Una modesta proposta


Finalmente, dopo svariate peripezie editoriali, Allestire una mostra (e altre attività felicemente inutili) sta per essere stampato e quindi pubblicato per le edizioni leppi lampi labors (un’emanazione di e/static). E’ un progetto a cui ho lavorato per più di quattro anni, un libro sulle vicende di e/static e blank fra il 1999 e il 2018 (v. QUI).
Avrà 256 pagine, per una tiratura di almeno 250 copie, in formato volutamente ridotto (cm 13 x 19), tascabile, per dare la possibilità a chi lo tiene fra le mani di leggerlo agevolmente ovunque. Consta di 35 capitoli (l’elenco completo è incluso nel sample – vedi link qui sotto), oltre ad altri due testi, a un’antologia di documenti in Appendice, a 23 immagini in b/n che inframezzano i capitoli e a 27 immagini a colori raccolte nella sezione Album. Le immagini non avranno, in massima parte, una valenza meramente documentativa, e tanto meno vorranno ‘illustrare’ il testo; semmai, esse sono state scelte, fra le migliaia disponibili, perché considerate in grado di aprire invitanti spiragli sulle pieghe più nascoste, o trascurate, della lunga storia di e/static.
Il libro è quasi pronto per andare in stampa, ora dobbiamo soltanto completare la raccolta del capitale necessario per poterne pagare i costi. Dopo aver fatto tutti i calcoli, sappiamo che ci manca una cifra non inferiore a €3500, che andrebbe a integrare la disponibilità attuale permettendoci di dare il via alle operazioni di stampa all’inizio del 2024.
Mi rivolgo a chi legge, come già fatto con tanti amici e conoscenti che hanno seguito con attenzione e affetto le vicende di e/static, con una precisa proposta. Questo è un nuovo progetto di e/static, e potrà essere realizzato se il maggior numero possibile di persone prenoterà ora una o più copie del libro, versando sul conto corrente di e/static la cifra che vi propongo.
In buona sostanza, chi vorrà prenotarne una copia, pagando un prezzo inferiore a quello ufficiale, lo potrà fare versando, entro mercoledì 31 gennaio 2024, non meno di €25, se vorrà poi ritirarla ‘brevi manu’, magari in occasione di un evento di presentazione del libro (così potremmo vederci, o rivederci), aggiungendo €4, se preferisse farsela spedire a casa.
Ovviamente, è possibile prenotarne anche due o più, nel qual caso le eventuali spese di spedizione sarebbero meglio ammortizzate. È sottinteso che chi sapesse di qualcuno, che magari io non conosco, eventualmente interessato, ha la mia autorizzazione a girargli/le questa lettera.
Si può visionare un sample del libro cliccando QUI; il sample è puramente dimostrativo (dato che presenta alcune parti del libro in una forma ancora non definitiva) ma può sicuramente dare un’idea di come sarà il libro, anticipando l’esperienza di tenerlo in mano per sfogliarne le pagine.

Tutto qui, mi sembra di essere stato sufficientemente chiaro. Ma chi volesse avere qualsiasi ulteriore chiarimento può scrivermi a info@estatic.it.

Carlo Fossati, novembre 2023

I DATI BANCARI
conto: e/static
banca: Intesa Sanpaolo
iban: IT41Y0306909606100000012583 bic: BCITITMMXXX
descrizione: sostegno per la pubblicazione del libro Allestire una mostra *

*: a ogni sottoscrittore verrà rilasciata una ricevuta con questa motivazione.

Perché questo libro


Ho scritto i testi (quasi tutti, con pochissime eccezioni) che compongono questo libro fra la prima metà del 2019 e la seconda metà del 2021, con qualche fisiologica interruzione, una, soprattutto, abbastanza lunga nella primavera del 2020. Dopo altre vicissitudini di varia natura – e ulteriori correzioni e modifiche ai testi – il lavoro ha preso la sua forma definitiva e sarà presto finalmente stampato diventando a tutti gli effetti un libro. Chiunque lo prenderà in mano per leggerlo potrà apprezzarlo o meno, trovandovi magari qualche difetto ed eventualmente esprimendo delle preferenze fra i vari testi che lo compongono. Come sempre, un’opera pubblicata non appartiene più soltanto al suo autore, ovvero non più completamente, anzi sempre meno, e questo è un bene, perché con ogni nuovo lettore aumentano le possibilità offerte dal libro stesso, che si potrebbe arricchire proprio durante la lettura che ne farà ognuno dal suo personale, unico e irripetibile, punto di vista. Ma questa è un’aspettativa molto positiva da parte mia, vorrebbe dire che il libro esiste realmente, è materia che può essere plasmata e riplasmata, se si vuole, crescendo in modo affatto nuovo nella testa di ogni lettore. Detto questo, se e quando mi capiterà di parlarne con qualcuno fra i lettori, potrebbe essere davvero eccitante per me conversare con loro di questi nuovi, imprevisti aspetti, che io, come autore, ho soltanto dato una mano a far nascere, scrivendo il libro e quindi pubblicandolo, ma si dovranno poi attribuire a chiunque lo leggerà, autore a sua volta. Forse, chi fra i lettori aveva avuto una personale esperienza di ciò che accadde in quegli anni, fra il 1999 e il 2018, potrebbe sentirsi più coinvolto, proprio per il fatto di avere esperito, dal suo personale punto di vista, qualcuna, tante o poche, magari soltanto una di quelle cose. Ma io spero che anche tutti gli altri, quelli che si avvicineranno al libro senza sapere nulla di e/static e di blank, non soltanto lo apprezzino, ma si sentano stimolati a elaborare una loro personale mitologia di tutto ciò che vi viene descritto o evocato.
Per me ritornare sulla lunga vicenda di e/static ha anche rappresentato un’occasione per parlare di molto altro, tutto ciò che vi riverberava allora, talvolta inavvertitamente; e anche quello, fra quanto si fece, che ha prodotto nel tempo un riverbero su altre cose – vicende, pensieri, discussioni – venute in seguito. E ovviamente tutte quelle che, io spero, ancora potrebbero venire come conseguenza della lettura di questo libro. Ciò che, se accadrà, lo renderebbe veramente vivo e vitale, qualcosa che aveva senso fare.

Carlo Fossati, 2023

informazioni per chi volesse sostenere il progetto di Allestire una mostra QUI

Rikyū e altri maestri del tè (una postilla)


Nella cerimonia del tè (v. Rikyū, del 1989, e Gō-hime, del 1992, due film di Teshigahara Hiroshi) ci si ritrova in due persone all’interno di un luogo creato appositamente – o comunque ritenuto adatto – per la pratica di questa cerimonia. Vi si accede scomodamente, passando per uno stretto pertugio, situato in basso all’altezza del pavimento, costrizione obbligata che vale per tutti, anche per lo shōgun, che è peraltro il signore a cui Rikyū fa riferimento, da cui è stato nominato maestro (della cerimonia) del tè.
Avevo intuito con chiarezza nel 2021, visitando l’installazione video di un amico [v. qui], la necessità di accedere soli al luogo (incidentalmente, assai peculiare e fuori dai canoni) dell’installazione e rimanervi in solitudine per poter stabilire un dialogo con il video – in quell’occasione proiettato direttamente su un muro; che è poi anche, in maniera indiretta, un dialogo con il suo autore. Altrimenti, la normale fruizione collettiva (diciamo oltre le due persone presenti) inevitabilmente trasforma e corrompe l’esperienza: si assiste a uno spettacolo, siamo parte di una platea, un vero e completo dialogo, nella sua forma più pura e più profonda, ci è negato.
Allo stesso modo, il maestro del tè e il suo ospite possono stabilire un dialogo nella stanza del tè: il maestro vale quanto l’opera (video o altro), che avendo luogo, dovendo essere agita per esistere, necessita della presenza di una persona, il maestro appunto. Costui è l’opera, e viceversa, la rappresenta così come essa lo rappresenta.

Mi sembra ora di capire che l’esperienza di e/static e poi anche di blank abbia sempre avuto queste caratteristiche, per quanto mi riguarda, quando, innumerevoli volte, mi trovavo solo dentro un’installazione (soprattutto in via Parma, dove non esisteva un vero e proprio ufficio). Ma lo stesso visitatore che veniva in un giorno di normale apertura, dopo l’inaugurazione, anche lui/lei si trovava in questa condizione, solo con l’opera, in grado di stabilire con essa un dialogo. E la mia presenza – quando intuivo che avesse senso, che fosse utile – era non soltanto discreta ma anche di grande disponibilità a stabilire un dialogo con il visitatore. In quei casi io rappresentavo, in qualche modo, l’opera e il suo autore, facendo da tramite fra le tre entità, mettendomi però in gioco a mia volta, ovvero non rimanendo passivo, ma presente e attento, vuoto soprattutto, per poter vivere intensamente quell’esperienza.
Si può ben dire che tutto quanto è stato creato e presentato nell’ambito di e/static, per circa vent’anni, non ha mai, o quasi mai – o comunque, mai intenzionalmente – avuto le caratteristiche della spettacolarità, ma ha bensì trovato la sua giusta dimensione sempre nel modo dimesso di cui detto sopra.
Ma queste caratteristiche sono, prima ancora, le stesse mie: non sono un esibizionista, mi sento a disagio quando mi trovo al centro dell’attenzione e cerco sempre di essere, prima ancora che apprezzato, non notato. Soprattuto sono alieno da ogni forma di ostentazione. Era perciò inevitabile che il lavoro di e/static venisse fuori in un certo modo, in tutti i suoi aspetti, a cominciare dal nome stesso, perché non avrei mai potuto dare il mio nome e cognome allo spazio, un’eventualità che non ho mai preso in considerazione.

Un’altra cosa molto interessante emersa recentemente guardando i due ultimi film di Teshigahara, e poi leggendo qualcosa su Rikyū e Oribe, il suo seguace e successore nella carica di maestro della cerimonia del tè dello shōgun (rispettivamente Hideyoshi e Ieyasu). Oltre agli aspetti più noti della sua forma cerimoniale (povertà e semplicità degli utensili, con tazze neppure decorate, e sempre asimmetriche, imperfette) ho letto da qualche parte della sua – o della loro – convinzione che ogni esperienza fosse unica e irripetibile e andasse quindi vissuta intensamente, proprio sapendo che non si sarebbe mai potuta rifare in alcun modo, se non fingendo (perdendo quindi ogni sua autenticità e rendendo la rappresentazione del tutto sterile e vacua).
Anche questa cosa è venuta fuori spesso in quegli anni, soprattutto nella seconda parte, direi, con campo volo in particolare, ma poi anche killing floor e La collera delle lumache.

Infine: io credo che le Rooms of Stillness [Stanze della quiete] di Julius fossero delle stanze del tè così come le concepiva Rikyū, o comunque qualcosa di molto simile. Non so se lui ne fosse consapevole, non se ne è mai parlato, ma forse no, l’idea nacque in lui spontaneamente, dopodiché scrisse quel breve, denso testo che tanta importanza ha avuto per me, e continua ad avere.

N.B.: questo testo non appare sul libro Allestire una mostra, pur essendovi, in parte, connesso, e chi leggerà entrambi, il libro e il testo, potrà avere un’idea più ampia e approfondita di certi temi. E il sottotitolo allude abbastanza esplicitamente al libro: questa è effettivamente una sua postilla, anche se non vi appare. Perciò ho deciso di inserirlo in questa sezione del blog, che presenta appunto una selezione di materiali del libro, in una fase della loro elaborazione.

Mostre che escono dallo spazio espositivo /1

Nel novembre 2007 a blank venne allestita una mostra sul tema del tempo, This is the time (and this is the recording of the time), co-curata con Simone Menegoi, da un’idea dello stesso. Oltre alla presenza – probabilmente la prima in Italia, sicuramente la prima in uno spazio non istituzionale – dell’opera di Tehching Hsieh, artista e performer di eccelsa statura ma all’epoca ancora poco noto, perché la sua piena riscoperta stava appena iniziando, un altro intervento memorabile fu quello di Dominique Petitgand. Una sua opera, Fatigue, era allestita in un negozio sfitto di fronte a blank, bisognava uscire e attraversare la strada per arrivarci; vi si sarebbero trovate due persone, o meglio le loro voci registrate, nel buio. Per ottenere una condizione di buio fitto, essenziale per la migliore riuscita dell’allestimento (ricordo che Petitgand venne apposta da Parigi, circa una settimana prima dell’inaugurazione, per fare un sopralluogo) avevamo messo, subito dopo la porta d’ingresso, una tenda di panno nera, oltre ad apporre del nastro adesivo nero sulle piccole luci rosse o bianche dei vari elementi dell’impianto audio, quelle che segnalano l’accensione del lettore cd e delle casse auto-alimentate. L’opera era esclusivamente acustica, si poteva soltanto udire, e durava un minuto circa, durante il quale si ascoltavano due voci giustapposte, quella di un bimbo che conta, giocando, da 1 a 100 e quella di una signora molto anziana che si lamenta dello stato di decadenza fisica e mentale in cui si trova, data l’età avanzata (Petitgand mi disse poi che la persona di cui registrò la voce sarebbe morta dopo pochi mesi), la fatica che deve fare per camminare e per leggere, la sua smemoratezza. Il racconto della vecchia signora cessava un attimo prima della filastrocca recitata dal bimbo, che avrebbe così pronunciato l’ultima parola, l’ultimo suono udibile: “cento!”. Per Dominique era essenziale che l’installazione si trovasse a qualche distanza dalla mostra, appartata rispetto alle altre opere esposte, e in questo caso, come detto, i visitatori interessati dovevano per forza uscire da blank, scendere le scale e attraversare quindi via Reggio. Così, oltre a potersi udire suoni e voci nel modo migliore, senza interferenze di vario genere (c’erano altre opere sonore nello spazio al primo piano, fra le quali una in cui si udiva un artista [Luca Vitone] contare i propri passi, proprio fino a cento), si usciva dallo spazio espositivo per entrare in un altro, altrettanto neutro ma nello stesso tempo appartenente al mondo reale, quello che sta al di fuori. Incidentalmente, quello era stato il negozio di un barbiere, che lo aveva lasciato da poco per spostarsi in un altro locale lì accanto, e che ce lo concesse in prestito in attesa di riaffittarlo.

Nel 2009 il collettivo catanese Cane Capovolto venne a blank per organizzare l’happening ‘outdoor’ Nemico interno, coinvolgendo una ventina di persone, ‘attrezzate’ ognuna con un ipod dotato di auricolari da cui provenivano indicazioni in parte vaghe, in parte assai precise, per indurle a mettersi in cerca di oggetti vari (e anche persone) nei dintorni di via Reggio 27. Proprio da lì, nel pomeriggio del 15 ottobre, partirono disseminandosi in luoghi disparati, dato che stava ad ognuno – gli auricolari dell’ipod separavano di fatto fra loro tutti i partecipanti all’evento – mettere in pratica le indicazioni, piuttosto elusive, pronunciate peraltro distintamente da una voce bene impostata. Non sarebbe stato possibile seguire tutti, ovviamente, così decisi di mantenere una certa distanza dagli avvenimenti, scattando di quando in quando qualche foto, dalle finestre di blank oppure stando per strada negli immediati dintorni. In una di queste immagini si vede Alessandro Aiello – uno dei componenti il gruppo –, che quel giorno ebbe una parte ibrida, fra autore (e quindi regista ‘occulto’ dei movimenti dei partecipanti) e attore, muovendosi ovviamente con molta più disinvoltura e noncuranza degli altri, come una specie di ‘quinta colonna’, di infiltrato che controllava da vicino lo svolgersi dei fatti. La foto la scattai appunto dalla strada, mentre Alessandro si trovava sul terrazzo di blank, e credo che lo scorsi lassù a sorpresa, come un’apparizione improvvisa. E il fatto che in quel momento lui guardasse dritto nell’obiettivo della mia fotocamera rende l’immagine alquanto strana, conferendole qualcosa di misterioso, come certe fotografie, generalmente piuttosto sfocate, in cui si vede una figura irriconoscibile, fantasmatica, che non avevamo notato mentre scattavamo (vengono in mente Blow Up, di Antonioni, ovviamente, e anche una storia raccontata da un personaggio di “Sacrifice”, l’ultimo film di Tarkovskij1). Riguardando ora la foto, dopo tanti anni, mi viene da pensare che lui in questa immagine rappresenti quel ‘nemico interno’ che dà il titolo al lavoro di Cane Capovolto, presenza ineffabile e inquietante che aleggiò, non vista, ma soltanto udita dai partecipanti, per tutta la durata dell’happening che ebbe luogo nelle strade del quartiere.

1 È la storia di una donna che aveva perso il figlio in guerra, e che guardando per la prima volta dopo molto tempo un vecchio album, in una foto che le venne scattata dopo la morte del figlio scopre (non l’aveva mai vista prima) la sua immagine accanto a lei, dove non avrebbe potuto trovarsi, essendo già morto a quell’epoca.

[testo scritto nel mese di febbraio 2020, tratto dal libro “Allestire una mostra – e altre iniziative felicemente inutili (storie di e/static e blank, 1999-2018)”, di prossima pubblicazione]

Lo spazio espositivo come luogo dell’apparizione improvvisa e inaspettata /1

La sera del 5 novembre 2010, nello spazio blank di via Reggio 27 ci fu la performance Lid, di Giovanni Morbin, un nuovo episodio della serie di campo volo – inaugurata da Alis/Filliol nella primavera dello stesso anno – realizzato in collaborazione con il gruppo Diogene. A partire dalle ore 21 circa, le persone, dopo essere entrate nello spazio, arrivavano nei pressi di una piccola stanza illuminata e apparentemente vuota, subito dopo averne attraversata un’altra con diverse opere alle pareti. Guardando dentro prima di entrarci non era possibile vedere nulla, e si seppe poi che qualcuno non ci entrò proprio. Varcando la soglia, qualcun altro avrà gettato un rapido sguardo alle pareti, e vedendole vuote sarà subito uscito. Bisognava alzarlo, lo sguardo, verso il soffitto, a quasi quattro metri da terra, per poter vedere una figura umana assolutamente immobile, braccia e gambe distese, diritte e ferme, lo sguardo fisso verso qualcosa che nessun altro poteva vedere, oltre il muro che gli stava di fronte – in realtà, un angolo acuto fra due muri. Molti riconoscevano Morbin, e un sorriso affiorava spesso sulle labbra di un visitatore, ben sapendo dell’attitudine eccentrica e audace del performer, che riesce ogni volta a stupire con le sue azioni e con le sue opere. Altri no, non sapevano chi fosse, e ci fu chi rimase incerto – anche dopo, uscendo dalla stanza – sulla natura dell’apparizione, e soprattutto della figura appesa al soffitto: era vivo? O si trattava piuttosto di una statua, magari in cera? Magari una di quelle sculture cosiddette iperrealiste in voga negli anni ’70. Altri, pur percependo la vitalità della figura, si stupivano bensì della sua fissità, e sostavano a lungo ansiosi di cogliere un movimento, un batter di ciglia, il rumore di un respiro, un segno che li rassicurasse. Perché se quello era un essere umano, in carne e ossa, come mai non si muoveva? In che modo riusciva a stare lassù, fermo, come librandosi in un cielo invisibile? Ci fu poi chi, guardando in alto verso il soffitto, ma stando sulla soglia, accortosi in tempo di quella presenza inquietante, non entrò, rimase lì per qualche secondo non osando avanzare. E uno dichiarò poi che Giovanni gli era parso davvero “morto” (qualcuno che lo conosceva molto bene, e non sapeva nulla di questa performance).
Morbin aveva scrupolosamente preparato la sua performance, fabbricando un bustino di gesso (rinforzato) che indossò per attenuare la pressione del suo stesso peso sul torace, permettendogli anche di respirare agevolmente. Aveva poi individuato i punti del suo corpo, e degli arti, dove inserire degli occhielli che sarebbero serviti, facendogli passare dentro del robusto filo di ferro, per agganciarsi a nove tasselli ben fissati al soffitto. Alcuni membri di Diogene, dopo aver installato nella stanza un trabattello munito di ruote, fissarono Morbin al soffitto, agganciandolo ai nove tasselli, e sarebbero stati loro stessi a intervenire alla fine della performance, circa due ore dopo, rimontando velocemente il trabattello per sganciare il performer, ovviamente giunto al limite della resistenza, dopo tanto tempo trascorso in condizioni così difficili, diciamo pure punitive. Lo stesso Giovanni Morbin, come convenuto in anticipo, fece un segno per farci capire che la sua resistenza stava venendo meno ed era quindi giunto il momento di farlo scendere da quella scomodissima posizione, lassù contro il soffitto.
Esiste un video che documenta tutta la performance, girato con una videocamera posta a poca distanza dal punto in cui si trovava Morbin, in modo tale da riprendere le reazioni di tutti coloro che entrarono nella stanza, a naso in sù, osservandolo. Perciò egli non compare nelle immagini, e la sua figura distesa, aderente al soffitto, è soltanto ricordata dai visitatori, avendo effettivamente una funzione strumentale: è il video1 il vero residuo rappresentativo dell’opera, che si può considerare in pratica essere stata realizzata da tutti coloro che, ignari di essere ripresi da una cosiddetta videocamera di vigilanza, vi compaiono. Per una volta, il pubblico convenuto per assistere a una performance annunciata scopriva di essere il vero performer, mentre quello ‘ufficiale’ serviva in pratica per attrarre tutti coloro che avrebbero, involontariamente e inconsapevolmente, preso il suo posto al centro della scena, così come verrà appunto documentato dal video. .

1: quella sera le immagini venivano diffuse in presa diretta da uno schermo allestito nella sala espositiva adiacente, insieme ad altre opere di una mostra collettiva.

[testo scritto nel mese di febbraio 2020, tratto dal libro “Allestire una mostra – e altre iniziative apparentemente inutili (storie di e/static e blank, 1999-2018)”, di prossima pubblicazione]

Giovanni Morbin, Lid, 2010 (i preparativi)

Lo spazio espositivo, un organismo vivente

The land is not the setting for the work but a part of the work.
Walter De Maria, The Lightning Field, 1980

Nello spazio contenitore (il cosiddetto white cube) il fluire viene deliberatamente trattenuto, interrotto, e ogni legame con il mondo fuori, della realtà in divenire, reciso. Io credo invece che il compito precipuo di chi si appresti ad allestire una mostra di opere d’arte dovrebbe sempre essere proprio quello di attivare questo fluire al massimo delle possibilità offerte dallo spazio, liberandolo al suo interno, in modo tale da infondere questa energia dinamica nelle opere, nello spazio stesso, negli stessi visitatori, perché vengano, tutti, liberati a loro volta.
Attraverso la lunga esperienza di e/static, collaborando con tutti gli artisti che hanno presentato i loro progetti originali, ho imparato a considerare lo spazio come uno degli elementi dell’allestimento, altrettanto importante quanto le opere, e nel tempo questa attitudine si è talmente connaturata in me che non ci dovevo nemmeno più pensare, mi veniva naturale, come credo succeda a un suonatore di violino o altro strumento, o come scrivere per uno scrittore, eccetera. Perché l’allestimento di una mostra è un atto creativo, messo in pratica utilizzando, oltre alle opere, lo spazio, la luce, il tempo, senza dimenticare mai che tutto viene fatto perché qualcuno, poi, entri e cammini nello spazio, guardando, ascoltando, pensando, vivendoci insomma, per qualche tempo. Ecco, ci vuole tempo, e attenzione, altrimenti sarebbe meglio non andarci, non entrare, per non offendere il luogo dell’allestimento con la propria disattenzione e superficialità, che equivalgono a una mancanza di rispetto nei suoi confronti. Quindi la fretta non va bene, perché impedisce di aderire al tempo dell’allestimento, che è generalmente lento, anche quando dovesse comprendere una sola piccola opera collocata in un grande spazio e vista da una certa distanza, talvolta talmente lontana dal centro della scena da risultare inapparente, se non addirittura invisibile, alla prima occhiata. Così come ci vuole un po’ di tempo prima di arrivare a stabilire cosa c’è in quello spazio e il senso del suo esserci, anche e soprattutto quando quel che c’è può apparire dimesso e defilato, come se si nascondesse, e allora va cercato, o per meglio dire atteso, con pazienza e umiltà. La stessa sua pazienza e umiltà.
Per quanto invece riguarda chi lavora in quello spazio: ciò che vi è allestito, nel corso di una mostra, va rispettato, vigilato e accudito quotidianamente da qualcuno che se ne prenda la responsabilità, e in questo modo, attraverso questa pratica, questa cura assidua, da un certo punto in avanti esso può iniziare ad essere amato allo stesso modo di una persona o un animale. Forse l’esempio in assoluto più calzante di questo comportamento venne dato dalla persona che per moltissimi anni si occupò della cura della celebre installazione permanente di Walter De Maria, allestita in un appartamento di Soho, a New York, la Earth Room. Quest’uomo, Bill Dilworth il suo nome, dedicò ben 23 anni della sua vita al compito di mantenere costantemente l’opera nel suo stato ottimale, originario (a partire dal 1977), effettuando periodiche pulizie e veri e propri ‘ricondizionamenti’ dell’enorme quantità di terra, togliendovi tutte le piantine che irresistibilmente, di quando in quando tentavano di svilupparsi, soprattutto nei primi anni. Per riuscire in quest’impresa, si dovette creare fra lui e l’opera un vero e proprio legame affettivo, in cui egli, presumibilmente, recitava la sola parte attiva. Non considerò mai l’impresa come un lavoro alienante, e non si sentì mai mosso da un obbligo astratto, il suo rapporto con la terra essendo diretto, senza mediazioni né obblighi provenienti dall’esterno.
Il titolo di questo capitolo comprende l’espressione ‘un organismo vivente’, e ci fu certamente un’occasione in cui questo fu, letteralmente, il caso: l’intervento, durante circa cinque mesi, di Andrea Caretto e Raffaella Spagna sul terrazzo di blank, Soil Practice, di cui si parla approfonditamente in altri capitoli del libro.

[testo scritto nel gennaio 2020, tratto dal libro “Allestire una mostra – e altre iniziative apparentemente inutili (storie di e/static e blank, 1999-2018)”, attualmente in preparazione]

Allestire una mostra

Ogni volta è la prima volta, non avevamo mai fatto quello che stiamo per fare, e dobbiamo capire con cosa abbiamo a che fare, prima di mettere questa cosa qui o quell’altra là. Dobbiamo improvvisare, fare una cosa per la prima (e unica) volta. Non abbiamo mai imparato, non impareremo mai, ogni volta è la prima volta. E’ così, più o meno, che cominciammo a parlare, a camminare, e allo stesso modo proviamo a conoscere qualcosa o qualcuno che non avevamo mai visto prima, e che non rivedremo mai più così.

Le cose là fuori, nella natura o per le strade di qualsiasi città, hanno quasi sempre, misteriosamente ma indiscutibilmente, una loro naturale collocazione, determinata da eventi casuali. Gli oggetti vengono spostati dal vento, modificati dalla pioggia o dall’azione involontaria dei passanti, e stanno sempre là dove sembra che davvero debbano stare. E poi la luce si alterna all’oscurità, il giorno alla notte, spesso basta un attimo, quando una nuvola copre il sole, per mutare l’apparenza delle cose, trasformare un paesaggio in un altro, da un momento all’altro sotto i nostri occhi, noi impotenti e affascinati, o impauriti. All’interno, nelle case, sta generalmente a noi decidere dove una certa cosa dovrebbe stare, e lo stesso vale per una mostra, sia pure con motivazioni, apparentemente, differenti. Si tratta di stabilire un ordine, sia pure temporaneo, effimero, che abbia la stessa naturalezza che riscontriamo là fuori, dove generalmente regna il caos, dove in genere nessuno realmente decide la collocazione delle cose, che è peraltro instabile, oltre che indeterminata. In una mostra, dove degli oggetti vengono costretti a convivere in uno spazio, il compito di chi allestisce, di chi deve decidere questa collocazione, è arduo. Deve sostituirsi al caso, al vento e alla pioggia, perché il risultato di questo compito, ancorché provvisorio, serbi, sia pure per un tempo limitato, l’energia immanente e l’autorevolezza del caos che regna là fuori. La partenza è da un campo vuoto, vasto e indecifrabile, di cui non è possibile stabilire un inizio, un accesso, una fine o uno sbocco. Da lì si comincia a tracciare un percorso, che non sappiamo dove può portarci, ma sappiamo dover essere chiaramente tracciato, percorribile quindi, perché questa è la vera natura di una strada, che si può percorrere anche senza darsi una meta, perché la sua vocazione è quella di condurre, di non porre limiti al movimento, ma di mantenere attiva l’energia che ci spinge a percorrerla, ovunque possa portarci.

Andrey Tarkovsky, “Stalker”
Roman Polansky, “Repulsion”
Thomas Bernhard, “Eventi”
Tanizaki Jun’ichirō, “Libro d’ombra”
Eric Rohmer, “Le rayon vert”

[testo scritto fra il 17 novembre 2007 e il 9 febbraio 2008, tratto dal libro “Allestire una mostra – e altre iniziative apparentemente inutili (storie di e/static e blank, 1999-2018)”, attualmente in preparazione]