dirigere lei il locale, dopo essersi resa conto delle sue molte qualità e ritenendola adatta a tale impegno. Oharu immediatamente si rattrista, il suo solito sorriso quasi si spegna, e dopo aver capito che prenderebbe il posto di Otsuta, chinando il capo in segno di umiltà, declina l’offerta, suscitando una breve reazione di stupore in Ohama, che però abbozza.
Tornando a casa, annuncerà prima a Katsuyo il suo ritorno al paese in campagna, motivandolo con ragioni di famiglia piuttosto vaghe, poi vorrebbe dirlo anche a Otsuta, ma non può, perché in quel momento, interrompendo una lezione a due giovani allieve, la padrona, accompagnata da Someka, entrambe allo shamisen, canta un’antica, classica canzone (le cui parole purtroppo non sono tradotte nel dvd francese che ho visto). Sono entrambe profondamente ispirate, rapite e come in trance mentre emettono quei suoni così poetici, arcaici, e hanno gli occhi chiusi, come assorte in un’esperienza di tipo quasi soprannaturale che evidentemente le trasporta in un passato lontano. Le due allieve sono a loro volta rapite, assistono alla scena immobili e in assoluto silenzio, seminascoste da un tramezzo, per non turbarla. E la stessa Oharu, con la sua proverbiale, innata discrezione, si tiene in disparte, mente guarda e ascolta. C’è uno stacco di montaggio molto significativo, e molto chiaro, quando vediamo, al piano di sopra, la figlia china sulla macchina per cucire mentre lavora. La vediamo di spalle, evidentemente non si cura della performance al piano di sotto, neppure la può ascoltare, perché il rumore meccanico, ripetitivo della macchina copre quei suoni: la prosaicità ottusa e spietata della modernità che travolge la poeticità effimera e lieve del canto e dei suoni. Così Naruse dimostra chiaramente come le due geishe, appartenenti a un mondo in via di estinzione, siano destinate a soccombere e sparire a loro volta. Mentre la figlia di Otsuta, che si è arresa, in qualche modo andrà avanti, a sua volta sempre soffrendo, ma senza il sostegno e il balsamo della poesia e dell’arte, che le sono precluse. Poco prima, durante il colloquio con Saeki, camminando lungo la riva del mare (un momento ricorrente in ogni film di Naruse – almeno quelli che visto io, una decina forse – una sua cifra stilistica, si può dire) la giovane aveva dichiarato, con un tono rassegnato e mesto, la sua missione di vita: prima di pensare a se stessa, a sposarsi (come lui le ha chiesto) trovare al più presto un lavoro che le permetta di mantenere se stessa e la madre, convinta, non a torto, dell’inadeguatezza di quest’ultima alla società così come si stava rapidamente evolvendo, e alla quale non potrebbe mai adattarsi, neppure volendolo.

1 In verità il termine può significare anche ‘spazzar via’, quindi ‘spazzato (o spazzati/e) via’, ed è forse questa l’accezione più pregnante in questo contesto.

(ho visto questo film la sera di venerdì 10 marzo 2023)

Drogo a Arg-e-Barm

Il Deserto dei Tartari è l’ultimo film di Valerio Zurlini, l’ho visto diverse volte, l’ultima poche sere fa, in una versione recentemente restaurata, scaricata da un sito online. Ci sono alcune differenze, ad esempio brevi parti della versione francese evidentemente tagliate in quella italiana, e il film risulta più lungo. La parte, all’inizio, in cui si vede Drogo uscire dalla città accompagnato da un amico – entrambi sono a cavallo – me la ricordavo meno di tutto il resto, mi è sembrata un po’ diversa, in parte nuova per me, e credo anche che quando lo si vede da lontano, ormai solo, e sullo sfondo si vede un castello sulla cima di una collina, quella sia una sequenza a sua volta assente dalla versione italiana a me nota. Ne sono abbastanza convinto anche perché le altre volte non avevo mai notato (quanto meno non me ne ricordo) una somiglianza piuttosto accentuata con la parte del Nosferatu di Herzog in cui Harker-Ganz esce a cavallo dalla città per andare in Transilvania. Anche là, come qui, il protagonista lascia la sua città, e la civiltà, per andare verso luoghi sempre più selvaggi e aspri, intraprendendo un viaggio nello spazio ma anche nel tempo dal quale non ritornerà (Drogo) oppure tornerà ma radicalmente mutato (Harker). Il film di Herzog uscì nel 1979, tre anni dopo quello di Zurlini1.
Io non ho mai letto il libro di Buzzati, pubblicato nel 1940, anche se so che il film, per diversi aspetti, se ne discosta: inevitabile, trattandosi di un altro medium, con regole molto diverse, dovendo anche fare i conti con problematiche di tipo produttivo. Nel corso del tempo, diversi tentativi, da parte di registi come Antonioni, ad esempio, oltre a Sautet, Lean e Jancsó, fallirono, soprattutto per la difficoltà di trovare il luogo, la fortezza Bastiani (curiosamente, Bastiano nel film). Finché negli anni ’70 del secolo scorso Jacques Perrin, attore francese noto in Italia (e già protagonista di ben due film di Zurlini, sui soli otto girati dal regista), diventato poi nel tempo, e sempre più, un produttore – nel senso più pieno e autentico del termine – si interessò al progetto, occupandosene poi attivamente, e forse proprio grazie a lui emerse, finalmente, il nome di Arg-e-Barm, antichissima cittadella in Iran, tutta costruita in adobe, ancora esistente, sia pure diroccata, ai piedi della imponente fortezza che sarà il set principale del film. Una scoperta definita “fortunosa”, ma determinante, perché un luogo simile, immaginato da Buzzati, non esisteva realmente e non si sarebbe certamente potuto creare dal nulla. Anche i dintorni stessi, le montagne che sempre si vedono sullo sfondo, ci dovevano assolutamente essere, per dare un’idea veramente convincente della Fortezza Bastiani. Che realmente domina il film, protagonista al pari, al meno, di Drogo, e anche più degli altri personaggi, più in secondo piano rispetto a lui, come il capitano – poi maggiore – Ortiz, il tenente Simeon – che sarà l’ultimo comandante della fortezza, dopo Ortiz e Filimore – il tenente Hamerling, il medico dottor Rovine [sic]. Tutti, in modi diversi, sono dapprima respinti, poi ammaliati, infine avvinti irresistibilmente dal luogo, insieme ostile e stregante; addirittura uno di loro, Ortiz, non potrà far altro, una volta ricevuto il comando di trasferimento, e sulla via del ritorno ‘alla normalità’, che uccidersi con un colpo di pistola.
Gli attori sono quasi tutti di alto livello, e molto presenti nelle produzioni di spicco di quel periodo: il viscontiano Helmut Griem, il già bergmaniano Max Von Sidow, il grande Laurent Terzieff, che lavorò con molti dei più importanti francesi, oltre a Rossellini, Pasolini e Bunuel, i due bunueliani si può dire per eccellenza Fernando Rey e Francisco Rabal, infine Philippe Noiret (che si limita, come generale, a visitare brevemente la fortezza, dove rimane una sera a cena con tutti gli ufficiali) e Vittorio Gassman. Quest’ultimo riesce – non si sa se spontaneamente o se contenuto dall’autorità del regista – a rimanere al di qua della consueta esuberanza, manifestata spesso e volentieri nei film della cosiddetta commedia all’italiana, non di rado tracimante fino ad essere incontenibile e fastidiosa, e si limita qui a espressioni misurate e a battute pronunciate a mezza voce, quasi distrattamente. Anche se, a ben vedere, il suo linguaggio del corpo talvolta tradisce un po’ la sua natura di ‘mattatore’, come veniva chiamato… ma chiedergli di dissimulare anche quella parte della sua recitazione era evidentemente troppo. E comunque, nessuno di questi personaggi, interpretati tutti da eccellenti attori, a partire dallo stesso Perrin, può fare a meno di soccombere, ognuno di loro è sovrastato, schiacciato dall’atmosfera opprimente e pervasiva della Fortezza Bastiani, dalla sua misura di tempo immobile e apparentemente eterno, a fronte dell’ineluttabile brevità e debolezza delle loro vite umane.

C’è un’altra parte che emerge, sia pure brevemente, ma con forza e nitore, nella parte centrale del film: Lazare, il soldato che a un certo punto scompare, misteriosamente, per riapparire d’improvviso in piena notte, quando arriva sotto le mura della fortezza, tenendo alla briglia il cavallo bianco che poco prima, con la sua apparizione, aveva tanto inquietato Drogo e il maresciallo Tronk (Rabal). Già qualche minuto prima si era colta sul suo volto, fugacemente, una strana espressione, indecifrabile e allusiva a qualcosa che non sappiamo – non ancora –, poco dopo l’episodio del cavallo. A me pare che Zurlini abbia volutamente conferito a questa parte qualcosa di ineffabile e inquietante, e non so se nel libro di Buzzati – che non ho ancora mai letto – questa accezione del personaggio sia presente. Così, quando Lazare riappare davanti al forte, instillando subito in Tronk e nella sentinella il dubbio, se davvero sia lui, oppure, se è lui, come pare evidente, perché si comporta così, cosa nasconde? Quei pochi secondi in cui la sentinella e Tronk si guardano in silenzio (e gli occhi del maresciallo, che rimane muto e immobile, sono palesemente terrorizzati) mi hanno colpito, trovo che siano fra i più intensi, se non i più intensi di tutto il film. Succede l’irreparabile, perché non c’è alternativa, il regolamento, sempre applicato con estremo rigore in quella guarnigione fuori del tempo e dal mondo, non lascia alcuna alternativa. Ma i due sanno, soprattutto Tronk sa che stanno per compiere un assassinio, sia pure inevitabile, costretti a farlo. Pure, a me sembra che la regia abbia – magistralmente – saputo infondere in quella figura fantasmatica apparsa nella notte davanti alla porta di accesso al forte, qualcosa di soprannaturale, come se non fosse in realtà lui, Lazare, a rivolgersi alla guardia notturna con parole e voce familiari. Ma il colpo di fucile è infallibile, e i soldati accorsi vicino a lui, esanime al suolo, non potranno fare altro che riconoscerlo, è lui, in quel momento, ormai morto.
Ho trovato affascinante anche la parte della della spedizione in alta montagna, sotto la tormenta di neve, con Terzieff-Hamerling che va incontro, barcollando ma anche impavido, e sorridente, al suo ineluttabile destino: è in testa alla fila dei soldati che procede lentamente sprofondando nella neve, e scompare ben presto nella tormenta, come scompariranno tutti quelli che lo seguono, al termine di una lunga sequenza.

A proposito di Arg-e-Barm, avevo appreso il suo nome, e dell’importanza decisiva che aveva avuto per il film (che altrimenti non si sarebbe mai fatto) soltanto pochi anni fa, e avevo aggiunto il luogo alla lista di quelli in cui sono stati girati alcuni dei film più importanti per me. Alcuni li ho già realmente visitati, quasi sempre per puro caso – Hanging Rock, Bagno Vignoni, Stromboli, e certi angoli di Parigi, o della Bretagna – ma in molti altri non sono ancora mai stato, ad esempio in Spagna, nei pressi di Almeria, oppure nella Death Valley, o nel londinese Maryon Park, e nella stessa cittadella iraniana, sottostante al leggendario forte. L’ultima inquadratura del film, una scritta di tre righe bianche su fondo nero, mi ha informato, proprio l’altra sera, che non ci potrò mai andare, dopo il distruttivo terremoto di circa diciannove anni fa2.

Poche ore fa, scorrendo pagine Wikipedia dedicate al film di Zurlini e ai suoi personaggi e attori, ho scoperto, con sincero dispiacere, che Jacques Perrin è morto pochi mesi fa, in Francia, poco più che ottantenne. Lui era stato Drogo, nel film, e lui era anche stato – molto probabilmente – colui che scoprì l’esistenza di Arg-e-Barm, la perfetta Fortezza Bastiani, o Bastiano, senza di cui Il Deserto dei Tartari di Valerio Zurlini, il suo ultimo film, non sarebbe mai stato fatto, e nessuno lo avrebbe mai potuto vedere.


1 Va detto che Herzog rifece il film del 1922 di Murnau replicandolo in gran parte quasi scena per scena, con minime varianti; e mi par di ricordare che proprio l’uscita di Harker a cavallo dalla città sia pressoché identica.

2 In verità, il sito è stato in seguito ricostruito, per uno sforzo congiunto, e sicuramente lodevole, del governo iraniano e di altre realtà internazionali. Ma qualche immagine dei risultati ottenuti mi ha tolto ogni dubbio; sembra essere Arg-e-Barm, ma è tutt’altra cosa, e francamente escludo che ci potrei mai andare ‘in pellegrinaggio’. Proverei sicuramente una terribile delusione, quasi come trovarsi a Disneyland o in altri luoghi simili, al cospetto dell’imitazione di un qualcosa che, o non esiste più, oppure c’è, altrove, ma di cui è appunto, nient’altro che una copia, anche troppo fedele.

Elogio di Francis Fredrick von Taschlein

Frank Tashlin ha diretto diversi film con Jerry Lewis, ma ancora prima aveva fatto (ossia diretto dopo averli disegnati) moltissimi corti animati delle serie Merrie Melodies e Loony Tunes, giustamente celebri. Questo background emerge spesso nel suo lavoro come regista di lungometraggi (feature films), che svolse nella seconda parte della sua carriera nel cinema, fra i primi anni ’50 e la fine dei ’60, soprattutto, appunto, nei film con Jerry Lewis. Recentemente ne ho rivisto uno,The Geisha Boy, in italiano, curiosamente, Il ponticello sul fiume dei guai1. Si nota, per prima cosa, la cura dell’inquadratura, che è sempre un po’ squilibrata, apparentemente, ma in realtà ben bilanciata, e pure, nello stesso tempo, quasi sbilenca, ripudiando ogni tentazione di simmetria e di staticità, e riuscendo così ad ottenere miracoli con il nuovo, per l’epoca, formato, con base decisamente più lunga dell’altezza, diversamente da ciò che accadeva con il 4:3. Il fulcro dinamico dell’azione non è mai al centro, oppure quando c’è – come l’inquadratura con il baule, alla fine – gli elementi di contorno (ammesso che abbia senso parlare di contorno nell’inquadratura tipica di questo autore) sono disposti in modo da ‘squilibrarla’, scongiurando così il rischio di avere un’immagine piatta e statica.
Poi, il colore di tutti gli elementi, costumi degli attori compresi, ovviamente: essi vengono scelti accuratamente, in modo da creare inquadrature vive, dinamiche, in cui l’attenzione non è ostinatamente costretta a dirigersi sull’attore protagonista, o sugli attori protagonisti2. Il film che ho appena rivisto, e molto apprezzato – una visione che mi ha veramente procurato un genuino piacere – è del 1958, e guardandolo, e notando questa caratteristica, ho subito pensato a certi film di Kaurismaki, come Nuvole in viaggio, L’uomo senza passato e altri, che mostrano chiaramente una particolare attenzione del regista nella scelta degli arredi e dei loro colori, molto simile a quella di Tashlin. Ma anche nei film a colori di Ozu (all’incirca negli stessi anni dei film di T. con Lewis), soprattutto gli ultimi, accade un po’ la stessa cosa; e mi viene ora in mente quel che ha fatto Bresson nei suoi film a colori, soprattutto Così bella, così dolce e L’argent.
Analogo il lavoro su tutti gli elementi che concorrono a formare un’inquadratura, scelti sempre con la massima accuratezza (anche qui, come gli stessi autori citati prima) e disposti in maniera tale da ottenere gli stessi effetti perseguiti con i colori; ovvero, essi tendono tutti ad assumere la stessa importanza degli attori, e contribuiscono all’ottenimento di quel certo effetto dinamico e di ‘sbilanciamento controllato’. C’è una scena che io trovo bellissima all’inizio di The Geisha Boy, quando Jerry si muove carponi lungo il corridoio dell’aereo, e mentre lui si vede sempre intero, o quasi, ogni tanto compaiono, in primo piano o dietro di lui, pezzi di corpi appartenenti agli altri passeggeri, tutti dormienti. Si vedono soprattutto gambe e piedi, qualche testa, e queste membra paiono staccate dai corpi a cui appartengono, quindi utilizzate dal regista per comporre l’inquadratura. È un po’ la tecnica del collage, e credo proprio che sia stata affinata da Tashlin nel suo lungo periodo di lavoro nel cinema di animazione, quando componeva le inquadrature, e quindi le sequenze, giustapponendo parti di personaggi e di cose, ognuna con un colore ben diverso, e scelto per combinarsi con gli altri senza appiattire l’immagine, bensì vivacizzandola3.
Talvolta – e sono momenti che mi hanno particolarmente elettrizzato l’altra sera – sono gli stessi abiti, o costumi, degli attori a prevalere sullo stesso, anche se si tratta del protagonista, che è poi Jerry Lewis, uno che davvero riempiva lo schermo e non poteva passare inosservato, calamitando tutta l’attenzione sulle sue mosse ed espressioni. Penso soprattutto a una sequenza (credo sia quella in cui si presenta al cospetto del maggiore, che lo scaccerà dalla tournée, dopo le tante sue, sia pure involontarie, malefatte) in cui Lewis indossa una stupefacente giacca rosso cupo in lamé, un capo veramente molto bello, al punto di attrarre irresistibilmente la mia attenzione, quasi ignorando l’attore.

Peraltro, Jerry Lewis è Jerry Lewis, campione della smisuratezza (peraltro, sospetto, appresa, o quanto meno coltivata proprio lavorando tante volte con Tashlin) e non può mai essere del tutto ignorato, neanche in un film come questo, esempio riuscitissimo della particolare metodologia di Tashlin, volta, come detto, a ‘democratizzare’ (ovvero, a ricomporla, appunto, ‘democraticamente’, senza quasi rispettare alcuna gerarchia precostituita, dopo averla destrutturata) ogni inquadratura, e quindi la sequenza di cui fa parte. Ma le sue smorfie e le sue movenze sono un retaggio del cinema muto – Lewis adorava Stan Laurel4, ne studiò ogni mossa di ogni suo film – così come la tecnica di Tashlin, con l’uso ricorrente della cosiddetta sight gag (una scena che fa ridere mostrando situazioni soltanto visive, spesso senza parlato)5 deriva a sua volta dal cinema muto oltreché dalle sue esperienze in quello di animazione. E anche perciò si può dichiarare, senza alcun timore, che questo è un grande autore cinematografico, insomma uno di quelli che riuscirono a liberare sempre più quest’arte dagli iniziali condizionamenti del teatro arrivando a definire le modalità stilistiche che sono sue proprie, del cinematografo, anche se tante e tante volte, nel corso della sua già lunga storia, ci fu chi volle ritornare a scimmiottare quel tipo di espressione, smettendo così automaticamente di fare vero cinema ma piuttosto del ‘teatro filmato’6.
Infine, non credo che nessuno si possa stupire sapendo che Jean-Luc Godard era un ammiratore veramente sfegatato del cinema di Tashlin (e poi di quello del suo allievo Lewis, i primi film che fece, all’inizio degli anni ’60), considerandolo un autentico maestro, sia pure ‘minore’, di quest’arte. E indubbiamente la sua maestria nella costruzione di ogni inquadratura, attraverso la scelta accurata, e mai banale, di tutte le componenti – collocazione degli oggetti e degli stessi attori, con una particolare attenzione nella scelta di tutti i colori, adozione di angolature di ripresa spesso inusitate – è innegabile, e salta particolarmente agli occhi in un film come The Geisha Boy.

1. Ma con ragione, essendo il celebre film di David Lean, Il ponte sul fiume Kwai, uscito nelle sale un anno prima, ripetutamente citato, in vari modi.
2. In questo modo essi vengono ‘declassati’ e portati al livello di tutti gli altri elementi, che diventano a loro volta protagonisti: una oggettiva ‘democratizzazione’ dell’inquadratura, e quindi dell’intera pellicola, con qualche comprensibile eccezione (se hai Jerry Lewis, o Bob Hope, nel tuo film, devi tenerne conto e dar loro comunque il giusto risalto).
3. Un altro evidente legame con il cinema d’animazione creato da Tashlin per molti anni, con le tante Merrie Melodies e Looney Tunes, è la presenza del coniglio bianco, utilizzato generosamente lungo tutto il film per creare situazioni tipiche di quel cinema. In molte di esse Harry sembra uno di quei personaggi, improvvisamente diventato ‘vero’.
4. Incidentalmente, Tashlin, agli inizi della sua carriera, ancora negli anni ’30, scrisse la sceneggiatura di un corto di Laurel and Hardy.
5. Anche in questo film esse abbondano, soprattutto molte di quelle in cui appare Harry, il coniglio – che poi si rivelerà essere una coniglia (“Hey, you’re not a Harry; you’re a Harriet!”).
6. Robert Bresson, in molte delle sue interviste (vedi Bresson su Bresson) batte su questo punto, sul cinematografo che non è teatro filmato, e deve essere realizzato in modo del tutto diverso, a tutti i livelli, compresa ovviamente la recitazione degli attori.

Come e perché ho scritto questi testi

Questo non è un libro sul cinema, nonostante la parola ‘film’ compaia nel titolo. E soprattutto, non nasce da un progetto, poiché non era mia intenzione fare qualcosa del genere quando iniziai, nel 20181, a scrivere, generalmente il giorno dopo aver visto un film, qualcosa sull’esperienza della sera prima, o di qualche sera prima, talvolta. Nel tempo, i testi si andarono pian piano accumulando, così da un certo momento in poi iniziai a pensare di raccoglierli per, infine, pubblicarli tutti insieme in un libro. Questa procedura è qualcosa di consueto per me, nel senso che non faccio mai realmente niente a partire da un progetto. Recentemente ho letto un libro che raccoglie tutte le interviste fatte a Robert Bresson (incidentalmente, uno dei maggiori protagonisti di questo libro, come chiunque lo abbia letto avrà potuto notare), il quale descrive spesso il suo modo di lavorare, con frasi come «Prima lavoro / faccio le cose, dopodiché penso», oppure «Non ho teorie, rifletto dopo il fatto. Prima faccio, e [poi] mi sorprendo». Ma forse quella che preferisco è «Un film dovrebbe essere qualcosa continuamente nascente. Una sorta di equilibrio si stabilisce nel corso del tempo». Ecco, Bresson descrive molto bene il mio stesso modo di fare le cose, un modo del tutto naturale, perché io sono così e non potrei agire diversamente.
In questo periodo, che copre all’incirca quattro anni, dal 2018 al 2022, questa consuetudine quotidiana è stata tale perché era la cosa che mi piaceva di più, e anche quella che mi riusciva di fare più facilmente, senza pensarci troppo, soprattutto senza troppi preparativi, e nessun tipo di compromesso. Per un insieme di circostanze, la mia vita era come se si concentrasse lì, in quell’ora e mezza circa, più raramente due ore o più, e tutto emergeva quindi, prima durante la visione, in modo inconsapevole, e dopo, scrivendone: pezzi della mia vita passata, riflessioni su altre cose che apparentemente non c’entravano molto col film, e poi, soprattutto fra il 2020 e il 2021, riflessi ed echi della mia vita in quel momento.
Credo che, dopo averci pensato per la prima volta, la convinzione che avesse senso pubblicare tutti – o quasi tutti – i miei testi su film che ho visto, sia nata, rafforzandosi sempre più con il passare del tempo, proprio quando mi accorsi che parlando di un film che avevo appena visto parlavo anche di me, della mia vita, soprattutto la mia vita in quel momento, senza peraltro esplicitare più di tanto questo aspetto. Infatti, quasi sempre, quando alludo a fatti che stavano avvenendo in quel periodo, e al loro effetto su di me, evito di descriverli con troppa chiarezza. Anche se io so, sapevo bene a cosa mi riferivo.
In massima parte quel che ho scrivo sui vari film è relativo a una visione solitaria, in casa mia, e non in una sala cinematografica (anche se emergono in alcuni testi, resoconti di visioni avvenute in quel contesto, risalenti a molti anni prima, generalmente). Sarebbe troppo lungo, e faticoso, spiegare perché ciò avviene, ovvero perché io non vada più, ormai da qualche anno, a vedere un film in un cinema. Ma è così, e dubito che in futuro ci sia un cambiamento; semmai, potrebbe accadere che veda meno film (al momento si può dire che non passi quasi mai una sera senza la visione di un film in formato video), se ad esempio la mia vita registrasse dei forti cambiamenti, ora come ora del tutto imprevedibili. Peraltro, l’intensità che segnava ogni esperienza di visione, e che mi spingeva a scriverne, ora, già da qualche tempo, si è un po’ affievolita, tanto è vero che l’ultimo testo, quello su Truffaut (i testi compaiono in ordine cronologico, perciò quello chiude l’antologia) risale, quasi esattamente, a quattro mesi fa [oggi è il 16 ottobre 2022, il testo risale al 17 giugno]. Dubito che ci sia mai stato, soprattutto negli anni di maggior frequenza dei testi – fra il 2019 e il 2021 – uno iato di tale ampiezza, e comunque, la mia sensazione è che difficilmente scriverò altri testi simili, in futuro. Ma poi chissà, non si può mai dire. Ad esempio un film rivisto ieri sera, un’opera considerata minore di Nicholas Ray, aveva alcuni momenti particolarmente intensi, sono tornato spesso a ripensarli, dopo averlo visto. Anche se finora non ho sentito quello stesso bisogno, quasi impellente, di scriverne.
Vorrei anche dire che, se pure io scrivo sempre di getto, mosso da un’urgenza e senza un piano troppo ben tracciato (anzi, spesso senza alcun piano), questi, a differenza di altre tipologie di testi, non li ho quasi mai modificati o corretti – a parte quando notavo qualche svista, o una ripetizione troppo vistosa – ma li ho sempre lasciati praticamente intatti, perché istintivamente percepivo il rischio di sciuparne la freschezza, se li avessi troppe volte riletti e sottoposti a verifica.
Ecco, ora non saprei più cosa scrivere su questo argomento, anzi, forse ho già detto troppo, e credo che mi convenga chiudere qui. È ancora Bresson a confortarmi nella mia convinzione, con una frase pronunciata nel corso di non so quale intervista pubblicata in quel libro: «Il ritmo di un film dovrebbe essere lo stesso della scrittura, di un cuore che batte». Perciò quando il battito comincia ad affievolirsi è giunta l’ora di smettere.

1 In verità, quello su Blow-up lo scrissi ancora prima, nel 2016, ma rimase un caso del tutto isolato per un paio di anni, e non pensavo, dopo averlo scritto, che sarebbe stato il primo di una serie. È proprio a partire dal 2018 che presi a scrivere con una certa frequenza su un film appena visto, o, come è spesso accaduto, ri-visto. Lo stesso testo sul Processo a Giovanna d’Arco, di Bresson, è ancora precedente (2015), e comunque è qualcosa di diverso da tutti gli altri, come appare con chiarezza a chiunque lo abbia letto. A voler essere molto precisi, al limite della pedanteria forse, avevo scritto molti anni prima qualcosa su un film di Kiarostami, Dov’è la casa del mio amico?. Ma quel testo, scritto a mano su un quaderno, probabilmente negli anni’90, quando vidi il film, non l’ho mai più ritrovato, purtroppo, e ad oggi ne conservo un ricordo molto vago.