Quando scrivo, dopo un’esperienza vissuta, è come se formassi inizialmente una griglia, una specie di trappola che ha il potere di trattenere – e far emergere – livelli nascosti, impensati, che approfittano dei varchi creatisi per materializzarsi. Sono cose che non avevo previsto – anzi, le ignoravo proprio –, che spuntano fuori, infilandosi fra le maglie della rete, e devo soltanto assecondarle, facilitarne l’emersione, come una levatrice col nascituro. Si deve pazientare, e soprattutto non dare mai il pezzo per finito, perché non può essere tale, forse mai. Sopravviene sempre qualcosa di inaspettato a cambiare le carte in tavola, portando spesso il pezzo verso direzioni inopinate.
Determinante è la costruzione di quella griglia, che deve essere solida ma anche piena di falle, fra le quali si insinueranno certi visitatori non invitati, ma bene accetti. E certi varchi nella rete è bene che rimangano sempre liberi, vuoti, anche se ciò che li attraversa non è visibile. Però c’è, si percepisce assai vagamente ma c’è.
Queste cose, questi visitatori non invitati, erano bensì già presenti, ovvero immanenti, nell’esperienza. Oppure no. Su questo aspetto preferisco non pronunciarmi, non ancora. Non posso escludere l’eventualità che essi vengano dopo, quando la griglia iniziale è stata fabbricata. Da essa sono bensì attratti, trattandosi giustappunto di una trappola, qualcosa che sta fermo, in attesa della preda. Come la ragnatela costruita dal ragno, la stessa cosa: ferma e solida.
Naturalmente, questo processo ha avuto luogo anche ora, in questa particolare occasione. E non è detto che sia finito.
Insomma, essi pertengono bensì soprattutto al momento in cui sto scrivendo, da lì scaturiscono.
Archivi categoria: Miscellanea
come e perché Nel bosco
Nel bosco nacque da un’esigenza sorta all’epoca di Before and after sound, una mostra collettiva del 2003, e dall’esperienza che ne seguì. L’idea era quella di fare un invito non banale, e trattandosi appunto di una collettiva volevo evitare un’immagine troppo legata a uno soltanto degli autori presentati. Non sapevo cosa fare, finché mi venne in mente l’immagine dei cerchi nell’acqua, spesso rappresentativa delle onde sonore che si propagano a partire da un fenomeno acustico. Ricordo anche che ho sempre in qualche modo associato questa immagine ad Akio Suzuki, e questo nesso non è mai venuto meno nel tempo, pur rimanendo in buona parte oscuro il motivo che vi è sotteso. Decisi che sarei andato fuori città in cerca di un corso d’acqua, oppure un laghetto, dove avrei fotografato i cerchi provocati da me stesso sulla superficie dell’acqua gettandovi dei sassi. La Val Pellice era, per una specie di automatismo mentale (la conoscevo bene, ci andavo da anni), il luogo adatto, e proprio là sarei andato per fare le foto. Arrivato in valle mi diressi subito verso un’altra, laterale, più stretta e più corta, la valle d’Angrogna, che pure conoscevo piuttosto bene, ed essendo più piccola e meno frequentata mi avrebbe permesso di muovermi più agevolmente alla ricerca del luogo giusto. Subito mi resi conto che il torrente che dà il nome alla valle non andava bene per quel che volevo fare: la corrente è sempre troppo forte, impossibile creare dei cerchi, si perderebbero immediatamente, trascinati via senza neppure potersi formare compiutamente. Ero piuttosto deluso, mi sentii uno sciocco, finché non mi venne in mente di cercare uno dei ruscelli che si buttano nell’Angrogna, alla ricerca di qualche specchio d’acqua calma. Ne trovai ben presto uno addentrandomi nella boscaglia, dove mi sentivo nascosto e protetto – per come sono, farmi notare mentre faccio una cosa anomala per i più, è una cosa che cerco sempre di evitare. C’era anche una bella luce, i raggi del sole penetravano fra i rami, rompendosi, e l’acqua risplendeva di un bel colore caldo, fra il giallo e l’arancio (credo che si fosse vicini al tramonto, era aprile): tutte queste cose, impreviste, avrebbero contribuito alla qualità delle fotografie. Ne feci tante, tutte diapositive, e tornai infine a casa, in città, piuttosto soddisfatto. Dopo, vedendo le diapositive sviluppate, ebbi la prova che tutto era andato bene, così scelsi un’immagine che, dopo essere stata scansionata, finì sull’invito, parzialmente coperta dai nomi di tutti gli artisti partecipanti alla mostra.
Dopo qualche tempo, non so quanto, ma credo dopo l’inaugurazione della mostra, rivedendo più volte tutte le immagini, in un qualche modo che ormai non ricordo più iniziai ad associarle a frammenti di Ise monogatari, che stavo rileggendo (ce l’avevo da molto tempo e l’avevo già letto forse anche più di una volta) proprio in quel periodo, fra aprile e maggio 2003. Così ebbe avvio il progetto del libro, che pubblicai, dopo ripetute prove – soprattutto sui testi, che non erano tutti semplici estratti dal libro, ma avevo bensì spesso rielaborato, inventando anche qualche passaggio – soltanto nel 2008, in pochissime copie.

C’erano in quell’esperienza aspetti molto personali, emergevano dai testi e dalle stesse immagini, soprattutto il modo in cui le avevo fatte, durante quella spedizione in val d’Angrogna. La fuga dalla città dove vivevo già da trent’anni e più, nella quale non mi ero mai completamente ambientato (situazione ancora immutata, dopo altri vent’anni…) e poi certe vicende vissute in prima persona o forse evocate – oppure immaginate – dall’autore dell’antico testo giapponese, alle quali era facile sovrapporre le stesse mie vicende, storie che mi avevano molto segnato e dalle quali non ero ancora veramente uscito, non del tutto. È poi facile notare la forte somiglianza del fenomeno (un sasso gettato nell’acqua di uno stagno) con quello evocato da Bashō nel suo celeberrimo haiku, quello della rana, anche se me ne sono reso conto soltanto in seguito, recentemente. E qualche tempo dopo – sempre in anni recenti, direi, all’epoca mi era sfuggita – la somiglianza di certi aspetti dell’esperienza (soprattutto i raggi di luce che penetravano fra i rami illuminando lo specchio d’acqua) con un evento analogo che ricorre in un’altra celebre opera, il film Rashomon di Kurosawa: quel raggio di sole furtivo che colpisce Tajōmaru proprio mentre guarda la bella moglie del samurai, eccitandolo, lui che stava sonnecchiando nel bosco sfinito dal caldo. Proprio Nel bosco, infatti, è il titolo del racconto di Akutagawa da cui Kurosawa trasse il film. Ma questo non lo sapevo, allora, dato che lessi il racconto soltanto parecchi anni dopo1.
Infine, la scelta che feci all’epoca di reiterare l’attacco «Tempo fa un uomo…», mutuato dal libro, ottenendo quella ripetizione ossessiva, e l’ultimo testo che non chiude la vicenda ma la riapre bensì, innescando un loop che potrebbe non avere mai fine… Questi sono aspetti della mia personalità che emergono spesso in ciò che faccio, soprattutto nel modo in cui scrivo: la mia ossessività, il mio ripartire sempre dalla fine, che è poi un nuovo inizio, instancabilmente, e ossessivamente, appunto. Poi la mia inestinguibile attitudine verso la fuga2 da tutto ciò che mi fa male, da cui mi sento schiacciato e soffocato, che limita la mia libertà (e sono tanto cose quanto persone). E la tendenza a nascondermi, ad allontanarmi dal centro dalla scena, andando là dove nessuno mi vede e posso finalmente sentirmi a mio agio, proprio perché ignorato e inosservato.
Tutti questo aspetti sono presenti in Nel bosco, che quindi mi rappresenta, io credo, come forse nessuna altra cosa che ho fatto.
1 Nel film di Kurosawa è un raggio di sole, nel racconto di Akutagawa invece, una folata di vento scopre il bel volto della donna proprio mentre il bandito la sta guardando. Ma la vicenda della bella rapita dal bandito sicuramente si può trovare in almeno due dei frammenti di Ise monogatari che ho usato nel libro. Possibile che Akutagawa, scrivendo il suo racconto, avesse in mente queste parti di quel libro antichissimo (per lo più attribuito a Ariwara no Narihira), uno dei classici della letteratura giapponese più celebri e più amati in quel paese.
2 In Ise monogatari si fa spesso riferimento a un gentiluomo che si allontana (forse fuggendo) dalla capitale e va verso la campagna, muovendo da un contesto civilizzato e mondano a uno naturale, dove vivere piuttosto in solitudine. Anche questo aspetto, che si ritrova nella mia personale vicenda – soprattutto in quegli anni, ma non soltanto – stabilisce con quel testo un preciso legame.
Nei dintorni del testo
In quello che scrivo ciò che è veramente importante rimane fuori, eludendo la descrizione. È comunque presente, da qualche parte lì nei pressi, e di quando in quando sfiora il testo, gli passa accanto senza fermarsi, senza che lo si possa mai vedere completamente, Come qualcosa che si intravede appena, con la coda dell’occhio, un attimo prima che scompaia.
In quei momenti, il testo si illumina, risonando, e sembra prendere realmente vita.
A proposito di un noto regista asiatico, anche
Le installazioni ‘immersive’ della cosiddetta arte contemporanea sono una discendenza diretta di certi ‘baracconi’ dei luna-park. Ce ne erano di diversi tipi un tempo ormai lontano (quando frequentavo i luna-park, moltissimi anni fa) e non so bene se essi esistano ancora, o ne siano state create nuove tipologie. Allora c’erano svariate “case delle streghe”, o “castelli dei fantasmi”, che avevano l’obiettivo di sorprendere, stupire e soprattutto spaventare. Poi c’erano quelli, più semplici, direi proprio ‘minimali’ che giocavano sull’alterazione della percettività dei visitatori, e il più emblematico, direi, era la “casa degli specchi e dei vetri”, un labirinto dove era molto facile perdersi, ingannati, appunto, da pannelli di vetro che fingevano aperture e da specchi che confondevano chi vi veniva riflesso (soprattutto quando, in quei punti, l’illuminazione lasciava molto a desiderare). Uscirne, dopo diversi minuti, era sempre un sollievo, dopo aver provato ansia, inquietudine, perfino angoscia cercando una via d’uscita verso l’aperto che a volte sembrava del tutto introvabile.

Ora, con l’ausilio di proiezioni video e/o di emissioni audio, all’interno di ambienti in ombra – o anche, talvolta, nella piena oscurità – succede un po’ la stessa cosa, e la gente, dopo aver pagato il biglietto d’entrata (come allora, nei luna-park) cerca qualche minuto di innocuo spaesamento, di inquietudine ‘a tempo’ – finché si sta lì dentro – aggirandosi in qualcuna di queste installazioni immersive.
Probabilmente, il primo artista visivo a creare certe installazioni essendo consapevole della loro filiazione da certi ‘baracconi’ è stato Bruce Nauman. Ricordo, per averle visitate molti anni fa, quelle in forma di corridoio, dove, con il solo ausilio di un monitor video (e di una videocamera accuratamente posizionata, nascosta alla vista dei visitatori) si poteva vivere un’esperienza sia pur breve, o brevissima, ma davvero spaesante, ‘fastidiosa’, e soprattutto non consolatoria. Perché, a differenza di quei ‘baracconi’, dai quali si poteva uscire, dopo un tempo più o meno lungo di sforzi e disagi, e tornare ad assaporare l’aria libera, rassicurante, del mondo al di fuori, da questi si usciva, sì, anche molto più facilmente, ma portandosi dentro un certo malessere, accusato là dentro e dal quale non era per niente facile liberarsi. Chi li ha visitati capirà cosa sto dicendo, pensando ad esempio al doppio corridoio (due paralleli, uno all’andata e uno al ritorno, per uscirne) che aveva in fondo un monitor in cui si vedeva la nostra nuca. Si facevano acrobazie, si provava ad essere rapidissimi per sorprendere un invisibile avversario (noi stessi…), ma niente, sempre e soltanto la nostra nuca vedevamo, e l’angoscia provata poteva essere intensa, per cui ci si affrettava a uscire da lì, scoraggiati e frustrati. Ricordo anche i molti ambienti, del tutto spogli, spesso illuminati da quel tipo particolare di lampade usate nei tunnel automobilistici, che eliminano la possibilità di vedere i colori, e tutto quel che vediamo è in bianco e nero, leggermente virato sull’arancio (il colore effettivo della luce di tali lampade). Alcuni, che non avevano porte né aperture, erano inclinati rispetto al suolo in modo da creare su almeno un lato un’apertura che consentiva l’accesso, sia pure piegando la schiena e le ginocchia, invero scomodamente.
La caratteristica, insomma, di tali ‘ambienti installativi’ è quella di non permetterci di sfuggirvi con la nostra abilità, con le nostre doti mentali e fisiche, essendoci posti problemi di fatto insolubili, a differenza di quegli altri. Che, in buona sostanza, avevano il preciso compito di creare dei surrogati di realtà, mimando situazioni di pericolo, o quanto meno di difficile soluzione, che la realtà vera, là fuori, propone con sempre minore frequenza agli uomini (con l’eccezione di quelli coinvolti in guerre – quasi soltanto al di fuori del mondo occidentale – o travolti da fenomeni fisici di terrificante intensità e potenza, come terremoti, inondazioni e altri eventi distruttivi eccezionali, come gli incidenti d’auto e i crolli di ponti o case). Da molti decenni chi vive in questa società è sempre più sottoposto a un processo esponenziale di anestetizzazione e la vita ormai è soltanto più sopravvivenza, eliminati (almeno apparentemente) tutti o quasi tutti i rischi, ma anche la varietà di occasioni che ha sempre costituito, nel corso di tutta la storia dell’umanità, il contesto necessario a chiunque per crescere, rispondendo a una continua sollecitazione con una continua, incessante diversificazione, privilegiando l’intensità e qualità della vita piuttosto che la sua durata e la sua (illusoria, peraltro) sicurezza, come sta avvenendo ora, da un bel po’.

Avevo iniziato a scrivere questo testo pensando al caso di Apitchapong Weerasethakul, il noto autore thailandese che da una ventina d’anni si muove, con sempre maggior disinvoltura, fra due campi (almeno), ovvero fra il cinema vero e proprio – con lungometraggi proiettati all’interno di sale o visibili in privato su vari dispositivi – e l’installazione artistica, generalmente di tipo immersivo, o la performance. Spesso, in un suo film, si inizia a seguire una linea narrativa – o più linee narrative in contemporanea – che d’improvviso si interrompe per lasciare il posto a immagini o situazioni che paionio ammiccare a tali installazioni o performance, e che possono avere un qualche nesso con quella o quelle storie oppure non averne alcuno di evidente. In questo modo, si spegne, o quanto meno si attenua di molto, l’intensità della nostra attenzione, che viene distratta e perfino disinnescata da certe sorprendenti intromissioni. Ci si sente un po’ svuotati, come sempre in seguito a un rilassamento, ma si assiste comunque – sia pure piuttosto passivamente, mentre prima il nostro coinvolgimento era ben maggiore – a quelle nuove situazioni, incongrue, quando non incompatibili, rispetto a quelle precedenti. Apparentemente, tale modalità è mutuata dai sogni, dove, com’è noto, tutto avviene quasi sempre all’insegna dell’incoerenza e della inconsequenzialità. Epperò accade poi spesso che certi segmenti dei suoi film vengano traslati, più o meno integralmente, all’interno di spazi espositivi, per lo più museali, dove sembrano trovare la propria sede naturale, che gli dà modo di manifestare l’innata natura di ambienti in cui sia possibile esperire situazioni di presunto, fallace, pericolo, o comunque di spaesamento, come quelli che considero i loro progenitori, quei baracconi dei luna-park di un tempo. Ad apparentarli piuttosto strettamente, secondo me, è proprio il fatto che – a differenza degli ambienti scomodi e disturbanti di Nauman – il loro fine è o consolatorio oppure meramente ‘entertaining’, per darci emozioni effimere che, appunto, surrogano quelle reali – sempre vissute con un forte senso di rischio e di fatica e difficoltà – che ci sono state sottratte, e che non non possiamo quasi mai vivere nella vita di tutti i giorni. In questo senso ora sto cominciando a vedere l’opera di A. W. in un modo diverso da prima, quando mi meravigliava e mi affascinava per la sua diversità (anche se film come Lo zio Boonme che si ricorda le vite precedenti e Tropical Malady mantengono ancora la loro forza, proprio per il fatto di costituire, ognuno, un corpo variegato ma integro, non spurio come altri, e possiamo continuare a vederle come dei sogni, sia pure lontani da noi) e trovo sospetta la sua forte porosità, se non proprio promiscuità, nei confronti della cosiddetta arte contemporanea. Che, a differenza dei suoi film, tutti generalmente girati fuori, nel mondo reale, spesso con attori non professionisti, ha luogo nel chiuso di ambienti deputati a quell’uso, luoghi istituzionali, gallerie, musei, biennali e fiere d’arte. Finendo, ineluttabilmente, per riproporre il fenomeno di quegli antichi baracconi, che offrivano occasioni a buon mercato per vivere esperienze fittizie e superficiali con un doppio fine: divertire prima, anche con situazioni di apparente (ma tutto sommato assai limitato) rischio, e quindi consolare. Anche così, io credo, si collabora all’immane opera di anestetizzazione in corso nel mondo, soprattutto nella sua parte occidentale, già da molti decenni, e in continua intensificazione e crescente, irresistibile, efficacia. Un’opera che sembra avere come fine la progressiva sottrazione di ogni spazio di libertà per ogni uomo sulla Terra, tutti infine dominati e controllati continuativamente e ovunque, ma senza che essi (cioè noi…) nemmeno se ne accorgano, perché, appunto, anestetizzati1. Apparirà, forse, stupefacente che certe conclusioni possano provenire da una nuova visione dell’opera di questo autore, per molti, quasi per antonomasia, un campione della o delle libertà, rappresentante dei diversi e degli emarginati. Diciamo che ho iniziato a insospettirmi notando la crescente frequentazione da parte sua dei luoghi istituzionali dell’arte cosiddetta contemporanea, mostrandovi spesso parti, magari un po’ modificate, dei suoi film. Ma soprattutto quando – come in Syndromes and a Century, nella seconda parte soprattutto – mi accorgo, vedendo o rivedendo un suo film, che mancano, quasi del tutto, le situazioni in grado di farci provare una certa sensazione di disturbo, di inquietudine che non si può facilmente risolvere, ma a cui si finisce per arrendersi. Quegli aspetti, insomma, che erano emersi con forza nelle sue opere più riuscite, soprattutto Lo zio Boonme… e Tropical Malady (la straordinaria seconda parte), dalle quali, quando mi capita di rivederle, ricavo sempre nuovi stimoli e sottili trasalimenti, e hanno poco o nessun carattere deliberatamente consolatorio.
Ma anche fermandosi al di qua di certi limiti (“rimanendo ai fatti”, come si suol dire), io credo che si possa dire una cosa: il cinema è sogno, da sempre, non esiste niente di più simile, nessuna espressione artistica va così vicina, fino a, spesso, identificarcisi, alle dinamiche oniriche, come il cinema (grazie soprattutto al suo essere composta di immagini e suoni). Perché mantenga questa caratteristica essenziale andrebbe mantenuta, e preservata, la distanza fra il film proiettato e lo spettatore (peraltro già messa in discussione dalla modalità cosiddetta ‘Dolby Surround’, con l’uso dei sistemi di emissione sonora 5.1 e i diffusori sparsi un po’ ovunque per avvolgere lo spettatore), e non annullata come accade in certe installazioni cosiddette immersive, che vorrebbero dare l’illusione a chi le visita di trovarsi proprio dentro al cinema, ovvero nel sogno. Altrimenti, ineluttabilmente, si finisce, consapevoli o meno, per fare dei parchi a tema, tante piccole disneyland, dove la magia del cinema va perduta, proprio perché quella distanza vi è annullata; dove si pretende di avverare il sogno, passando dall’erotismo – che è connaturato alla visione cinematografica – alla pornografia, ovvero dalla sublimazione alla consumazione.

Possibile che A. W. volesse deliberatamente fare tanti piccoli segmenti di una disneyland atipica, con diversi personaggi e situazioni, più adatti, queste e quelli, ai nostri tempi (più contemporanei)? Penso e spero di no, anche se probabilmente non si è (ancora) reso conto che tutto il grande mondo della cosiddetta arte contemporanea – soprattutto la parte più ricca, quella più vicina alla punta della piramide: ricchi musei, grandi biennali e fiere – questo è: un’immane disneyland, che dilatandosi a dismisura deve per forza annullare (fagocitandolo) anche il cinema così come era dalla sua nascita e come l’abbiamo conosciuto e amato per circa un secolo*.
*: Vedere voce Le sale cinematografiche su Enciclopedia del Cinema Treccani, di Gian Piero Brunetta
1 Forse l’obiettivo di tutta l’arte contemporanea – come sistema – è di fornire un surrogato sempre più convincente della realtà, una sorta di sdoppiamento grazie al quale viene a materializzarsi un ambito in cui succedono (si vedono succedere) tutte le cose che di qua, nella vita reale, non succedono più, anche se quasi nessuno pare essersene accorto. Non è più come prima, quando quadri e sculture stavano ‘al loro posto’, ora, da quando si fanno installazioni sempre più grandi e ingombranti, oppure performance brulicanti di ‘attori’, l’arte cosiddetta contemporanea occupa molto spazio sottratto alla vita e si propone come spettacolo in cui viene rappresentata una vita virtuale, a cui i visitatori assistono inermi, passivi.
The beat goes on

Una persona si allontana da noi voltandoci le spalle, istintivamente guardiamo nella sua direzione, seguendola per un po’, con un’azione del pensiero. Perché partendo essa ci sottrae, oltre alla sua presenza, molte cose che la sua presenza aveva creato in noi, occupando uno spazio, un volume. È un movimento istintivo e spontaneo il nostro, in-deciso, con certe caratteristiche di un fenomeno fisico, qualcosa di simile al principio dei vasi comunicanti, per cui togliendo da un contenitore parte del suo contenuto liquido, il vuoto che si forma deve al più presto essere riempito, o meglio, proprio formandosi questo spazio disponibile, che prima non c’era, lì si crea un ‘surplus’ di energia potenziale, che si trasmette a tutto il resto, e questo movimento mette bensì tutto lo spazio di quel contenitore in azione, provocando una rivoluzione del sistema di rapporti precedente [lo status quo]. Tutto ciò accade nell’ombra, sotto la superficie, traducendosi appena al di sopra in modificazioni dell’atteggiamento, mentre intere costellazioni di pensiero devono mutare forma e direzione, perché spostandosi il punto di vista cambia anche la percezione delle cose, quelle che abbiamo lasciato partendo (anche solo mentalmente) con chi ci ha lasciati, prendendo la sua stessa direzione e guardando indietro da laggiù, dove siamo arrivati seguendolo, anche solo con lo sguardo.
Innanzitutto, consideriamo come gran parte dei nostri progetti falliscono, e fallendo ci impongono un arresto, quando non ha più senso – improvvisamente lo ha perso – procedere nella direzione predeterminata, ché ha perso di valore e di interesse. Ci sono diverse valutazioni da fare, tutte positive, anche se è molto difficile constatarlo subito, tanto forte è il contraccolpo della delusione. Ad esempio, l’arresto di marcia, per l’impossibilità a procedere, impone di guardarsi intorno cercando una via alternativa, e l’attenzione viene rivolta anche a ciò che avevamo disprezzato e scartato, nel momento della decisione, ma che adesso, ripartendo da zero, riconsideriamo. Così ci troviamo di fronte a cose apparentemente diverse, ma che in verità sono poi le stesse, con un altro nome, e imbocchiamo strade che ci eravamo convinti non potessero interessarci, le imbocchiamo in un punto diverso da prima, venendo da un’altra direzione (stiamo infatti tornando sui nostri passi) e allora sono davvero diverse, altre strade. Ma anche l’inazione che spesso segue al fallimento può essere positiva e feconda, perché si attivano altri strumenti sensoriali, utili per una percezione diversa del luogo in cui ci siamo fermati; perché la nostra immobilità ci mette a confronto col movimento continuo di tutto il resto, e di questo spettacolo ci impregniamo, acquisendo dati preziosi, che ci sfuggirebbero passandovi accanto correndo, lo sguardo fisso verso l’obiettivo.
Fallire un progetto (e non deve per forza trattarsi di un fallimento totale, anzi spesso le imprese, o le opere, parzialmente fallite, o parzialmente riuscite, sono le più forti) significa anche conservarne la maggior parte di energia, quella inespressa, che rimane intorno ai resti dell’insuccesso, pregni di ciò che è rimasto nell’aria, ed è sempre ancora sul punto di manifestarsi, infinitamente disponibile a farlo. Il cosiddetto successo, quando consiste nella totale realizzazione delle premesse, nel completo trasferimento dalla sfera ideale, del possibile, a quella concreta del realizzato, del compiuto, ci espone al pericolo dell’idolatria, dell’adorazione di un simulacro che assorbendo nella sua forma tutta l’energia dell’idea l’ha effettivamente consumata, esaurendola, impotente ormai a suscitarne di nuova in noi.
Infine, la consapevolezza di non essere riusciti a realizzare l’idea mantiene in noi sempre vivo l’interesse per quell’entità sfuggente, che pure riusciamo ogni tanto a riprendere, anche soltanto per il tempo di un battito di ciglia, quando si ricompone davanti a noi nell’aria. Intorno a quei resti pare che resti infatti un alone, un pulviscolo in sospensione che ritrova occasionalmente una forma già perduta, che ancora perderemo, e potremo ancora ritrovare, indefinitamente.
Si potrebbe davvero dire che sta alla cura dell’artefice far sì che l’opera sia difettosa, imperfetta, parzialmente fallita quindi, in modo da lasciarla libera, alleggerita della zavorra della compiutezza, della perfezione, che consiste bensì in una cristallizzazione dell’energia presente nel momento della creazione. Il quale dovrebbe rimanere sempre aperto, permettendole di circolare e di rinnovarsi nel rapporto conoscitivo messo in atto dal fruitore. Sta nel non detto, nel non espresso (seppure intuito) la forza dell’opera veramente riuscita, o meglio nel giusto rapporto fra quella porzione invisibile e quanto si può invece percepire coi sensi (vista, udito, tatto, ecc.).
Momenti che vengono riconosciuti come errori all’interno di un progetto, di un’opera, potrebbero diventare elementi costitutivi di un’altra opera, di un differente progetto. Si verificano casualmente (è questa la natura dell’errore) e sono portatori di possibilità impreviste, che da quel momento in poi sono disponibili. Da lì si può ripartire, cambiando direzione, per seguire la strada che esso ci indica, anche se non sappiamo dove può portarci.
C’è nella fase di elaborazione, e poi nella realizzazione, di un’opera, un’accumulazione di energia che poi vi rimane per qualche tempo, progressivamente dissipandosi. Quindi l’opera rimane a rappresentare quel tempo così vitale, e anche quando nulla rimane, se non una sua descrizione, o la testimonianza, filtrata o rielaborata dal ricordo, proprio il ricordo può riuscire a riattivare quell’energia, rigenerando l’opera e riattivandola . Ma la memoria non distingue tra realtà effettiva (l’opera) e ‘immaginazione’ (il suo progetto, spesso più ampio, o diverso), così può essere ricordata, e perciò ricreata, altrettanto bene la seconda quanto la prima.
(testo scritto nel 2009 e revisionato oggi, 16 marzo 2023)
La mosca sul Monviso

L’altro giorno, mentre stavo dando un’occhiata al sito di e/static, mi accorgo che una certa immagine ha un difetto, una specie di macchiolina, e mi infastidisco un po’, dato che non so usare photoshop, quindi o la eliminavo, oppure me la sarei dovuta tenere così per sempre (il sito è prossimo ad essere, finalmente, ‘congelato’, diventando archivio a tutti gli effetti, non più modificabile). Guardando meglio, ho visto che non era una macchiolina, bensì una mosca, o meglio, un moscone, appoggiato su un vetro della finestra, in una posizione tale da farlo apparire più in alto della punta del Monviso sullo sfondo. Così sono andato a recuperare il file originale, per poterlo ingrandire e vedere bene il moscone, la cui presenza lì in quel punto trasforma l’immagine da quasi banale, nella sua icasticità (quel Monviso maestoso e solenne che pare fluttuare nell’aria a un km dalla casa di Sonia Rosso) a un qualcosa di veramente prezioso, un momento irripetibile di cui non credo mi fossi accorto mentre scattavo la fotografia, quasi dieci anni fa.
La mosca, anche se ci vuole molta attenzione per rendersene conto, una volta individuata come tale, aguzzando lo sguardo, immediatamente ruba la scena al Monviso. Che poi, a dirla tutta, non gliene poteva fregare di meno a nessuno dei due: alla mosca di sicuro, e men che meno al Monviso.
[testo di una mail a un’amica, scritta il 15 aprile 2022]
tre testi del 2019 sull’Isola in città
Primavera sull’isola
L’isola circolare con il bosco sopra, che attraverso spesso durante le mie passeggiate, oggi appariva nel suo pieno splendore, con le piante ormai tutte rigogliose, e per chi ci stava sotto, seduto o in piedi, la sensazione di benessere era intensa. Il vento dei giorni scorsi ha pulito l’aria, che ancora risplende, e sotto le piante l’ombra crea un forte contrasto con la luce intensa del primo pomeriggio. Una ragazza che avevo visto poco prima mentre era ferma su una strada non lontano da qui, mentre chiacchierava con un uomo, è riapparsa all’improvviso, camminando lentamente; si è poi fermata nei pressi di una pianta delle più grandi e si è appoggiata al suo tronco, rimanendovi per qualche minuto a guardare verso il recinto eptagonale al centro dell’isola dove giocano i bambini, oggi particolarmente chiassosi, irresistibilmente felici.
(scritto il 20 aprile 2019)
Tre volte nel bosco
Per una serie di coincidenze, sono passato in largo Montebello tre volte nel giro di 24 ore, fra le 17:15 circa di ieri e le 17:45 di oggi. Ieri ero da S., quando stavo per uscire dal suo laboratorio si è messo improvvisamente a piovere, mentre gran parte del cielo era sgombra di nubi e c’era il sole. Sembrava che avesse smesso, così ho deciso di uscire, ma quasi subito ha ripreso a piovere forte, così mi sono fermato sull’isola al centro del largo, dove avevo individuato alcuni punti in cui il pavimento era ancora asciutto, perché lì la pioggia veniva evidentemente filtrata da molti strati di rami sovrastanti. Non ero il solo lì sopra, c’erano anche due ragazzi, che dopo aver temporeggiato per un po’, mangiucchiando da un sacchetto (forse patatine fritte) se ne sono andati, anche se la pioggia non aveva ancora smesso. Io ho resistito ancora a lungo, alla fine ci sono stato per circa un’ora, e quei due o tre minuscoli posti asciutti sono stati raggiunti a loro volta dalla pioggia, anche se lì ne arrivava un po’ di meno. Mi sono mosso quando sembrava che la pioggia calasse (falso allarme…) dirigendomi verso casa.
Stamattina sono passato di lì intorno a mezzogiorno, splendeva il sole, ma non c’era molta gente, per lo più bambini piccoli con i propri genitori. Si sentiva soprattutto la presenza di un uccello (che non ho saputo riconoscere), invisibile ma molto sonoro, che ha cantato per tutto il tempo (10 o 15 minuti) in cui sono rimasto lì seduto su una panchina. Si stava davvero bene, me ne sono andato soltanto perché era quasi venuta l’ora di pranzo.
Nel pomeriggio, poco dopo le 17:30, ero di nuovo lì, venendo da un negozio che si trova nei pressi. C’era molta gente, neanche una panchina libera, ma per quei pochi secondi durante i quali ho attraversato il boschetto sull’isola ho di nuovo percepito un’intensa sensazione di benessere. Stavolta ho notato quanto profonda fosse la penombra lì sotto (a quell’ora c’era un bel sole) e i volti delle persone si intravedevano appena. Immagino che chi si trovava lì a parlare con altre persone dovesse concentrarsi per vedere bene in faccia il suo (o i suoi) interlocutore, quindi tutto fosse lievemente rallentato. Sì, credo che il senso del trascorrere del tempo, per chi si trovava lì, fosse diverso da chi camminava fuori, più lento, e la parlata, così come l’ascolto, più misurati e attenti.
(scritto il 22 maggio 2019)
Cortei di bimbi verso l’isola
Un giorno d’estate (primi giorni di luglio) ero seduto su una panchina dell’isola quando vidi arrivare dalla strada a sinistra rispetto a dove ero io – quindi da SE – un insolito corteo. C’erano almeno 10/12 bimbi, i più grandi sui 4/5 anni, i più piccoli 2 anni o anche meno, accompagnati da due donne. Evidentemente i bimbi di un asilo, probabilmente privato (anche perché quelli pubblici in estate chiudono) accompagnati da due maestre. Una delle quali era piuttosto giovane, mentre l’altra, che guidava il corteo, doveva avere almeno 50 anni. Tutti erano collegati da una corda, piegata in due parti a metà, a cui ogni bimbo stava attaccato con una mano, mentre la maestra più anziana stava davanti, tenendo la corda nel punto di piegatura, e la più giovane in fondo, tenendone in mano i due capi. La maestra alla guida del gruppo si girava continuamente per tenere sott’occhio i bimbi, dicendogli spesso qualcosa, perché non mollassero la presa sulla corda e continuassero a camminare al passo con tutti gli altri, mentre quella in fondo a sua volta li sorvegliava, ma più discretamente. Il piccolo corteo non poteva passare inosservato, e tutti i presenti sull’isola in quel momento guardarono in quella direzione, incuriositi dall’apparizione. I bambini entrarono poi nel recinto dei giochi al centro della rotonda, riservato proprio a loro, e cominciarono, liberatisi della corda, a sciamare in tutte le direzioni, strillando e ridendo, chi direttamente verso giochi e altalene, chi semplicemente correndo intorno, per il puro piacere della libertà, lì dove nessuno dei pericoli incombenti al di fuori – prima di arrivare sull’isola, e poi anche dopo, prima di entrare nel recinto dei giochi – era più presente. C’erano già altri bimbi nel recinto, e si mischiarono agli ultimi arrivati, così lo schiamazzo aumentò di intensità, e l’aria sotto le chiome della alte piante si riempì di grida e risate. Le maestre facevano il loro lavoro, non perdendo mai di vista neanche un bambino, e intervenendo nelle situazioni più delicate, per sedare un battibecco, oppure per evitare che i più piccoli, soprattutto, rischiassero di farsi male per imprudenza.
Era meraviglioso tutto ciò, e non riuscivo a staccare gli occhi dal recinto, dove tante piccole cose – importantissime per i protagonisti – accadevano continuamente, ed era perfino impossibile seguirle tutte [Playtime di Tati]. Era evidente come per loro quel luogo avesse qualcosa di magico ed esprimevano la loro gioia per trovarcisi dentro con la massima spontaneità e senza mezzi termini, urlando, ridendo, correndo. Ma dovevo andarmene, per un impegno, così mi alzai dirigendomi verso la via a SO, passando però accanto al recinto, perché volevo vedere meglio, più da vicino, quei bimbi. Soprattutto d’estate, quando splende il sole, lì sull’isola c’è sempre una penombra, ma nel recinto essa è puntinata da piccoli raggi di luce che penetrano fra i varchi aperti fra le chiome sovrastanti. La luce che viene così a crearsi ha qualcosa di irreale, è come se quei raggi fossero accuratamente predisposti per illuminare la scena in quel modo unico, probabilmente ipnotico e incantatorio per chi si trova nel recinto. Ed essendoci su quasi tutto il suolo un materiale sintetico, morbido e fonoassorbente, non si sente quasi alcun rumore che non siano grida e risa dei bimbi. Mentre mi stavo allontanando, uno di loro mi si è rivolto per dirmi qualcosa sorridendo, con molta naturalezza, come se mi conoscesse, ma io non ho potuto capire bene le sue parole, e gli ho risposto annuendo e ricambiando il suo sorriso.
Tornando lì dopo circa mezz’ora – stavolta provenivo anch’io da SE – ho incontrato lo stesso corteo mentre tornava verso l’asilo, con la stessa formazione molto composta e organizzata, tutti attaccati alla corda. Ora la maestra più anziana parlava, o meglio cantava a voce abbastanza alta, una specie di canzone/marcia, con voce stentorea, scandendo le parole, faceva sentire la sua presenza ai bimbi rassicurandoli e incoraggiandoli a marciare tutti uniti. C’era qualcosa di strano nel suo comportamento, e in questo canto scandito, qualcosa che, io credo, piaceva ai bimbi, calamitando la loro attenzione e cementando la loro unione, mentre si ritrovavano, dopo l’uscita da quell’oasi, nel mondo pieno di insidie e di pericoli, del tutto ignoti e imprevedibili per loro. Ma non avevano bisogno di conoscerli, non sarebbe neppure servito a molto, e la maestra non gliene parlava, ma li teneva avvinti a sé attraverso quel canto prodigioso, a cui tutti si affidavano, rapiti, trovando così la strada sicura del ritorno.
C’era un forte senso di precarietà, fragilità, assoluta vulnerabilità, in quel gruppo di piccolissimi uomini e donne, io lo percepivo distintamente, soffrendone quasi, mentre li guardavo allontanarsi da me, seguendo fiduciosi le loro due maestre, una nonna e una mamma.
Qualche tempo dopo, ero di nuovo lì quando arrivò un altro gruppo di bimbi, questi più grandicelli degli altri. Ancora, il gruppo procedeva compatto verso il recinto dei giochi al centro dell’isola, ma senza alcun elemento tangibile, come la corda, a cui tenersi aggrappati, come gli altri. C’era apparentemente una maggior disciplina, mantenuta da una maestra che palesemente guidava tutto il gruppo, con un’autorità maggiore rispetto alle altre, due credo. Doveva avere almeno 35 anni, sembrava molto sicura di sé e controllava il movimento dei bimbi (forse una quindicina, se non di più) servendosi di ordini pronunciati a voce alta, impartendo precise regole a cui tutti i bimbi dovevano obbedire. Appena entrati nel recinto, subito, con mio stupore, li fece sedere tutti a terra, formando un cerchio, e ricordando loro – mi sembrò di capire – certe norme che dovevano avere appreso in precedenza, preparando la sortita dall’asilo (ma poteva anche essere una scuola, forse erano bimbi della prima classe elementare, iscritti a una scuola estiva). Intanto le altre due maestre si occupavano di sistemare lì intorno certe borse contenenti forse bicchieri e altro, probabilmente per uno spuntino di metà mattina. Mi allontanai da lì per certi impegni, tornandovi dopo circa mezz’ora, e loro c’erano ancora. Ora si sentiva, a volume abbastanza alto, musica ballabile, una cosa molto pop, corale credo, emessa da due altoparlanti (evidentemente portati anche quelli dalle maestre) e i bimbi, tutti bene organizzati, ballavano battendo le mani sopra la testa, unendosi al canto. Le persone presenti sull’isola in quel momento osservavano la scena, alcune di loro sorridendo compiaciute di assistere a quello spettacolo. Mi parve che i bimbi fossero stati portati lì per fare una cosa che avrebbero potuto fare in molti altri posti, quasi ovunque, ma quello non era proprio il luogo giusto. Per la maestra che guidava il gruppo, credo che la cosa più importante fosse tenerli occupati e irreggimentati, scongiurando eventuali rischi provocati dai soliti giochi molto liberi che tutti i bimbi fanno una volta entrati nel recinto. Non credo che fossero stati invitati ad apprezzare la singolare bellezza del luogo, la sua unicità, e mi sembravano quindi (forse esagero, ma non ne sono così sicuro) disadattati, collocati lì come oggetti, sia pure vivi, mobili e parlanti, per fare cose che piacessero anche a loro, ma soprattutto alle maestre e agli altri adulti presenti in quel momento. Magari non ancora disadattati, ma già incamminati / preparati a diventarlo, da grandi: già abituati a eseguire ordini, e a fare cose che altri avevano deciso, in vece loro, che avrebbero fatto. Non mi sembravano liberi e spensierati, gioiosi, come gli altri, quelli attaccati alla corda prima di arrivare sull’isola e dopo esserne usciti. Tutto ciò mi sembrò piuttosto penoso, perciò, sentendomi molto a disagio, me ne andai subito da lì, senza più voltarmi indietro.
(scritto il 2 agosto 2019)
Un luogo perduto
Questi tre testi li ho scritti circa un anno dopo Un’isola in città (pubblicato su Vita in città), e si riferiscono allo stesso luogo. A quell’epoca lo frequentavo ancora spesso, era un passaggio per me obbligato quando dovevo andare in centro (anche perché l’altra possibilità, un incrocio sullo stesso corso, è scomodo e anche pericoloso da attraversare), oppure andando o tornando dal laboratorio di S., una consuetudine che ho smesso da circa due anni e mezzo.
In questo periodo tante altre cose sono cambiate in modo radicale, ad esempio non vado neppure più, quasi mai, in centro, una zona della città che ora mi appare infida, o addirittura ostile, in cui mi trovo a disagio. Lo stesso luogo è cambiato, divenendo a sua volta meno accogliente per me, quasi estraneo, rispetto a quell’epoca.
Sì, è entrata in vigore una nuova viabilità, non si circonda più completamente la rotonda, ma soltanto in parte, in due diverse direzioni. Ma le case intorno sono sempre le stesse, così le piante che ci stanno sopra, intatte, e le stesse persone che la frequentano, per lo più abitanti nella zona, sono più o meno le stesse. Ora però quel luogo non esiste più, è soltanto un ricordo, e posso ritrovare quella certa atmosfera, ormai perduta, soltanto rileggendo questi quattro testi.
Incontri nel bosco
Quel mattino cadde ben presto preda della sua irresolutezza, e si trovò in auto andando senza convinzione, dopo aver deciso, stancamente, dove si sarebbe diretto. Un ripiego, scelto meccanicamente, senza neppure pensarci troppo (e poi, a che scopo? le alternative erano ben poche).
Poi arrivare là, all’imbocco di un sentiero ben noto, ogni passo, si può dire, già fatto tante altre volte in passato, l’ultima soltanto pochi mesi prima. È anche piuttosto tardi, e non avendo portato niente da mangiare sa che dovrà tornare presto, dopo aver percorso forse neppure la metà della camminata, diversamente da tutte le altre volte. Si sente un imbelle, un senso di delusione, perfino di disgusto, lo invade, togliendogli quasi ogni interesse in quel che sta facendo, e che avrebbe fatto.
Eppure lì, quel giorno, doveva accadere, quei momenti impensati, inattesi, ma come preparati dai primi incontri con esemplari di altre specie, più ordinari, meno ambiti; e poi quegli altri, dai colori bellissimi, che però non si possono mangiare, e nessuno li raccoglie.
loro mi hanno messo sulla via giusta, senza che me ne rendessi conto, vederli, e poi fermarmi ad ammirarli, mi ha preparato a quei due incontri.
Il sentiero, ancorché ben tracciato, è stretto, spesso troppo stretto, e ogni tanto si vede poco, a causa dell’erba alta o dei forti contrasti fra luci e ombre. Ma al di fuori c’è il bosco intricato, scomodo da percorrere, costellato di rovi, con salti improvvisi e rami bassi che si frappongono impedendo di camminare agevolmente. Lì perdersi è piuttosto facile, ci si deve muovere con cautela, misurando ogni mossa prima di compierla, già al primo passo si percepisce l’incertezza, ci si sente insicuri, si esita.
era come se mi stessero aspettando, tutti e due, soltanto io potevo arrivare lì quella mattina, oppure mai, perché già il giorno dopo sarebbe stato troppo tardi, perduto il loro fulgore discreto, la loro forza trattenuta, appena dissimulata; gli animaletti del sottobosco, lumache soprattutto, li avrebbero mangiati.
Sporgevano, con uno strano mix di fierezza e discrezione, dal fitto spessore del sottobosco: la loro forza, crescendo, deve essere irresistibile, tirano su erba, ramoscelli, anche piccole pietre se ce ne sono. Tutti e due li aveva presentiti, attimi prima di vederli una sensazione breve ma intensa lo ha avvertito e così si è diretto, finalmente risoluto, là dove aveva vagamente intuito che ne avrebbe potuto trovare almeno uno, oltre una soglia. Aveva subito capito che quella, quelle, erano soglie per entrare nei due luoghi dove li avrebbe trovati, due piccole radure irregolari, relativamente sgombre di rami e rovi.
il primo era sul pendio a circa 130 cm di altezza rispetto al punto in cui mi trovavo quando l’ho visto; il secondo appena un po’ più in alto, direi 150 cm; non erano in basso, ma a un’altezza umana, così non dovevo piegare la testa per vederli, e loro stessi potevano vedermi bene.
perché, ne sono certo, mi stavano aspettando.
Sono stati momenti, pur nella loro brevità, intensi e galvanizzanti, che lo hanno riempito, e rimarranno in lui ancora per diversi giorni.
percepisco ancora quella sensazione, o quantomeno me la ricordo ancora bene.
Una volta trovati, stare lì a lungo, senza neppure più guardarli, se non per pochi attimi di quando in quando; basta essere lì, a pochi passi, sapere che ci sono: questo soltanto conta.
Ora è al centro del mondo, e quel punto coincide con il suo proprio centro, per una volta.
sì, rimanere lì calmi, rilassati, senza alcuna fretta, perché quello è il posto, finalmente ci sono arrivato, e non c’è fretta di fare l’ultimo gesto, staccarli, prima uno poi l’altro, dalla terra, con delicatezza ma anche forza, per farli uscire integri.
Un gesto ben meditato, preparato, e vissuto con intensità, indimenticabile: una mano per afferrare il grosso e forte gambo, l’altra per facilitare il distacco dalla terra.
prima, per qualche minuto, la silenziosa attesa di quel breve gesto, ma senza troppo pensarci, perché sapevo che sarebbe avvenuto con naturalezza, senza neppure deciderlo, così tutta la sua intensità sarebbe stata percepita, per pochi istanti di assoluta pienezza.
Una volta staccati, tenerli in mano è come tenere in mano la propria vita, con una sicurezza che è altrettanto forte quanto labile, perché non può che durare poco. Ma sarà lungamente ricordata, dopo.
[revisione del 19-20 settembre 2022]
Suonare lo spazio espositivo

In certe esperienze musicali alla fine degli anni ’50, ad esempio, nell’ambito della musica pop, credo si possano riconoscere i primi esempi di installazione organica, ovvero di ciò che, qualche anno dopo, si cominciò a fare nel campo delle arti visive, differenziandosi dall’approccio consueto; il quale consisteva nell’appendere singoli quadri alle pareti e collocare singole sculture sul pavimento, lì nei pressi, compresenti, talvolta, ma senza che si stabilisse realmente una relazione fra di loro, e con lo spazio, che fungeva da mero contenitore. Ecco, in certe produzioni di Phil Spector, e dei suoi collaboratori o epigoni, come Larry Levine, Van Dyke Parks e Brian Wilson, lo spazio non è più un elemento passivo, dove inserire gli strumenti musicali per registrarli, ma diventa esso stesso uno strumento, ovvero suona (o risuona) insieme agli altri strumenti. Ogni creazione, ogni pezzo, anche molto breve, come usava allora, è in effetti un collage di suoni, voci, rumori, echi messi insieme accuratamente (per successive aggiunte, uno dopo l’altro) in quello studio, in un determinato momento, in modo tale da collegare fra loro tutti gli elementi (propriamente ‘musicali’ e non), creando appunto un organismo. Esiste, sì – per lo meno esisteva sicuramente a quel tempo – la composizione musicale, trascritta, o trascrivibile, su uno spartito, come era sempre stato, ma quel che si ascolta sul disco è qualcosa di irripetibile, di cui spesso è impossibile farsi un’idea soltanto leggendo lo spartito (per chi è in grado di farlo). Prima, la registrazione rimaneva fedele alla fonte (lo spartito), qualcuno cantava, altri suonavano, e chi fosse andato a vederli cantare e suonare dal vivo avrebbe agevolmente riconosciuto la canzone, perché era facilmente riproducibile anche in quel contesto. Dopo, a partire appunto da Spector e dagli altri, sarà sempre meno possibile, perché la registrazione si avvarrà, sempre più, di elementi eterogenei che non sarebbe stato possibile riutilizzare dal vivo, soprattutto il luogo, ovvero quella sua propria sonorità – una certa peculiare attitudine a reagire a suoni e voci prodotti al suo interno – che non poteva, ovviamente, essere riprodotta altrove1.
Nel campo delle arti visive, l’installazione, già al suo primo apparire, è allora qualcosa di diverso da prima, senza precedenti, si può dire, nel passato, e questa differenza diventa fondamentale quando, appunto, si attua la trasformazione dello spazio espositivo da semplice, passivo contenitore a co-protagonista, insieme alle opere, di una mostra. E come avveniva in campo musicale, a partire dai succitati e poi sempre più intensamente (George Martin e i Beatles, i Rolling Stones, i Kinks e svariati altri negli anni che seguirono), quando da un certo momento in poi si venne a creare una insanabile e sempre più accentuata diversità fra la registrazione di un pezzo e la sua esecuzione dal vivo, anche nell’arte, se è possibile vedere riprodotti fotograficamente particolari di una certa installazione, è però impossibile esperirla compiutamente, se non si è potuti andare là, dove la mostra era allestita. Ciò che è soprattutto – ma non soltanto – evidente quando essa comprende elementi sonori, che pure si potrebbero ascoltare, riprodotti su disco o su nastro, o altro supporto, ma non nello stesso modo che era possibile fare là, in quello spazio espositivo.
Penso a un certo tipo di installazione, dove lo spazio non si limita a contenere una o più opere d’arte ma suona insieme a loro, come loro, a tutti gli effetti un elemento dell’installazione, un suo componente fondamentale.
A proposito di certe registrazioni (Spector ecc.): ne viene una unicità dell’esperienza, che non è più ripetibile. La prima volta è anche l’ultima. Ovvero, se è possibile riascoltarla, per un numero potenzialmente infinito di volte, è impossibile ricrearla. Come avviene per certe performance artistiche, e per certe installazioni, realizzate in quello spazio.
1 In quegli anni si cominciò a fare uso, in certi studi di registrazione, delle cosiddette echo chamber, luoghi appositamente costruiti per creare determinati effetti di riverberazione del suono che prima di allora si potevano trovare sia in natura – grotte o piccole valli – oppure in certi grandi spazi all’interno di edifici, come cattedrali, auditori ed altro; dove spesso tali effetti erano ricercati, per aumentare la potenza, e anche la ricchezza, del suono di voci e strumenti musicali, sicché i costruttori includevano anche tale scopo fra gli altri più convenzionali, come ampiezza, stabilità e solidità. Se si pensa alla musica, soprattutto quella corale polifonica, del Medio Evo e del Rinascimento, essa non poteva, e non potrebbe tuttora, essere eseguita, come le conviene, in luoghi diversi da certe grandi chiese, e addirittura i compositori tenevano conto di certi effetti acustici inerenti alla cattedrale in cui lavoravano (spesso erano monaci), nella creazione delle loro opere. È interessante notare come nella musica cosiddetta popolare si cominciò a sentire, in quel giro di anni, il bisogno di creare, a differenza del passato quando il suono era sempre asettico e secco, senza alcuna impurità, quindi irreale, registrazioni che tendevano a riprodurre le sonorità dei luoghi fisici abituali, in cui rumori e condizioni ambientali concorrono a definire tutto ciò che vi si ode.
[questo testo è stato scritto nel mese di novembre 2021]
Quel che non va

Un’atrofia intellettiva quanto fisica limita fortemente la capacità, per molte persone, di vivere veramente, direttamente, senza mediazioni. Spesso si guardano gli altri, magari su uno schermo televisivo, si assiste alle loro vite, esperienze, sofferenze, gioie, si demanda ad altri il rischio, ma anche il guadagno, quando c’è, risultante da qualsiasi esperienza oltre i limiti fissati per tutti dalla società. Analogamente, l’esperienza estetica la si lascia fare agli artisti – di arte visiva, cinema, teatro, eccetera – che hanno così il compito, affidatogli (o meglio, riconosciutogli) anche in questo caso dalla società, di mostrare agli altri, la cosiddetta gente comune, quello che fanno, perché essi lo ammirino, seduti o in piedi ma sempre dall’altra parte di uno schermo invisibile (il quarto muro). E le cose fatte, opere, film, performance e altro, si devono andare a vedere negli spazi istituzionali, deputati a svolgere tale funzione: gallerie, musei, teatri… Ma tanto, tantissimo, avviene continuamente ovunque, al di fuori di quei luoghi, ignorato da quasi tutti, che riservano la propria attitudine a cogliere eventi anomali e conturbanti soltanto a ciò che viene presentato in quei contesti. Tanti, troppi, si adattano ad occupare esclusivamente il ruolo di spettatore, un ruolo passivo, limitante al massimo, alla lunga castrante.
Non è neppure questione di luoghi ‘deputati’, non soltanto, ma piuttosto l’ostinarsi a cercare l’insolito, il bello, il sorprendente, chiamalo come vuoi, sempre e soltanto nella direzione indicata dal sistema. Gli artisti indossano tutti una divisa invisibile, senza di quella è come se non succedesse mai niente di particolarmente interessante: non si vede, non ci si fa attenzione.
Ci siamo abituati a considerare più interessante, più degno di attenzione ciò che ci viene proposto all’interno di una cornice, in un luogo istituzionale, preposto al compito, cinema, teatro, galleria, museo. Ma molto altro, spesso ben più interessante e stimolante – anche perché imprevisto, improvviso, che accade al nostro cospetto trovandoci impreparati – avviene, o può avvenire continuamente e ovunque, dentro e fuori le case, per strada, camminando o guidando un’auto, oppure spostandoci trasportati da un treno o da un tram. E chiunque può notare come molta gente compia queste operazioni in uno stato di isolamento dal contesto che la circonda, di disattenzione quindi, aggrappati ai propri dispositivi audiovisivi, che attraggono la massima parte della loro attenzione, sia alle immagini sia a suoni e rumori.
Non sono del tutto contrario all’esistenza di certi luoghi, bensì al loro – di quasi tutti direi – enorme potere di astrarre dal contesto, creando cortine che limitano fortemente vista e udito del visitatore impedendo la percezione sensoriale del mondo (lasciato) fuori. Quindi mi piacciono molto di più i musei, o le gallerie, dove si può vedere fuori nello stesso momento in cui si osserva qualcosa che sta dentro, e magari una proiezione video o cinematografica che non avviene in uno spazio del tutto buio, avulso dal mondo, ma in un altro ‘in between’, dove al massimo c’è una penombra, ma si può vedere e udire anche altro, oltre a quel video, a quel film.
Un’esperienza che ha luogo in forma di rivelazione, come una smagliatura nella normalità. È sempre improvvisa e inaspettata, quindi la possibilità di favorirne o provocarne l’accadere in un luogo deputato, istituzionale, è labile, con qualche rarissima eccezione.
Esiste una volontà precisa, attuata da chi agisce come suo strumento, di incanalare, formalizzare, mettere ogni tassello – o presunto tale – al posto giusto, quello che un’autorità astratta ma potentissima, a cui coloro obbediscono, ha assegnato. Questi agenti sono irresistibilmente attratti da certi luoghi deputati, verso i quali convergono, e sono accompagnati durante le loro azioni dal suono di parole magiche, che designano un certo ambito, quello che insiste in detti luoghi deputati (siano essi fisici o virtuali). L’esempio più calzante di tali parole, o modi di dire, è sicuramente “l’arte contemporanea”, un’espressione che non significa realmente nulla, ma tende bensì a includere in un ambito astratto una moltitudine di cose, spesso del tutto diverse fra loro. Se si chiede a qualcuno che usa questa espressione il suo significato preciso, lo si può mettere facilmente in difficoltà, perché ciò che essa designa non esiste nella realtà.
Un’altra parola magica, spesso associata a quell’altra espressione, è sistema, il sistema dell’arte contemporanea, e quando pronunciano queste poche parole tutte insieme, il tono di voce di detti agenti è grave, addirittura solenne, e ci si aspetta che nessuno dell’uditorio osi controbattere alla potenza di questo ente astratto, rappresentato in tale espressione.
(scritto il 2 ottobre 2021)
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.