
Hiroshi Shimizu, un nome giapponese fra altri mille (che fatica, spesso, ricordarseli e distinguere bene fra le persone che li portano) da ieri sera mi è diventato quasi familiare. È a causa del film che ho visto, Ornamental hairpin (titolo internazionale, che traduce il giapponese Kanzashi), che Shimizu girò nel 1941, proprio quando il Giappone era già in piena guerra (ancora non contro gli Alleati, bensì contro la Cina). Nessuno potrebbe dirlo, guardandolo, perché già la prima sequenza ci porta lontanissimo da qualsiasi ipotetico scenario bellico. Ha subito qualcosa di particolare, questa sequenza, qualcosa di inaudito, perfino. Siamo su una strada sterrata, fra alberi altissimi, c’è uno splendido sole, noi è come se precedessimo un gruppo molto gaio, soprattutto donne (geisha) andando nella loro stessa direzione e girandoci verso di loro per osservarli bene. L’immagine traballa un po’, evidentemente la mdp non era su una rotaia o su un qualsiasi supporto fisso e rigido, ma tenuta ‘a spalla’ bensì. Già questo particolare stupisce e spiazza: non sono un esperto di storia del cinema, non ho quindi idea se tale modalità di ripresa venisse già praticata, ma tenderei ad escluderlo. Poi la mdp è come se si fermasse (e noi stessi ci fermiamo) per lasciar avvicinare il gruppo, dopodiché si concentra su due donne, che seguiamo mentre camminano (e anche noi è come camminassimo con loro) ma ora molto più da vicino, così da poter udire bene la loro conversazioni. Sono allegre, si vede che stanno bene, soprattutto una delle due, che poi sparirà per circa una decina di minuti dalla scena per riapparire quindi diventando la vera protagonista del film. Lei è Kinuyo Tanaka, una grande attrice, anche molto famosa, avendo lavorato con Mizoguchi, Ozu, Naruse e appunto il nostro Shimizu (con il quale fu anche, brevemente, sposata). Ecco, quest’ultimo non somiglia a nessuno di quei tre grandi, anche se ogni tanto emerge qualche tratto che può ricordare Ozu (suo coetaneo e grande amico), nelle scene in interno, altre volte Mizoguchi (certe carrellate lente e vertiginose, e poi le parti in esterno, con gli attori spesso molto lontani dalla mdp) altre ancora Naruse, quando i personaggi – come nella sequenza iniziale e in molte altre ancora – camminano attraverso il paesaggio, e intanto conversano, e noi li seguiamo continuamente, vicini ma non troppo. Poi ci sono i primi piani, soprattutto della Tanaka, che invece non mi sembrano ricordare nessun altro autore coevo e sono quindi, forse, i momenti più autenticamente suoi.
La storia è tratta da un racconto di uno scrittore giapponese, ma è molto esile, a contare sono soprattutto i comportamenti delle persone, quello che fanno e quello che (si) dicono. Una buona parte del film si svolge all’aperto, e pare che Shimizu avesse una particolare predilezione per le riprese in esterni, preferendole quasi sempre a quelle in studio, o comunque in interno. È tutto piuttosto leggero, anche se i personaggi sono molto reali (quello della Tanaka in particolare) e anche quando sembrano più spensierati e leggeri – si tratta pur sempre di una commedia – risultano comunque credibili, persone con dei problemi e dei pensieri che possono talvolta angustiarli (è sempre il caso della Tanaka). Per tutti questi motivi a me sembra che si possa sicuramente fare un paragone con certi film di Renoir usciti pochi anni prima, come il celebre La grande illusione e Un partie de campagne. Ma lì c’era un contrappunto più forte e più serrato fra leggerezza e serietà, mentre almeno in questo film di Shimizu prevale la gaiezza, e non si assiste ad alcuna situazione realmente drammatica. I dialoghi sono davvero brillanti, si sorride spesso alle battute di questo o quel personaggio e la situazione – piuttosto poco plausibile, o comunque anomale, ai nostri occhi occidentali – di un gruppo di persone che si trova a passare insieme (addirittura dormendo nella stessa stanza fianco a fianco, pur essendosi da poco conosciute proprio lì) alcuni giorni in una stazione termale, si presta a continue gag spesso divertenti ma anche sempre molto garbate, senza la minima volgarità.

La parte finale, in cui vediamo la Tanaka rimasta sola nelle terme dopo che tutti gli altri sono tornati a Tokyo, è bellissima. Lei prima legge una lettera inviatale dal personaggio interpretato da Chishu Ryu (bravissimo e molto diverso dai personaggi dei film di Ozu, più spigliato, con una recitazione molto più libera) in cui la si invita a riunirsi con lui e gli altri per una rimpatriata. La malinconia traspare dal suo volto, anche se sorride leggendo la lettera, dopodiché, del tutto sola, ripercorre certi luoghi in cui erano avvenute molte cose piacevoli quando c’erano tutti. Lei sa che non potranno più accadere, le può soltanto rievocare così, rifacendo gli stessi percorsi, attraversando il precario ponte di assi sul torrente e salendo la scalinata nel bosco, due luoghi teatro delle situazioni da lei più felicemente vissute. Non dice una parola, tutto traspare dalle sue espressioni facciali, dagli sguardi, e anche da come si muove, fermandosi ogni tanto a ricordare, a rivedere quei momenti perduti per sempre. Il suo futuro è incerto – ha abbandonato il suo lavoro di geisha, rompendo con il suo protettore, si capisce che non vorrebbe più tornare indietro – ma in quei momenti riesce ad essere ancora serena, come quando era stata lì con gli altri. Anche se la malinconia prevale, pure la donna non è depressa, sembra sapere che la sua vita potrebbe forse ritrovare quella serenità, altrove, in altri modi. Oppure no, ma non importa, perché l’esperienza vissuta, pur se irripetibile, l’ha arricchita e forse anche cambiata per sempre
Così come la fine è, secondo me, una delle parti migliori del film – anzi, probabilmente la migliore, la più intensa e la meglio riuscita, tutta senza parole – anche l’inizio è davvero notevole. Dopo le riprese del gruppetto di geisha in cammino nel bosco assolato, quando queste arrivano in albergo la mdp compie una meravigliosa carrellata trascorrendo fra pareti, porte e tende trasparenti mentre segue le donne che invadono le stanze. Qualcosa che avevo già visto in Mizoguchi, ad esempio, ma realizzato qui con una freschezza e una naturalezza che dissimulano perfettamente ogni eventuale pretesa di maestria. Ovvero, la maestria del regista – e del suo operatore – c’è, ovviamente, però, appunto, rimane nascosta, non ostentata.
Mizoguchi disse una volta, per esprimere la sua grande ammirazione verso l’amico e collega:
« Persone come me e Ozu per fare un film devono lavorare duramente, ma Shimizu, lui è un genio…».

In un film precedente di Shimizu, Anma-to-onna (i massaggiatori ciechi e la giovane signora) del 1938, curiosamente assistiamo a una vicenda molto simile a quella di Kanzashi, con svariate ricorrenze (topoi in comune fra i due film): i massaggiatori ciechi, una stazione termale sperduta in una valle montana, una bella e giovane donna e almeno una storia d’amore inespressa, finita ancor prima di sbocciare, fra la ragazza e un massaggiatore che da lei è molto attratto, ma non corrisposto. C’è anche un ragazzino alquanto capriccioso e prepotente, con suo zio (nell’altro film erano due, con il nonno), che fra l’altro simpatizza palesemente per la ragazza, che a sua volta non sembra disdegnare. Lei è Mieko Takamine, all’epoca neppure ventenne, molto bella, di una bellezza misteriosa e affascinante, anche se dietro la sua espressione enigmatica si cela – anche stavolta – un travaglio interiore di natura molto simile a quello di Kinuyo Tanaka nel film del 19411. Lo zio è Saburi Shin, noto per aver fatto diversi film con Ozu, un bell’uomo anche simpatico, seppure sempre piuttosto distaccato e flemmatico. Qui la simpatia appare reciproca, anzi, forse è proprio lei quella più attratta dall’altro (gli chiede, in un moto quasi di spudoratezza, se è sposato, e si capisce che è contenta di sapere che è ancora celibe).
Il film sembra quasi un prototipo di quello di tre anni dopo, ci sono molte situazioni simili, ad esempio anche qui un precario ponticello di assi su un torrente, che per la giovane rappresenta momenti sereni recentemente vissuti e ormai perduti, quando verso la fine del film ci ritorna protetta da un ombrello, dato che sta piovendo (anche Tanaka porterà un ombrello aperto nella scena analoga dell’altro film, ma per ripararsi dal sole – o forse per creare la giusta intimità in un momento di intenso struggimento). La parte iniziale è anche molto simile: stavolta due ciechi, piuttosto sull’allegro, camminano per una strada di montagna in leggera salita e noi li vediamo come se ci trovassimo davanti a loro, a una distanza di pochi metri, ma rivolti appunti verso di loro (come stando seduti su una carrozza o su una corriera). Il loro colloquio è molto piacevole, frizzante, emerge una certa loro fierezza, quasi un senso di superiorità rispetto agli altri, i vedenti, grazie all’estremo affinamento degli altri sensi. Ora sono impegnati (pare lo facciano sempre, qualcuno lo dice) a superare il maggior numero possibile di altri viandanti, contandoli, in una gara a superarsi. Anche qui molte scene divertenti, spesso prendendo un po’ in giro (quasi al limite dello sberleffo) i ciechi, che camminando si scontrano sempre soltanto con i vedenti – per colpa di questi ultimi, secondo loro – e dimostrano spesso la loro eccellente capacità di ‘leggere’ la realtà che li circonda (e perfino i sentimenti delle altre persone) con gli altri quattro sensi, sviluppatissimi per compensazione. In una breve sequenza all’aperto, la ragazza e il cieco innamorato di lei inscenano un curioso balletto2, con lei che evita sempre – per gioco, senza intenzione di deriderlo – le mosse dell’altro quando sta per arrivarle troppo vicino. Lui sa che lei è lì, con un altro uomo, e non capisce perché lo eviti rimanendo silenziosa, perciò soffre, pur senza ammetterlo, per orgoglio. Verso la fine, il cieco le rivela il suo amore e anche che aveva capito – fraintendendo certi segni3 – essere lei chi rubava nelle locande della stazione termale. Lei lo lascia parlare, dopodiché, sorridendo, gli dice che si è sbagliato, sono altri i suoi problemi, altre le cause del suo malessere interiore. Nello stesso tempo lo ringrazia, avendo apprezzato la sua empatia e la sua sensibilità (lui, certo che la polizia stesse per catturarla, la convince a nascondersi – lei pensa che stia arrivando il suo ex-amante e, spaventata, segue il massaggiatore, mettendosi in fuga con lui).
Nella scena finale vediamo lei che sta per partire verso chissà quale meta, è seduta sulla stessa carrozzella che l’aveva portata lì giorni prima e guarda sorridendo il cieco che è venuto a salutarla. Quando la carrozzella parte, lui, che è rimasto sempre lì silenzioso e visibilmente turbato, dopo qualche secondo si mette a correre, in un vano, goffo tentativo di raggiungerla, dopodiché si ferma e rivolge lo sguardo vuoto nella direzione della carrozzella che si sta allontanando per sempre da lui, con lei sopra.

Direi, sulla scorta di questi soli due film su un totale di 160 (!) realizzati da questo autore, che mentre ad esempio Ozu è sempre molto preciso, quasi programmatico (si percepisce sempre, o quasi sempre, che sta trattando un tema, sempre soprattutto di carattere sociale), Shimizu è più sfuggente, le cose importanti le mantiene implicite, facendole emergere per lo più obliquamente. I suoi personaggi (di estrazione sociale affatto eterogenea) spesso sorridono, o ridono perfino, e si vede che sono felici, ma a tratti, fugacemente, una lieve ombra attraversa il loro viso, lo sguardo soprattutto. Questo è molto reale, chiunque sa che anche nei momenti più gioiosi continuiamo a percepire, di quando in quando, la presenza latente delle nostre preoccupazioni, oppure sono ricordi spiacevoli che riappaiono; o pensiamo per un attimo a ciò che ci potrebbe riservare il futuro, e l’inquietudine ci prende.
1 In quel caso si trattava di una geisha stancatasi della vita che faceva e decisa a non riprenderla mai più. Stavolta si capirà alla fine che la giovane donna interpretata da Takamine aveva un amante a Tokyo, un uomo sposato, molto possessivo, dal quale fugge dopo aver capito il dolore che la loro relazione ha provocato alla moglie e al figlio.
2 Nel film ci sono anche altre situazioni simili, dove alcuni personaggi – fra i quali sempre almeno un cieco – si incrociano per strada, o su un ponte e sembrano spesso fare mosse di aikidō per scansarsi.
3 Massaggiandole le spalle si accorge che i muscoli sono tesi e induriti, chiaro segno di tensione e inquietudine.

















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