The beat goes on


Una persona si allontana da noi voltandoci le spalle, istintivamente guardiamo nella sua direzione, seguendola per un po’, con un’azione del pensiero. Perché partendo essa ci sottrae, oltre alla sua presenza, molte cose che la sua presenza aveva creato in noi, occupando uno spazio, un volume. È un movimento istintivo e spontaneo il nostro, in-deciso, con certe caratteristiche di un fenomeno fisico, qualcosa di simile al principio dei vasi comunicanti, per cui togliendo da un contenitore parte del suo contenuto liquido, il vuoto che si forma deve al più presto essere riempito, o meglio, proprio formandosi questo spazio disponibile, che prima non c’era, lì si crea un ‘surplus’ di energia potenziale, che si trasmette a tutto il resto, e questo movimento mette bensì tutto lo spazio di quel contenitore in azione, provocando una rivoluzione del sistema di rapporti precedente [lo status quo]. Tutto ciò accade nell’ombra, sotto la superficie, traducendosi appena al di sopra in modificazioni dell’atteggiamento, mentre intere costellazioni di pensiero devono mutare forma e direzione, perché spostandosi il punto di vista cambia anche la percezione delle cose, quelle che abbiamo lasciato partendo (anche solo mentalmente) con chi ci ha lasciati, prendendo la sua stessa direzione e guardando indietro da laggiù, dove siamo arrivati seguendolo, anche solo con lo sguardo.
Innanzitutto, consideriamo come gran parte dei nostri progetti falliscono, e fallendo ci impongono un arresto, quando non ha più senso – improvvisamente lo ha perso – procedere nella direzione predeterminata, ché ha perso di valore e di interesse. Ci sono diverse valutazioni da fare, tutte positive, anche se è molto difficile constatarlo subito, tanto forte è il contraccolpo della delusione. Ad esempio, l’arresto di marcia, per l’impossibilità a procedere, impone di guardarsi intorno cercando una via alternativa, e l’attenzione viene rivolta anche a ciò che avevamo disprezzato e scartato, nel momento della decisione, ma che adesso, ripartendo da zero, riconsideriamo. Così ci troviamo di fronte a cose apparentemente diverse, ma che in verità sono poi le stesse, con un altro nome, e imbocchiamo strade che ci eravamo convinti non potessero interessarci, le imbocchiamo in un punto diverso da prima, venendo da un’altra direzione (stiamo infatti tornando sui nostri passi) e allora sono davvero diverse, altre strade. Ma anche l’inazione che spesso segue al fallimento può essere positiva e feconda, perché si attivano altri strumenti sensoriali, utili per una percezione diversa del luogo in cui ci siamo fermati; perché la nostra immobilità ci mette a confronto col movimento continuo di tutto il resto, e di questo spettacolo ci impregniamo, acquisendo dati preziosi, che ci sfuggirebbero passandovi accanto correndo, lo sguardo fisso verso l’obiettivo.
Fallire un progetto (e non deve per forza trattarsi di un fallimento totale, anzi spesso le imprese, o le opere, parzialmente fallite, o parzialmente riuscite, sono le più forti) significa anche conservarne la maggior parte di energia, quella inespressa, che rimane intorno ai resti dell’insuccesso, pregni di ciò che è rimasto nell’aria, ed è sempre ancora sul punto di manifestarsi, infinitamente disponibile a farlo. Il cosiddetto successo, quando consiste nella totale realizzazione delle premesse, nel completo trasferimento dalla sfera ideale, del possibile, a quella concreta del realizzato, del compiuto, ci espone al pericolo dell’idolatria, dell’adorazione di un simulacro che assorbendo nella sua forma tutta l’energia dell’idea l’ha effettivamente consumata, esaurendola, impotente ormai a suscitarne di nuova in noi.
Infine, la consapevolezza di non essere riusciti a realizzare l’idea mantiene in noi sempre vivo l’interesse per quell’entità sfuggente, che pure riusciamo ogni tanto a riprendere, anche soltanto per il tempo di un battito di ciglia, quando si ricompone davanti a noi nell’aria. Intorno a quei resti pare che resti infatti un alone, un pulviscolo in sospensione che ritrova occasionalmente una forma già perduta, che ancora perderemo, e potremo ancora ritrovare, indefinitamente.
Si potrebbe davvero dire che sta alla cura dell’artefice far sì che l’opera sia difettosa, imperfetta, parzialmente fallita quindi, in modo da lasciarla libera, alleggerita della zavorra della compiutezza, della perfezione, che consiste bensì in una cristallizzazione dell’energia presente nel momento della creazione. Il quale dovrebbe rimanere sempre aperto, permettendole di circolare e di rinnovarsi nel rapporto conoscitivo messo in atto dal fruitore. Sta nel non detto, nel non espresso (seppure intuito) la forza dell’opera veramente riuscita, o meglio nel giusto rapporto fra quella porzione invisibile e quanto si può invece percepire coi sensi (vista, udito, tatto, ecc.).

Momenti che vengono riconosciuti come errori all’interno di un progetto, di un’opera, potrebbero diventare elementi costitutivi di un’altra opera, di un differente progetto. Si verificano casualmente (è questa la natura dell’errore) e sono portatori di possibilità impreviste, che da quel momento in poi sono disponibili. Da lì si può ripartire, cambiando direzione, per seguire la strada che esso ci indica, anche se non sappiamo dove può portarci.

C’è nella fase di elaborazione, e poi nella realizzazione, di un’opera, un’accumulazione di energia che poi vi rimane per qualche tempo, progressivamente dissipandosi. Quindi l’opera rimane a rappresentare quel tempo così vitale, e anche quando nulla rimane, se non una sua descrizione, o la testimonianza, filtrata o rielaborata dal ricordo, proprio il ricordo può riuscire a riattivare quell’energia, rigenerando l’opera e riattivandola . Ma la memoria non distingue tra realtà effettiva (l’opera) e ‘immaginazione’ (il suo progetto, spesso più ampio, o diverso), così può essere ricordata, e perciò ricreata, altrettanto bene la seconda quanto la prima.

(testo scritto nel 2009 e revisionato oggi, 16 marzo 2023)