Allestire una mostra

Ogni volta è la prima volta, non avevamo mai fatto quello che stiamo per fare, e dobbiamo capire con cosa abbiamo a che fare, prima di mettere questa cosa qui o quell’altra là. Dobbiamo improvvisare, fare una cosa per la prima (e unica) volta. Non abbiamo mai imparato, non impareremo mai, ogni volta è la prima volta. E’ così, più o meno, che cominciammo a parlare, a camminare, e allo stesso modo proviamo a conoscere qualcosa o qualcuno che non avevamo mai visto prima, e che non rivedremo mai più così.

Le cose là fuori, nella natura o per le strade di qualsiasi città, hanno quasi sempre, misteriosamente ma indiscutibilmente, una loro naturale collocazione, determinata da eventi casuali. Gli oggetti vengono spostati dal vento, modificati dalla pioggia o dall’azione involontaria dei passanti, e stanno sempre là dove sembra che davvero debbano stare. E poi la luce si alterna all’oscurità, il giorno alla notte, spesso basta un attimo, quando una nuvola copre il sole, per mutare l’apparenza delle cose, trasformare un paesaggio in un altro, da un momento all’altro sotto i nostri occhi, noi impotenti e affascinati, o impauriti. All’interno, nelle case, sta generalmente a noi decidere dove una certa cosa dovrebbe stare, e lo stesso vale per una mostra, sia pure con motivazioni, apparentemente, differenti. Si tratta di stabilire un ordine, sia pure temporaneo, effimero, che abbia la stessa naturalezza che riscontriamo là fuori, dove generalmente regna il caos, dove in genere nessuno realmente decide la collocazione delle cose, che è peraltro instabile, oltre che indeterminata. In una mostra, dove degli oggetti vengono costretti a convivere in uno spazio, il compito di chi allestisce, di chi deve decidere questa collocazione, è arduo. Deve sostituirsi al caso, al vento e alla pioggia, perché il risultato di questo compito, ancorché provvisorio, serbi, sia pure per un tempo limitato, l’energia immanente e l’autorevolezza del caos che regna là fuori. La partenza è da un campo vuoto, vasto e indecifrabile, di cui non è possibile stabilire un inizio, un accesso, una fine o uno sbocco. Da lì si comincia a tracciare un percorso, che non sappiamo dove può portarci, ma sappiamo dover essere chiaramente tracciato, percorribile quindi, perché questa è la vera natura di una strada, che si può percorrere anche senza darsi una meta, perché la sua vocazione è quella di condurre, di non porre limiti al movimento, ma di mantenere attiva l’energia che ci spinge a percorrerla, ovunque possa portarci.

Andrey Tarkovsky, “Stalker”
Roman Polansky, “Repulsion”
Thomas Bernhard, “Eventi”
Tanizaki Jun’ichirō, “Libro d’ombra”
Eric Rohmer, “Le rayon vert”

[testo scritto fra il 17 novembre 2007 e il 9 febbraio 2008, tratto dal libro “Allestire una mostra – e altre iniziative apparentemente inutili (storie di e/static e blank, 1999-2018)”, attualmente in preparazione]