Siamo verso la fine del film. Sappiamo già che il vecchio César (“Papet”) ha praticamente deciso di lasciarsi morire, prostrato moralmente e fisicamente da due eventi terribili. Prima, la morte del nipote, che si è impiccato, poi una rivelazione sconvolgente fatta da una vecchia amica, cieca, che lo ha annichilito, costringendolo a ribaltare tutto il suo sistema di giudizi, mettendolo di fronte all’inutilità e allo scialo di un’intera vita, proprio quando è ormai giunto alla sua fine. La sua domestica – sordomuta – sta preparando il caffè del mattino, appresta un vassoio con tazze e quant’altro, per portarglielo in camera da letto (da giorni ormai non usciva quasi più, e aveva già chiamato il prete al suo capezzale, per confessarsi). La donna percorre la casa ancora in penombra fino ad arrivare alla camera del vecchio, dove regna il buio fitto. Noi siamo già lì, siamo in quel buio quando la porta si apre e la donna – che ancora non si vede, immersa nel buio – entra nella stanza, silenziosa e leggera mentre si dirige verso la finestra, la apre, spalancando con un gesto non troppo brusco le ante, e subito si odono canti di uccellini venire da fuori – prima non era possibile, finestra e scuri di legno chiusi lo impedivano. Immediatamente dopo si gira verso César, lo guarda – ma noi l’avevamo già visto, prima di lei –, è disteso sul letto, vestito di tutto punto, con la mano destra sul petto e la sinistra distesa al suo fianco, stringendo qualcosa. La donna, un attimo dopo aver rivolto lo sguardo verso il letto, si blocca, ha intuito qualcosa, perciò si dirige verso il vecchio, per sincerarsi – anche se ha già capito, e sembra avere sempre meno dubbi mentre procede, lentamente, con cautela. Si ferma allora nei pressi del letto, sempre fissando l’uomo, ora dall’alto, e in quel momento di stupefacente, fugace intensità – il più intenso e arrestante di tutto il film, di tutti e due i film1 – udiamo il canto di un gallo, là fuori.
Un attimo dopo – ora non ci sono più dubbi, César è morto – la muta sfiora il viso del vecchio con un gesto di dolcezza e di pietà, e intanto la mdp, che era rimasta ferma, inizia una zoomata molto lenta sul braccio sinistro del vecchio fino alla sua mano, che vediamo infine in primissimo piano, a riempire quasi lo schermo. È per farci capire che essa stringe un pettine da donna, quel pettine, sempre conservato per cinquant’anni, che rappresenta tutta la sua vita come avrebbe potuto essere, piena e felice, e anche, per contrasto, quella che invece è stata, arida, avvelenata da avidità e cattiveria, la vita di un uomo spietato e crudele fino al punto di distruggere sé stesso e il suo (apparentemente) unico erede, che pure amava.
La seconda parte della sequenza, in cui la mdp si avvicina, zoomando, alla mano, è accompagnata da una musica che nasce così, proprio dal nulla2, in contrasto col profondo silenzio precedente, e ci rivela un particolare tutto sommato quasi pleonastico, a paragone di quanto accade subito prima. Quel pettine stretto nella mano non ci turba, non ci tocca con la stessa intensità di quel momento in cui abbiamo udito il canto del gallo (un canto breve, simile a un’esclamazione rituale) proprio quando la muta sta per toccare César – toccando la morte. È come un’aggiunta, una nota a piè di pagina, certamente utile e pregnante, ma assai meno intensa e meno profonda della prima parte. Ha anche, io credo, una funzione distensiva per i sensi dello spettatore, dopo l’intensa attenzione esercitata appena prima, spiando la scena fino al momento in cui si raggiunge l’acme – della stessa sequenza e dell’intero film, pur essendo del tutto dissimile dal resto, un’oasi di pace in un paesaggio sempre concitato. Quando, per poco meno di un minuto, siamo rimasti trattenendo il fiato in ascolto di quel lungo silenzio interrotto, e fortemente drammatizzato, dal breve canto venuto da fuori.
1: Manon des sources, questo, e la prima parte, Jean de Florette, di Claude Berri.
2: E proprio quando la zoomata sta arrivando al suo termine udiamo, addirittura, l’armonica che suonava Jean de Florette, quello che César scoprì, troppo tardi, essere suo figlio naturale. Un momento davvero debole, di un sentimentalismo piuttosto banale, e incongruente con la prima parte del tutto priva di musica, in cui udiamo soltanto pochissimi rumori ambientali e il canto degli uccellini prima e del gallo poi.