Lo spazio espositivo, un organismo vivente

The land is not the setting for the work but a part of the work.
Walter De Maria, The Lightning Field, 1980

Nello spazio contenitore (il cosiddetto white cube) il fluire viene deliberatamente trattenuto, interrotto, e ogni legame con il mondo fuori, della realtà in divenire, reciso. Io credo invece che il compito precipuo di chi si appresti ad allestire una mostra di opere d’arte dovrebbe sempre essere proprio quello di attivare questo fluire al massimo delle possibilità offerte dallo spazio, liberandolo al suo interno, in modo tale da infondere questa energia dinamica nelle opere, nello spazio stesso, negli stessi visitatori, perché vengano, tutti, liberati a loro volta.
Attraverso la lunga esperienza di e/static, collaborando con tutti gli artisti che hanno presentato i loro progetti originali, ho imparato a considerare lo spazio come uno degli elementi dell’allestimento, altrettanto importante quanto le opere, e nel tempo questa attitudine si è talmente connaturata in me che non ci dovevo nemmeno più pensare, mi veniva naturale, come credo succeda a un suonatore di violino o altro strumento, o come scrivere per uno scrittore, eccetera. Perché l’allestimento di una mostra è un atto creativo, messo in pratica utilizzando, oltre alle opere, lo spazio, la luce, il tempo, senza dimenticare mai che tutto viene fatto perché qualcuno, poi, entri e cammini nello spazio, guardando, ascoltando, pensando, vivendoci insomma, per qualche tempo. Ecco, ci vuole tempo, e attenzione, altrimenti sarebbe meglio non andarci, non entrare, per non offendere il luogo dell’allestimento con la propria disattenzione e superficialità, che equivalgono a una mancanza di rispetto nei suoi confronti. Quindi la fretta non va bene, perché impedisce di aderire al tempo dell’allestimento, che è generalmente lento, anche quando dovesse comprendere una sola piccola opera collocata in un grande spazio e vista da una certa distanza, talvolta talmente lontana dal centro della scena da risultare inapparente, se non addirittura invisibile, alla prima occhiata. Così come ci vuole un po’ di tempo prima di arrivare a stabilire cosa c’è in quello spazio e il senso del suo esserci, anche e soprattutto quando quel che c’è può apparire dimesso e defilato, come se si nascondesse, e allora va cercato, o per meglio dire atteso, con pazienza e umiltà. La stessa sua pazienza e umiltà.
Per quanto invece riguarda chi lavora in quello spazio: ciò che vi è allestito, nel corso di una mostra, va rispettato, vigilato e accudito quotidianamente da qualcuno che se ne prenda la responsabilità, e in questo modo, attraverso questa pratica, questa cura assidua, da un certo punto in avanti esso può iniziare ad essere amato allo stesso modo di una persona o un animale. Forse l’esempio in assoluto più calzante di questo comportamento venne dato dalla persona che per moltissimi anni si occupò della cura della celebre installazione permanente di Walter De Maria, allestita in un appartamento di Soho, a New York, la Earth Room. Quest’uomo, Bill Dilworth il suo nome, dedicò ben 23 anni della sua vita al compito di mantenere costantemente l’opera nel suo stato ottimale, originario (a partire dal 1977), effettuando periodiche pulizie e veri e propri ‘ricondizionamenti’ dell’enorme quantità di terra, togliendovi tutte le piantine che irresistibilmente, di quando in quando tentavano di svilupparsi, soprattutto nei primi anni. Per riuscire in quest’impresa, si dovette creare fra lui e l’opera un vero e proprio legame affettivo, in cui egli, presumibilmente, recitava la sola parte attiva. Non considerò mai l’impresa come un lavoro alienante, e non si sentì mai mosso da un obbligo astratto, il suo rapporto con la terra essendo diretto, senza mediazioni né obblighi provenienti dall’esterno.
Il titolo di questo capitolo comprende l’espressione ‘un organismo vivente’, e ci fu certamente un’occasione in cui questo fu, letteralmente, il caso: l’intervento, durante circa cinque mesi, di Andrea Caretto e Raffaella Spagna sul terrazzo di blank, Soil Practice, di cui si parla approfonditamente in altri capitoli del libro.

[testo scritto nel gennaio 2020, tratto dal libro “Allestire una mostra – e altre iniziative apparentemente inutili (storie di e/static e blank, 1999-2018)”, attualmente in preparazione]