Nagareru

Nagareru, tradotto, penso appropriatamente, come Flowing [scorrere, corrente, flusso] nel titolo inglese e Au gré du courant in quello francese [direi ‘secondo – o seguendo – la corrente’]1, è un film di Mikio Naruse del 1956. Come spesso accade nei film di questo autore, si vedono quasi soltanto donne – in questo caso tutte attrici molto importanti nella storia del cinema giapponese – mentre gli uomini compaiono, sì, ma brevemente, e senza mai assumere una parte determinante per lo sviluppo della storia. Ovvero, chi determina, o ha determinato svolte decisive per ognuna delle donne o non appare, ed è soltanto evocato, oppure appare ma brevemente, e quasi sempre – fatta eccezione per il gentile Saeki, che sembra affascinato dalla protagonista, Otsuta, e anche blandamente interessato alla figlia di lei, Katsuyo – portando una nota sgradevole. E sono il rozzo e brutale zio della fuggiasca Namie, il fatuo e irresponsabile marito (separato) di Yoneko, che non degna neppure di uno sguardo la figlioletta ammalata a letto, ma si sgrava la – assai labile – coscienza – consegnando alla moglie qualche medicinale imprecisato, un gesto impudente e miserabile; oppure il ricco signore che vorrebbe posare le zampe sulla non più giovane ma ancora affascinante geisha, uomo di una bruttezza laida, che quando sorride mostra una dentatura da squalo. A non apparire sono l’ex-marito di Otsuta e padre di Katsuyo, che pure qualche responsabilità sulle disgrazie della ex-moglie deve avere (se ne accenna all’inizio, in un dialogo fra lei e la sorella più anziana) e un ex-amante, Hanayama, persona peraltro, apparentemente, abbastanza positiva, che si interessa ancora di lei pur essendone stato lasciato (anche se poi manca all’appuntamento, dopo che lei, con molta riluttanza, aveva acconsentito a rivederlo sperando in suo aiuto economico).


Il luogo in cui si svolge la maggior parte del film è la casa di geishe gestita da Otsuta, ormai in declino e gravata da un’ipoteca (accesa con la sorella, avida e prosaica, sempre sprezzante nei confronti della sorella minore: decisamente odiosa) e sempre meno frequentata, tanto che le geishe, da sette che erano, si sono ridotte a tre, una della quali, Someka, è avanti con gli anni e non molto attraente. La figlia di Otsuta vive con la madre, anche lei nella casa anche se non fa la geisha, una professione che disprezza, anche se ci aveva provato, una volta, ma desistendo subito, per assoluta mancanza di interesse e soprattutto di passione. Interpretata dalla ben nota Hideko Takamine (questo è uno dei nove film di Naruse in cui compare), la ragazza è perennemente corrucciata, si strugge per il destino della madre, che vorrebbe convincere a lasciare la professione, ma sa bene che lei non lo farebbe mai, essendo quella la sua vita da sempre, oltretutto una brava geisha, soprattutto come suonatrice di shamisen e cantante. Katsuyo non sembra avere grandi qualità – pur essendo sicuramente attraente – è piuttosto irresoluta, vorrebbe aiutare la madre, verso cui ha sempre un atteggiamento protettivo, ma non sa bene come fare, e alla fine si risolve, nonostante il netto diniego della madre, che la trova una scelta indegna di lei, a diventare una cucitrice, e la vediamo curva sulla macchina da cucire al piano di sopra, presenza incongrua e stridente (anche per il rumore, discorde rispetto alle note dello shamisen) in quella casa. Ha nostalgia del padre, vorrebbe andare a trovarlo dove vive, fuori Tokyo, ma poi desiste, anche perché la madre la convince, senza neppure grande sforzo, dell’inutilità del gesto – che probabilmente, negli intenti della figlia, tenderebbe a provocare un’impossibile riconciliazione fra i due.


Un altro personaggio molto interessante, e che infatti apre il film, con il suo arrivo nella casa dalla campagna, è Rika (poi ribattezzata – deliberatamente, come vedremo – Oharu dalla patronessa della casa. Pur venendo da due tragedie recenti e ravvicinate nel tempo, che hanno completante stravolto la sua vita (le sono morti prima il marito e poi la figlioletta) ha una stupefacente serenità nei modi e nell’espressione del volto – sia pure sempre velato da una quasi impercettibile tristezza, soprattuto nello sguardo – che le consentono così di conquistare subito sia la padrona sia le altre donne presenti nella casa. Viene infatti assunta come domestica, un ruolo umile che lei però svolge con una dedizione, una gentilezza di modi, davvero una nobiltà d’antan, da farla diventare una presenza importante in quel luogo. Che è abitato da persone tutte variamente afflitte da numerose negative esperienze, da cui sono uscite sempre sconfitte, quindi piene o di amarezza o di nostalgia per un benessere un tempo ambito ma mai realmente provato, anche se una certa vaga attitudine a sognarlo ancora rimane, soprattutto in Otsuta. Rika non è più molto giovane, ma le sue doti umane – fra le quali predominano l’umiltà e l’empatia per chi le sta vicino, e che cerca in ogni modo di aiutare, sono davvero rare, eccellenti al punto da renderla interessante per chiunque viva nel quartiere e la incontri ogni tanto per strada. L’attrice che interpreta questo personaggio è Kinuyo Tanaka, molto famosa in Giappone (fu anche regista), soprattutto per i suoi ruoli nei film di Mizoguchi, fra i quali, appunto, Oharu nel film omonimo, che riesce ad esprimere appieno la natura di questa bellissima persona, una specie di angelo sia pure con limitati poteri, un po’ come quelli dei film ‘berlinesi’ di Wenders. La stessa attrice che interpreta Otsuta, Isuzu Yamada, una star del cinema giapponese già a partire dagli anni ’30, vista anche in un film di Ozu, il tristissimo Crepuscolo a Tokyo, è molto brava. E sempre brava, nella parte di Someka, Haruko Sugimura, che chiunque abbia visto almeno tre o quattro film di Ozu riconoscerà subito, anche perché i suoi personaggi si somigliano sempre molto fra loro, come se lei fosse davvero un po’ così, un misto di superficialità, vitalità prorompente e quasi volgare, e dei modi spesso obliqui, che fanno intendere macchinazioni segrete e poco rassicuranti dietro il suo largo sorriso. Ma più o meno tutte (a parte ovviamente Sugimura, quasi una Magnani giapponese…), compresa Takamine, recitano con semplicità, quasi con sprezzatura, e con minime variazioni dell’espressione facciale, abbastanza però per far intendere rivolgimenti interiori anche molto profondi.


La fine del film – che procede agilmente e senza mai troppi rallentamenti, grazie a un superbo montaggio – è veramente malinconica, e nella sua intensità ed efficacia credo dia a tutto il film, conchiudendolo in modo mirabile, caratteri di grandezza, tali da renderlo probabilmente uno dei migliori fra i moltissimi girati da Naruse. I nodi, come si dice, si sciolgono: l’altra sorella, Ohama, ex-geisha e patrona di una casa ben più efficiente, molto più prosaica di Otsuta, più scaltra e avveduta, scopre le sue carte, sempre ben dissimulate durante tutto il film fino a quel momento, e rivela a Rika-Oharu i suoi veri intendimenti. Dopo aver acquistato la casa, dicendo alla sorella che avrebbe potuto continuare a dirigerla, finalmente libera dall’assillo dell’ipoteca, la trasformerà in un ristorante, ma senza coinvolgere la sorella nell’impresa, ritenendola inadatta. La furba imprenditrice convoca la domestica-tuttofare a casa sua per offrirle di dirigere lei il locale, dopo essersi resa conto delle sue molte qualità e ritenendola adatta a tale impegno. Oharu immediatamente si rattrista, il suo solito sorriso quasi si spegna, e dopo aver capito che prenderebbe il posto di Otsuta, chinando il capo in segno di umiltà, declina l’offerta, suscitando una breve reazione di stupore in Ohama, che però abbozza.
Tornando a casa, annuncerà prima a Katsuyo il suo ritorno al paese in campagna, motivandolo con ragioni di famiglia piuttosto vaghe, poi vorrebbe dirlo anche a Otsuta, ma non può, perché in quel momento, interrompendo una lezione a due giovani allieve, la padrona, accompagnata da Someka, entrambe allo shamisen, canta un’antica, classica canzone (le cui parole purtroppo non sono tradotte nel dvd francese che ho visto). Sono entrambe profondamente ispirate, rapite e come in trance mentre emettono quei suoni così poetici, arcaici, e hanno gli occhi chiusi, come assorte in un’esperienza di tipo quasi soprannaturale che evidentemente le trasporta in un passato lontano. Le due allieve sono a loro volta rapite, assistono alla scena immobili e in assoluto silenzio, seminascoste da un tramezzo, per non turbarla. E la stessa Oharu, con la sua proverbiale, innata discrezione, si tiene in disparte, mente guarda e ascolta. C’è uno stacco di montaggio molto significativo, e molto chiaro, quando vediamo, al piano di sopra, la figlia china sulla macchina per cucire mentre lavora. La vediamo di spalle, evidentemente non si cura della performance al piano di sotto, neppure la può ascoltare, perché il rumore meccanico, ripetitivo della macchina copre quei suoni: la prosaicità ottusa e spietata della modernità che travolge la poeticità effimera e lieve del canto e dei suoni. Così Naruse dimostra chiaramente come le due geishe, appartenenti a un mondo in via di estinzione, siano destinate a soccombere e sparire a loro volta. Mentre la figlia di Otsuta, che si è arresa, in qualche modo andrà avanti, a sua volta sempre soffrendo, ma senza il sostegno e il balsamo della poesia e dell’arte, che le sono precluse. Poco prima, durante il colloquio con Saeki, camminando lungo la riva del mare (un momento ricorrente in ogni film di Naruse – almeno quelli che visto io, una decina forse – una sua cifra stilistica, si può dire) la giovane aveva dichiarato, con un tono rassegnato e mesto, la sua missione di vita: prima di pensare a se stessa, a sposarsi (come lui le ha chiesto) trovare al più presto un lavoro che le permetta di mantenere se stessa e la madre, convinta, non a torto, dell’inadeguatezza di quest’ultima alla società così come si stava rapidamente evolvendo, e alla quale non potrebbe mai adattarsi, neppure volendolo.

1 In verità il termine può significare anche ‘spazzar via’, quindi ‘spazzato (o spazzati/e) via’, ed è forse questa l’accezione più pregnante in questo contesto.

(ho visto questo film la sera di venerdì 10 marzo 2023)