Piante in cammino e ciottoli che volano

Due esperienze con il lavoro di Andrea e Raffaella

Ho avuto modo di collaborare con Andrea Caretto e Raffaella Spagna in più di un’occasione durante gli anni di e/static, particolarmente nello spazio espositivo blank. Soprattutto due di questi progetti hanno lasciato una traccia profonda, nella storia di e/static e in quella mia personale, ed ebbero luogo a distanza di circa sei anni uno dall’altro: il primo, l’installazione Soil Practice, nel 2009, l’altro una performance, Mineral Altar, nel 2015. Due progetti diversi fra loro, che però mostrano caratteri comuni, e per quanto riguarda quelli dissimili, essi possiedono una reciproca complementarietà, e mi paiono esemplari del particolare modo di ‘fare arte’ di questi due autori, in grado di ben rappresentare le linee essenziali, portanti, di tutto il loro lavoro.
In linea generale le opere di Caretto e Spagna hanno sempre una forma instabile, che muta si può dire continuamente, e ogni possibile immagine che voglia documentarle è bensì un frammento dell’insieme, che è semmai multiforme e non si può mai afferrare con un solo sguardo ma soltanto immaginare. Ovviamente se ne può parlare, o scrivere, e chi ascolta o legge può farsene un’idea; ma l’approccio migliore è sempre quello diretto, il fatto di trovarsi fisicamente al cospetto dell’opera, in un momento della sua vita, soprattutto mentre loro la stanno creando. Meglio ancora, avere l’opportunità – come spesso è possibile fare – di lavorare con loro alla realizzazione di un’opera. Che, appunto, non ha una forma definita una volta per sempre, ma può assumerne un numero spesso potenzialmente infinito, finché la sua vitalità è in atto, finché i due, spesso con la collaborazione del cosiddetto pubblico, se ne prendono cura in molti modi. Ma non poche delle loro opere, una volta attivate, riescono a procedere del tutto autonomamente, senza alcun intervento esterno, umano, che faccia seguito a quello o a quelli iniziali.


È il caso di Soil Practice, emblematica per il fatto di comprendere molte delle modalità principali del particolare approccio di Andrea e Raffaella alla creazione. Inaugurata il 16 aprile 2009, l’installazione comprendeva un certo numero di manufatti (vasche in acciaio modulari di forma rettangolare, per contenere terriccio o acqua), quindi alcuni strumenti tecnologici – ma di un tipo alquanto elementare – in grado di sostituirsi all’azione umana sul lungo periodo, per fornire l’indispensabile regolare fornitura di acqua. Le vasche venivano quindi riempite, appunto con terriccio o acqua, dopodiché – e qui subentra il coinvolgimento di altri autori, che collaborano con i due alla creazione –, il 28 maggio, in occasione di un nuovo incontro pubblico, tutti i presenti erano invitati a mettere i noccioli dei frutti appena mangiati in una grande zolla di terra arata. Che era stata appena aggiunta agli altri elementi per dare avvio, anche lì, alla crescita che si sarebbe protratta fino all’inizio di autunno, mettendo in atto la modalità principale, quella della crescita appunto, peraltro del tutto incontrollabile dai due, ma soltanto favorita, in remoto (dopo l’attivazione di un sistema di irrigazione munito di temporizzatore). Durante quel lungo periodo (in tutto più di cinque mesi) una imponente trasformazione ebbe luogo, affatto spontaneamente, senza sosta, e del tutto avulsa dal tempo convenzionale inventato e utilizzato dagli uomini, eludendo qualsiasi rispetto degli orari di apertura del luogo, un grande terrazzo a cui si accedeva dallo spazio espositivo.
Sono state fatte centinaia di immagini per documentare l’opera, in qualunque ora del giorno, e se si confrontano le prime, scattate ad aprile, con le ultime, di settembre, risulta a tutta prima difficile capire che si tratta delle stesse cose in momenti diversi della loro vita, le varie zolle, l’aiuola di terra sterile e la vasca piena d’acqua. Soltanto le fattezze del luogo, il grande terrazzo aperto su due lati, e quelle dei contenitori – le vasche di cui sopra – aiutano, con la loro relativa fermezza, a stabilire una connessione attraverso un ragionamento che supplisce alla natura ingannevole dei dati forniti dalle apparenze.


Qualche anno dopo, fra il dicembre 2014 e il gennaio 2015 Andrea Caretto e Raffaella Spagna, durante una residenza a Krems, in Austria, percorsero ripetutamente le rive del Danubio nella Wachau, raccogliendo centinaia di pietre modellate nel tempo dal fiume, che le aveva spostate da un luogo all’altro, lentamente ma senza sosta, sempre modificando la loro forma e disperdendole in quell’ambiente caotico. La raccolta di Caretto e Spagna – che scelsero ogni pietra fra mille altre presenti in ognuno dei siti esplorati – aveva determinato un passaggio da quel caos a un sistema ordinato, anzi a una serie di sistemi, perché le pietre potrebbero appartenere a più di una classe, a seconda che si consideri la loro forma, il colore o la grandezza, eccetera. E così come il caos a cui precedentemente appartenevano le pietre della Wachau aveva tutte le caratteristiche della provvisorietà e dell’impermanenza, anche questa nuova ordinazione, o queste nuove ordinazioni operate dai due artisti, non sono definitive, non venendo le pietre costrette a permanere indefinitamente in una collocazione stabile e rigidamente fissata. Di volta in volta, esse possono essere deposte – ma non fissate – su un supporto di varia forma e dimensione, creando sempre nuove costellazioni secondo criteri variabili, perché non rigidamente codificati.
Sabato 4 luglio 2015, a blank, Andrea e Raffaella rievocano e rappresentano in una forma nuova la loro azione di ricerca e raccolta delle pietre nella Wachau. Una certa quantità delle quali viene preventivamente accantonata in un angolo dello spazio, nascosta da un grande telo bianco che impedisce al pubblico presente di vederle prima dell’inizio della performance. Lì vicino, un grande tavolo rettangolare avrebbe accolto tutte le pietre estratte a turno dai due performer dal loro provvisorio deposito, sotto il telo bianco. Così, per circa 40′, una danza lenta e muta – soltanto l’intermittente e lieve tintinnare delle pietre quando talvolta si toccavano turbava il silenzio – si svolgerà davanti agli occhi degli astanti, mentre i due, scalzi, tolgono i sassi dal caos nell’angolo, riponendoli sul tavolo a formare nuove composizioni: un breve percorso dal buio dell’indistinto alla chiarezza di un sistema ordinato.

Se nel caso della performance si ha a che fare con dei ciottoli, oggetti inanimati che possono mutare forma o posizione soltanto per effetto di un’azione esterna, in Soil practice tutta l’attività venne compiuta autonomamente (con il contributo di sole, pioggia, vento), e incontrollabilmente, dalle piante, e gli autori si limitarono ad assegnare un luogo al lungo processo e ad attivarlo quindi. Due modalità diverse fra loro che mi sembrano però complementari. Per quanto riguarda invece le somiglianze, entrambe le opere – o per meglio dire, operazioni – di Caretto e Spagna, anche quando stanno, o avvengono, in un interno, hanno sempre un forte legame con un altro luogo, o molti luoghi, esterni, e questo legame – generalmente comprovato dalle apparenze – le rende libere, per cui viene naturale pensare che si trovino lì, in uno spazio chiuso, soltanto provvisoriamente, senza esservi vincolate in modo immutabile1. Il terrazzo, accessibile dallo spazio espositivo, era esposto all’azione di tutti i fenomeni naturali che avrebbero propiziato il processo di crescita dell’installazione. Nella performance, pur non essendo ostentato il legame fra le pietre e la loro provenienza – il letto del Danubio – esso è reale, immanente, e per chi ne viene a conoscenza, anche successivamente, la percezione dell’opera risulta subito assai più ampia, più completa e profonda.
È insomma, quella di questi due autori, un’arte libera dai condizionamenti dello spazio espositivo convenzionale, anche quando, occasionalmente, ha luogo al suo interno.

1 Infatti, in chiusura del progetto, il 21 settembre 2009, tutte le piante cresciute sul terrazzo verranno portate, o riportate, nel loro ambito di competenza, diciamo così: un ambiente naturale dove continuare la vita iniziata lassù.

(scrissi questo testo nel marzo 2023 dopo avere accolto l’invito di Andrea Caretto e Raffaella Caretto che stavano allora iniziando a preparare il loro libro, Bright Ecologies; il testo non venne poi utilizzato in quanto eccedeva sensibilmente il limite delle 3000 battute – limite di cui peraltro non ero a conoscenza)

Come si è arrivati a questo punto

Ha ancora senso esporre1 un’opera d’arte, cosiddetta? E se sì, deve essere per forza in un luogo deputato, al chiuso, asettico e depurato? Un luogo dove si deve andare, lo si deve raggiungere sapendo che una volta arrivati ci troveremo delle opere d’arte, oppure una performance.
È stato così per lungo tempo, a partire da un certo periodo, ma prima non era proprio la stessa cosa, c’erano altri modi di proporre le opere d’arte visiva, ad esempio nelle chiese, oppure nelle piazze o in altri luoghi pubblici, e allora era anche possibile imbattersi in esse, senza averlo voluto fare e senza neppure averlo previsto (quindi senza aspettative, e sorpresi da esse, spesso). Ma ora, già da un paio di secoli (con i Salons parigini), esistono certi luoghi deputati, dove si mostrano le opere d’arte. Sappiamo bene cosa è successo in seguito, la nascita delle gallerie vere e proprie, con tutti i comportamenti, o riti – di natura prettamente borghese – che sono venuti come conseguenza (orari di apertura, inaugurazioni, ecc.). Poi, nel secondo dopoguerra, soprattutto negli Stati Uniti, l’utilizzo di certi spazi ex-industriali, quindi atipici rispetto alla norma, in termini di vastità e di volume degli spazi; un uso che si estese ben presto anche all’Europa e che favorì ovunque lo sviluppo di certe modalità realizzative, con opere bi o tridimensionali, e poi le prime installazioni, cosiddette. Ma questa tendenza, nella sua fase iniziale, essendo spontanea, aveva una sua freschezza e autenticità, qualità che si persero quando certi spazi vennero via via ‘normalizzati’, ripuliti e resi sempre più asettici, ad esempio con la consuetudine sempre più adottata del colore grigio dei pavimenti e del bianco delle pareti, fino ad arrivare allo stravolgimento (o aberrazione) del cosiddetto white cube, che operò il definitivo estraniamento – dopo l’esordio dei Salons – dell’arte dalla vita reale, che si svolge, imprevedibile e scarsamente controllabile, all’esterno di certi luoghi.
Ecco, io trovo che dare ora per scontato – come si fa da parte di quasi tutti– che l’arte visiva debba trovarsi lì dentro, ripetendo usi e clichè in atto ormai da decenni e quasi immutati, è qualcosa di pernicioso, perché si tratta di una non scelta, un comportamento acritico e oggettivamente passivo, che perpetua uno status quo ormai da tempo svuotato di senso. Anche perché nel frattempo, mentre si assisteva al progressivo imporsi, quasi incontrastato, del white cube, e al proliferare delle gallerie e dei musei (o non-musei, ovvero non più luoghi di conservazione ma molto spesso di intrattenimento) fino alla definitiva aberrazione delle fiere d’arte, si verificavano anche altri fenomeni, che avrebbero dovuto aprire gli occhi a molti sui rischi legati al prevalere del cosiddetto sistema dell’arte, proponendo alternative inusitate e soprattutto credibili. Dapprima le esperienze di artisti illuminati, e soprattutto coraggiosi, che presero a ignorare i luoghi deputati per dare forma ad ‘azioni estetiche’, molto spesso effimere, là fuori nel vasto paesaggio, lontano anche dalle città, non soltanto dalle gallerie e dai musei. E a partire dai primi anni ’70, gli happening e le performance, che potevano avere luogo ovunque, e soprattutto in maniera imprevedibile, spesso quasi di nascosto, imitando analoghi fenomeni attuati nel mondo naturale altro dall’uomo da parte di animali, piante o fenomeni atmosferici. Non era neppure raro che una performance non avesse spettatori, o ne avesse pochissimi, magari uno soltanto (vedi il caso di Tehching Hsieh e delle sue performance la cui esistenza era attestata da un solo testimone, che ne garantiva la veridicità2). Ma sempre esse avvenivano senza preavviso o quasi, ovunque, e spesso era perfino difficile capire che si era in presenza di un tale evento, che iniziava improvviso e finiva anche allo stesso modo, e il performer – generalmente, ma non sempre, lo stesso autore – poteva sparire alla fine, senza neppure aver stabilito alcun contatto con i presenti. Quella era una direzione giusta da seguire, sviluppandola, essendo materiata e attuata all’insegna dell’imprevedibilità, dell’incertezza, e soprattutto avendo una natura effimera e transeunte, dato che spesso non lasciava neppure alcuna traccia di quanto era appena accaduto. Come accade quando siamo testimoni – o compartecipi – di un evento naturale che ci coglie improvvisamente, inatteso, mentre siamo occupati a fare qualcosa, camminando, guardando fuori dalla finestra, mangiando o bevendo qualcosa stando seduti a un tavolo, o qualsiasi altra attività che ci tiene impegnati in una azione di routine. Certamente, il ‘difetto’ (rispetto alle regole del mercato, tutto fondato sulla commercializzazione di oggetti) di certe performance o azioni all’aperto o comunque al di fuori da musei o gallerie, stava proprio in quella che era la loro reale qualità precipua, la non oggettualità, che le rendeva, appunto, inadatte a uno sfruttamento commerciale, a differenza di quadri e sculture. Ma si capì ben presto come aggirare l’ostacolo, documentandole con foto o video, quindi oggetti commerciabili, che mantenevano sì un legame con l’azione da cui provenivano, ma erano bensì altro da quella, essendosi raffreddate e cristallizzate. Ancora peggio, in tempi più recenti, è stata l’omologazione, o normalizzazione, delle performance, che vengono annunciate spesso con largo anticipo, comunicandone il titolo, quindi l’ora di inizio, poi la durata, e infine, addirittura, una loro sinossi (come per un film), in grado di togliere loro ogni residuo di imprevedibilità e privandole della proprietà di sorprendere, di inquietare anche, e di operare un effettivo sovvertimento della routine che attanaglia quotidianamente, in modo pressoché ineluttabile, tutti. Tutto ciò che era programmatico, si può dire per definizione, in tutte quelle performance e quegli happening pionieristici, che spesso non venivano neppure documentati e il cui ricordo, spesso e volentieri, sopravviveva soltanto nella memoria dei presenti quel giorno mentre accadevano.

Baudelaire e altri suoi sodali Decadenti (cosiddetti), come si sa, coniarono l’espressione épater la bourgeoisie, per significare l’urgenza e la necessità ineludibile di sovvertire l’ordine borghese precostituito, scandalizzando i suoi rappresentanti. Che in effetti andavano su tutte le furie di fronte a certe provocazioni, almeno fino al primo dopoguerra, grazie all’azione delle avanguardie artistiche attive nei paesi europei preminenti. Poi qualcosa cambiò, i borghesi iniziarono a trovare aspetti eccitanti in certe manifestazioni, e smisero ben presto di scandalizzarsi, trovando in esse occasioni atte a distrarli dal trantran quotidiano, casa-ufficio-chiesa, interrotto da qualche rara occasione festiva. Contemporaneamente si capì che certe opere d’arte visiva, che pure nelle intenzioni degli autori dovevano provocare un effetto (blandamente) turbativo dell’ordine borghese, dopo essere state accettate e metabolizzate dalla borghesia stessa potevano anche acquisire un valore venale. Iniziò così a prendere piede il fenomeno del collezionismo, attività quasi esclusivamente esercitata da persone abbienti, con un surplus di denaro che poteva essere speso per generi voluttuari o per cose apparentemente del tutto inutili, come appunto le opere d’arte. Si sa come sono poi andate le cose, e ormai da decenni l’arte visiva, quella più fragrante, più ‘nuova’ (almeno apparentemente) si potrebbe dire venga realizzata proprio per arrivare a quei rappresentanti della borghesia abbiente, professionisti (medici, avvocati, notai, eccetera) che, siccome si annoiano, oppure svolgono professioni redditizie ma sgradevoli, dapprima possono distrarsi, e magari provare un piccolo brivido ammirando certe opere, e poi, dopo averle acquistate, le trasformano in capitali, spesso più sicuri di quelli tradizionali, come la cartamoneta o le azioni. Un circuito chiuso sempre più irrigidito ed esclusivo, un vero e proprio sistema di potere in grado di svalutare e sminuire sempre più le qualità spirituali (quando ci sono) delle opere d’arte mentre potenzia quelle mondane, prosaiche, come può essere appunto il loro valore economico, stabilito dal mercato – espressione identificativa e diretta di quel sistema. Il quale agisce di concerto con le istituzioni museali, strumentalizzandole, proprio per aumentare il valore delle opere, grazie al lavoro indefesso di una moltitudine di professionisti del campo, non soltanto i galleristi, ma anche e soprattutto, si direbbe, i curatori, i critici, i direttori di museo.

Con progetti come campo volo [v. qui], ad esempio, e poi La collera delle lumache [v. qui], si è cercato di restituire ad eventi generalmente consumati e devitalizzati dall’abitudine, certe caratteristiche di imprevedibilità, prima, e di volatilità, durante, atte a suscitare una curiosità preventiva, quindi a innescare un senso di attesa, infine stimolando la massima attenzione nel corso dell’evento. Quando chi è presente sa bene che esso non verrà ripetuto, che quella cosa, quelle cose, si vedranno soltanto quell’unica volta, per due ore, due e mezza al massimo, e poi mai più. Tentativo quasi sempre riuscito, anche se alcune volte volte meglio di altre. Non è moltissimo, forse, ma già qualcosa: il luogo espositivo – chiamiamolo così per semplificare – subiva in quelle occasioni un positivo effetto di rivitalizzazione, diventava meno sicuro e prevedibile, come un qualcosa di ignoto a cui avvicinarsi con cautela e una certa circospezione, quasi pericoloso, in un certo senso. Per una volta non ci si andava tanto per obbedire a una routine, aspettandosi le stesse cose di sempre, da esperire attraverso gli stessi, abusati meccanismi di fruizione e percezione. Non c’era più molto di scontato, si sapeva soltanto il nome dell’artista, o degli artisti, nient’altro, a parte l’indirizzo del luogo, il giorno e l’ora.
Perché è così, il mondo dell’arte non è diverso da tutto il resto, in questa società. Dove tutto deve essere regolato, controllato, scandito da orari e da comportamenti all’insegna della consuetudine, della ripetizione indefinita degli stessi riti, degli stessi gesti. Ciò che accade con il linguaggio stesso, parole che si sovrappongono alle cose, ovvero si frappongono fra noi e quelle, rendendole inaccessibili, incorporee anche quando sono davanti a noi, a pochi passi, ma irrigidite come cadaveri. L’arte occupa una casella all’interno di un sistema bloccato, immobilizzata lì per poter essere manipolata e strumentalizzata come si fa con le cose inanimate, o con certi animali domestici. E il suo compito parrebbe essere quello di indurre nelle persone che ne “fruiscono” (brutta parola ma rende l’idea, in un mondo in cui si dà per scontato che si facciano le cose sempre e soltanto per trarne un piacere – meglio se consolatorio –, strumentalmente quindi) la stessa condizione di immobilità, la stessa attitudine ad essere controllate, manipolate, sempre più private della propria indipendenza, della propria libertà di agire e di pensare in modo autonomo, svincolato da quella morsa. Si applica a tutto l’etichetta ‘arte contemporanea’ – un’espressione che non significa niente – e da lì in poi tutto va bene, si va lisci come l’olio: gli spazi espositivi tendono a somigliarsi tutti, le cose esposte sembrano essere state appena estratte da appositi scaffali, sono copie di prototipi creati decenni fa, nei casi migliori appena un po’ modificate, giusto per dare loro una parvenza di novità. Non accade mai niente di nuovo, e come potrebbe? Il contenitore è quello, le formule sono sempre le stesse, il linguaggio poi è l’aspetto peggiore, gestito com’è da professionisti3 che, con un comportamento ottuso e corrivo, utilizzano certi termini in modo pedissequo, acriticamente, soprattutto per guidare il pubblico, portandolo per mano lungo sentierini lastricati e accuratamente spazzati, come se ne vedono attorno a certe villette asettiche e fatte in serie. Si vuole soprattutto, sempre, omogeneizzare (come con i cibi per i neonati, per renderli più facilmente digeribili), normalizzare, togliere ogni asperità, ‘spiegare’ sempre tutto, quindi togliere mistero. Il risultato di tutto questo insano fervore è la chiusura mentale causata dall’assuefazione a praticare certi luoghi partecipando ai riti vacui e immutabili che vi vengono celebrati, diventando così, quasi sempre senza rendersene conto, oggettivamente conniventi.
Come è possibile perpetuare questo andazzo? Perché sentire il bisogno di andare all’ennesima inaugurazione, per vedere cose già viste e straviste, ascoltare sempre le stesse frasi insulse? Sì, certo, si vede gente, si possono combinare cose, allacciare relazioni, ma cosa c’entra l’arte con tutto questo4? Proprio niente, quasi sempre, e le eccezioni sono del tutto inconsistenti, non possono spostare i termini della questione.

(ho iniziato a scrivere questo testo lo scorso 29 aprile, chiudendolo infine, dopo alcuna integrazioni e mofifiche, oggi 13 ottobre)

1 Il dizionario online Oxford Language, come prima definizione del termine dà: Offrire alla vista o all’attenzione altrui, mettere in mostra. “esporre la merce in vetrina”. L’esempio indicato è altamente significativo, direi.

2 Fa eccezione quella, durata un anno come le altre, che vedeva Hsieh vivere costantemente all’aperto, fuori da qualsiasi spazio chiuso. In quel caso, molti, anzi moltissimi, avendo la performance avuto luogo a New York, lo videro, ma nessuno sapeva che lui stesse eseguendo una performance.

3 Un certo professionalismo (una stortura che Ivan Illich aveva ben individuato già diverse decine di anni fa, scrivendo sull’argomento pagine molto efficaci) è la vera piaga del mondo dell’arte attuale, o meglio, degli ultimi trent’anni almeno. Curatori, direttori di museo, galleristi, editori ‘specializzati’ (con i loro stolidi e perniciosi editors), fotografi, allestitori, e last but not least, gli stessi artisti, o presunti tali. Molti dei quali troppo spesso ‘si adeguano’, obbedendo a qualsiasi diktat, anche i più scomodi, e adattando il proprio lavoro in modo da conformarlo agli standard richiesti dal sistema, per non essere ‘cacciati dal tempio’ e avere anche loro almeno un piattino di minestra. Ovvero, la possibilità di partecipare a una collettiva di una certa risonanza, se non addirittura di fare una personale in galleria; ma anche per essere inseriti in una pubblicazione di settore, o perfino avere un’opera nello stand di una fiera. Insomma, tutto è possibile, tutto è lecito, pur di ottenere “visibilità”.

4 Domanda che ne provoca quasi in automatico un’altra: ma che cos’è l’arte?

Forse

Più di una volta nel corso degli anni mi è capitato di incontrare qualcuno convinto di riconoscermi e che vedendomi mentre camminavo nella sua direzione subito mi fissava con un lampo negli occhi, prima di sorridermi e dirmi «ciao!». Era davvero sicuro – o sicura – di rivedermi dopo molto tempo e questa sensazione lo, o la rallegrava molto (fortunatamente, per me). Dovevo, ogni volta, spendere qualche minuto per spiegare a quella persona che c’era un equivoco, non ero io quello, purtroppo si stava sbagliando. E mentre parlavo vedevo i segni della delusione apparire sul suo volto, alternandosi a quelli dello sconcerto e del dubbio. Perché forse non ero stato convincente, non del tutto, e avevo la sensazione che non mi credesse, pensando che per qualche motivo non volevo essere riconosciuto. Quindi al mio cortese saluto prima di allontanarmi rispondeva la sua espressione perplessa e incredula, che a sua volta instillava in me un sottile disagio. Mi spiaceva di averla delusa, forse avrei potuto stare al gioco, essere più accondiscendente, pur rimanendo sul vago («sì, avevo lavorato lì per un breve periodo molti anni fa, ma purtroppo non ricordo di averla conosciuta, mi spiace»): in fondo, non ci potevo perdere niente, dato che subito dopo avrei salutato allontanandomi in tutta fretta dal luogo dell’incontro.
Recentemente qualcosa di simile mi è successo con il cassiere di un supermercato, che dopo aver mostrato per qualche volta gentilezza e affabilità nei miei confronti si era infine deciso a dirmi che secondo lui io somiglio in maniera impressionante a un noto doppiatore cinematografico (a me ignoto, anche perché non mi piacciono i film doppiati in italiano). La cosa strana è che conoscesse così bene il suo volto e che la somiglianza fra me e quell’altro fosse appunto di sembianze facciali, e non semmai delle rispettive voci. Ma data la simpatia che mi ispira questo cassiere, e il suo modo molto diretto di rivolgersi a me per spiegarmi la cosa, stavolta non ho provato quel disagio, semmai un certo stupore per la stranezza del parallelo, fra me e un doppiatore cinematografico.
Ci fu poi una volta, molti anni fa, in cui mi trovai dall’altra parte e accadde a me di sbagliarmi, convincendomi che stavo rivedendo una persona ben nota dopo molto tempo. Anche se poi mi rimase un dubbio, mai del tutto risolto. Pur conservando dell’esperienza una traccia piuttosto vaga – non so dove accadde, forse su un tram o bus, oppure su un treno – ricordo invece molto bene che per qualche minuto rimasi convinto che fosse proprio lei, un po’ cambiata, ma neppure poi tanto. Mi fissò a sua volta, forse stupita accorgendosi della mia insistenza nel guardarla, chissà. Nessuno di noi due disse una sola parola, durante quei pochi minuti: io non osavo farlo per paura di trovarmi nella scomoda posizione di quello che si sbaglia, e anche perché, forse, qualcosa nella sua espressione, un’ombra amara, quasi di disprezzo (o era forse un’aria di sfida?), nello sguardo e sulla bocca, mi dissuase. Poi ci separammo, uno dei due si allontanò scendendo dal tram o treno che fosse, una volta e per sempre.
È passato molto tempo da allora, ripensandoci non sono così certo né di essermi sbagliato né che fosse proprio lei, e neppure saprei dire se mi avesse riconosciuto, rifiutando però di ammetterlo. Da molti anni non la rivedevo, sempre cercandola, sempre aspettandola, inutilmente. E forse quella volta il silenzio di entrambi sancì la fine irrevocabile di una storia che mi ero convinto fosse soltanto sospesa, o differita. Forse capimmo entrambi in quel momento che era ormai troppo tardi per riprenderla e il silenzio era l’unica scelta possibile.

Le mie passeggiate sull’isola

Nella primavera del 2017 mi capitò una volta di entrare nel Cimitero Monumentale di Torino, durante una delle mie passeggiate giornaliere, che avvengono sempre qui nei dintorni. Non ero partito da casa con l’intenzione di andarci, ma siccome ero lì nei pressi, e in quel momento il semaforo di corso Novara era verde, senza troppo pensarci sopra decisi di entrare. Stavo vivendo un periodo difficile della mia vita, soprattuto a causa di una certa questione che si stava trascinando ormai da quasi un anno, angustiandomi, e sentivo il bisogno di trovare un sollievo, anche soltanto momentaneo. Ciò che avvenne subito quando mi trovai là dentro camminando mentre guardavo intorno a me le tombe, i lunghi porticati, gli alberi che vi si trovano in gran numero, lo stesso cielo. Dopo pochi passi, si capisce di essere in un altro mondo, sia pure vicinissimo a quello dove viviamo abitualmente, la cui presenza è soltanto segnalata dai rumori delle auto che girano lì intorno, sempre più distanti, ovattati, man mano che ci si addentra nel cimitero. E un altro mondo significa anche un altro tempo, perché lì dentro il tempo è davvero diverso, non più influenzato e deformato dalla nostra volontà, dalle nostre abitudini, ma come sospeso. Tutto sembra immobile, come se non ci fosse, lì, alcun bisogno di affrettarsi per andare da qualche parte, nessun appuntamento preso in anticipo, nessuna scadenza da rispettare, e la presenza di tante statue in marmo, e di manufatti anche in marmo o in pietra, accentua questa impressione di stasi. Le piante, quelle sì, si muovono, se c’è un po’ di vento che scuote i rami e le foglie, e poi ci sono gli uccelli, e qualche insetto, quindi si può dire che il tempo in quel luogo è molto più vicino a quello ‘naturale’, ed è facile perdere la percezione di quello artificiale, fittizio, creato da noi stessi e scandito dagli orologi. Un’ora trascorsa camminando lì dentro è diversa da un’altra ‘fuori’, c’è una sorta di effetto di dilatazione, e se uno si lascia portare dal caso, seguendo tracce impreviste e attraenti, è facile anche perdersi, perdendo così, oltre al senso del tempo, anche l’orientamento. È un luogo di sperdimento e di oblio, in cui riesce più facile dimenticare, dimenticarsi, e ritrovare una certa leggerezza perduta.Tutto ciò ha un effetto rasserenante, che può durare anche una volta fuori, per qualche tempo.
Per tutti questi motivi, dopo quella prima volta ce ne furono altre, intervallate all’incirca da una settimana: tornavo volentieri dove mi ero trovato tanto a mio agio. E ogni volta che ci tornavo era sempre senza uno scopo preciso, o una qualsiasi meta sia pure all’interno del cimitero. Mi arrendevo quasi con voluttà a quel tempo particolare, diverso dal ‘nostro’, e come avrei potuto non lasciarmi andare, guidato soltanto dalle apparizioni che mi si presentavano, quindi alla fine, quasi sempre, perdendomi? No, lì entravo ogni volta senza alcuna premeditazione, anche se avevo bensì deciso di ritornarci, dopo quel primo giorno, quando ci entrai per caso e mi accorsi, una volta dentro, sull’isola, di trovarmici così bene. Perciò tornavo, intuendo vagamente che qualcosa avrei sicuramente trovato. E già subito il primo giorno iniziai a scrivere, ogni volta al mio rientro a casa, un resoconto della mia passeggiata nel cimitero, fino a raggiungere un discreto numero di pagine, quelle che avrebbero formato il librino Passeggiate sull’isola. Contrariamente al solito, quando correggo molto la prima stesura, stavolta lasciai tutto quasi intatto, con soltanto pochissimi interventi molto leggeri, e credo che si capisca leggendo il librino, che è molto scorrevole, mi pare, come se avesse lo stesso andamento, lento e un po’ distratto, di quelle passeggiate. E chi legge forse anche così può riuscire a riviverle, a ‘sentirle’, come se camminasse a sua volta, mentre sta leggendo.
Dopo l’ultima passeggiata, nell’aprile del 2017, interruppi le mie visite al cimitero, perché evidentemente stava cominciando a diventare un’abitudine e mi pareva che la freschezza delle prime volte si andasse sempre più perdendo. Ormai conoscevo bene quel luogo, e difficilmente avrei potuto imbattermi in qualcosa di sorprendente – coglierlo, soprattutto – che si imponesse alla mia attenzione con la stessa intensità, e naturalezza, di quei giorni.

Qualche giorno fa (era una domenica mattina) mi trovavo lì nei pressi e sono entrato per fare due passi. L’aria era piuttosto fresca, anche se c’era un bel sole: una bella giornata di fine estate, la prima. Mi sono accorto ben presto che tutto era come un anno fa, mi è parso di ritrovare quella particolare atmosfera praticamente intatta. Forse il fatto di non esserci più andato per parecchio tempo mi permetteva di riavere la stessa freschezza di quei giorni, e mi è parso perfino di scoprire cose nuove, pur percorrendo alcuni dei viali centrali, vicino all’ingresso, che ben conosco. Non mi sono fermato a lungo, forse una decina di minuti, e sono quindi uscito dirigendomi verso via Catania e imboccando la carreggiata centrale, quella che nell’ultimo tratto è riservata ai cortei funebri. Guardando il viale da questa prospettiva, dato che prima avevo fatto un’altra strada, mi è parso di vederlo in un modo completamente nuovo: lunghissimo, e diritto, fiancheggiato da due file parallele di grandi platani che gettavano ombra sulla strada, sembrava non dover finire mai, non se ne vedeva il fondo. Se invece fossi arrivato dalla direzione opposta, percorrendo tutto il viale, avrei invece visto, al fondo, il muro perimetrale del cimitero, con le porte d’ingresso, dove il mio sguardo si sarebbe fermato, trovando un ostacolo, e un limite al mio cammino.

[testo scritto nell’agosto 2018, rivisto nel febbraio 2019]

Sprezzatura

In certi momenti accade al nostro cospetto qualcosa di cui si intuisce la forza, la rarità e l’intensità. Pure, rimaniamo apparentemente indifferenti, con poche o nessuna manifestazione appariscente, niente che faccia trapelare una particolare emozione. Ma l’esperienza ha avuto luogo, ha lasciato un segno – ovvero un seme – e dopo, ripensandoci, la sua forza inizia ad agire, una forma prende a dispiegarsi in noi, ci torniamo spesso, mentre diventa qualcosa di sempre più intenso e solido.

È come se in quelle occasioni fossimo diffidenti, o quantomeno guardinghi, attenti a non farci sopraffare da qualcosa di insolito e di cui intuiamo la forza, che pure vagamente temiamo. Perciò non ci lasciamo andare, rimaniamo ‘in posizione’, senza avvicinarci troppo, eludendo anche la tentazione di prorompere in affermazioni o atteggiamenti ammirati, che ci distrarrebbero (disturbando anche chi si trovasse con noi), facendoci perdere buona parte dell’effetto. Che invece ha bisogno di tempo, deve maturare dentro di noi, crescendo quasi per conto suo, fino a dare a quanto esperito una forma certa, con la quale confrontarsi.

Oppure: nel momento dell’esperienza guardiamo e ascoltiamo, ma come impassibili registriamo tutti i dati per conservarli nella memoria. Dopo, lentamente, attraverso un processo di cristallizzazione (vedi Stendhal in De l’amour, quando parla del ramoscello sfogliato dal gelo lasciato per diversi mesi nelle profondità abbandonate di una miniera di sale a Salisburgo) arriveremo a riconoscere il valore dell’esperienza, a darle piena forma e legittimità.
Ma tutto ciò va differito, quasi mai è istantaneo, nel momento stesso dell’esperienza (soprattutto quando l’effetto è particolarmente forte e ci travolge) ma sopraggiunge bensì.
Qualcosa di simile si può trovare esposto nel breve saggio di Kleist Sulla riflessione.

L’esperienza deposita in noi un seme che poi ci crescerà dentro, lentamente, prima di trovare la sua forma compiuta e venire finalmente alla luce.

comunicare

La comunicazione ora è intesa come la trasmissione di qualcosa, un pensiero, un messaggio, un editto, un ordine eccetera. Un processo distanziato da chi vi partecipa, che non ci mette niente di suo, semplicemente trasmette, ecco, comunicare è diventato sinonimo di trasmettere. Quando ero molto giovane, ricordo come in certi ambienti che frequentavo, che avevo scelto di frequentare, spostandomi dal luogo in cui abitavo e vivevo, comunicare era tutt’altro, significava stabilire un contatto con qualcuno, incontrarlo, dirgli qualcosa in prima persona, soprattutto qualcosa che sgorgava dall’interno di una persona, parlando con un’altra persona. Ora invece la comunicazione avviene sempre più asetticamente, senza coinvolgimento personale: si passa la parola, che arriva da chissà dove, una parola che non ci appartiene – e ce ne liberiamo subito, trasmettendola –, perché non è sgorgata da noi, in un certo momento, trovandosi a parlare con qualcuno in grado di ascoltarci. In quei fortunati casi invece, il flusso è talmente favorito da questa situazione, da non interrompersi mai per molto tempo, anche ore, durante il quale due persone comunicano, ovvero creano insieme un sistema effimero e transeunte, assolutamente non preparato, che a malapena potrebbe essere trascritto, semplificandolo e quindi impoverendolo.
Ora pare che le fonti siano prosciugate, non sgorga più acqua, non zampilla improvvisa nella conversazione, soprattutto ora, quando è diventato arduo stare insieme tranquillamente, senza sottostare ad obblighi sine qua non, che irrigidiscono le situazioni, le cristallizzano, soffocando la nostra voce e il nostro pensare, il pensare creativo che alla parola detta è strettamente connesso, stabilendosi fra i due termini un rapporto osmotico (v. Kleist, Sulla graduale produzione dei pensieri durante il discorso).

[scritto il 12 giugno 2020]

Il calicanto

Il calicanto che si trova tuttora sul terrazzo di via Reggio 27 proviene dalla Val Garfagnana, dove, nel giardino della casa di Addo Lodovico Trinci, autore con Daniela De Lorenzo della prima mostra di e/static, nel 1999, raccolsi qualche seme di una di queste piante proprio in quell’epoca, quasi 25 anni fa. Questa storia l’ho già raccontata altrove, di come – soprattutto per la sua origine – sia strettamente legato ad e/static e a blank, ancor di più da quando, credo alla fine del 2006 (o all’inizio del 2007) trapiantai alcune piantine, forse quattro o cinque, che nel frattempo erano cresciute sul balcone di casa mia, in un grande vaso sistemato appunto sul terrazzo di blank, che aveva appena iniziato a funzionare come nuovo spazio di e/static. Da allora esse sono ancora cresciute, a dismisura si può dire, o comunque al massimo consentito dal vaso, che è sì molto grande ma pur sempre limitato e limitante, rispetto alla natura selvaggia e smisurata.
In questi giorni stanno sbocciando i suoi fiori – i primi già da metà mese – ed essi sono, oltreché piuttosto vistosi, con i loro gialli e rossi, indistinguibili anche per il profumo molto intenso che emanano. Si può tranquillamente dire che anche un cieco, stando a pochi metri da un calicanto in piena fioritura, si accorgerebbe subito della sua presenza e lo vedrebbe, proprio grazie a quel profumo inconfondibile.
Proprio ieri notte c’era la luna piena, la prima di gennaio, che si è unita, in qualche modo, ai primi fiori dell’anno. Quelli del calicanto, infatti, fioriscono per primi (simboleggiando per i cinesi proprio il nuovo anno), quando tutte le altre piante ancora dormono, molte profondamente, altre vicine al risveglio. È insomma una pianta eccentrica, controcorrente, per questa attitudine connaturata di fare ora, in pieno inverno, ciò che tutte le altre piante faranno quando sarà primavera, o appena prima. Direi una pianta un po’ ‘bastian contrario’, in cui mi riconosco volentieri, e che anche perciò può rappresentare la storia, o meglio le storie di e/static e blank. Ho infatti sempre avuto una tendenza irreprimibile a non seguire la corrente, a non conformarmi, ma a fare, e dire, sempre quello che in quel momento mi sembrava giusto fare e dire, anche se magari sono il solo a farlo. Così il calicanto è il solo a pronunciare ora, a modo suo, la parola fiore, o la parola profumo, perché ora è venuto per lui/lei (chi lo conosce il sesso di un calicanto? io no di sicuro) il momento di farlo, né prima né dopo. E per quanto mi riguarda, anche come direttore di e/static e blank, ho sempre fatto quello che in quel momento mi sembrava giusto, se non addirittura necessario, fare, senza conformarmi a modelli esterni, altri da me. Semmai, in un certo senso un po’ come il calicanto, ho sempre avuto l’attitudine a fare, dire, scrivere sempre ogni cosa come se fosse la prima volta, partendo da zero insomma. Questo non per una sorta di insensatezza, men che meno per una qualche velleità provocatoria, ma proprio perché se avessi agito diversamente, ripetendo, conformandomi, adeguandomi, facendo quello che in quel momento sembrava di dover fare, e continuando a farlo per abitudine, avrei tradito me stesso. Peraltro, come avrei potuto? Non mi sarebbe riuscito, e in ogni caso, anche riuscendoci, per una specie di ottuso puntiglio contronatura, non mi sarei divertito, mi sarei anzi annoiato, o addirittura rattristato.

Il calicanto, nome scientifico Chimonanthus [dal greco antico: ‘fiore d’inverno’], è una pianta originaria della Cina, da dove, nel XVII secolo, fu portata in Giappone, e anche lì, come già in Cina, venne ben presto cooptata nella cultura, comparendo nelle pitture e nelle poesie anche per simboleggiare determinate virtù e qualità. Soltanto nel XIX secolo arrivò in Inghilterra, e da lì si diffuse un po’ in tutta Europa, per lo meno dove le condizioni climatiche erano favorevoli alla sua crescita (condizione sine qua non, ovviamente). Anche il mio calicanto ha viaggiato, come detto, e ancora lo farà; ogni due anni circa produce una quantità di baccelli carichi di semi al loro interno, che spesso regalo ad amici, sia qui in città sia altrove, anche fuori Italia: chi li trapianta, con un po’ di fortuna e molta cura, vedrà crescere nuove piante, ciò che potrebbe accadere – ed è già accaduto – un po’ ovunque. Esso, o essa, che mi rappresenta, in buona parte, così come rappresenta e/static e blank, per le ragioni dette sopra, anche attraverso i suoi ‘figli’ ci sopravviverà. E questo pensiero, pensato per la prima volta pochi secondi fa mentre scrivevo, mi rallegra e mi rasserena: sono davvero contento che mi sia, finalmente, venuto in testa.

26 gennaio 2024

Come mai dipendiamo tanto dall’arte

Avendo perso il contatto con la natura tendiamo naturalmente a sviluppare le capacità intellettuali. Leggiamo una grande quantità di libri, andiamo a visitare molti musei e ad ascoltare concerti, guardiamo la televisione e ci prendiamo una grande quantità di altri svaghi. Citiamo senza fine idee di altre persone e pensiamo e parliamo di arte. Come mai dipendiamo tanto dall’arte? È una forma di fuga, di stimolo? Se siete direttamente in contatto con la natura; se guardate il movimento delle ali di un uccello, se vedete la bellezza del cielo in ogni momento, le ombre sulla collina o la bellezza sul viso di un altro, pensate che vorreste andare in un museo a vedere dei quadri? Forse è perché non sapete come guardare tute le cose che vi circondano che ricorrete a alle droghe che vi stimolino a vedere meglio.

C’è la storia di un maestro di religione che parlava ogni mattina ai suoi allievi. Un giorno salì sulla cattedra, e stava appunto per cominciare quando arrivò un uccellino che si fermò sul davanzale della finestra e cominciò a cantare, e cantò con tutto il cuore. Poi si interruppe e volò via e il maestro disse: “Per oggi il sermone è finito”.

J. Krishnamurti, Libertà dal conosciuto, Roma, 1973 (trad. di Anna Guaita)

[letto nel mese di agosto 1999, ritrovato casualmente oggi sfogliando il libro dopo averlo tirato fuori dallo scaffale dove si trovava]

La cosiddetta arte contemporanea

La cosiddetta arte contemporanea, così come viene costantemente proposta da musei e gallerie, mi sembra sempre più asservita al sistema. Qualsiasi cosa si faccia la si riconduce ai soliti, stranoti Temi – Ecologia, Cambiamento Climatico, Migrazioni, Post-Colonialismo, LGBT, ecc. – e perde così ogni specificità, ogni forza, ogni indipendenza. Non è nemmeno più arte, bensì, ma una cosa ibrida, omologata, devitalizzata, in definitiva neutralizzata, come si neutralizzarono gli Indiani d’America chiudendoli nelle riserve ora si neutralizzano gli artisti nei recinti dei vari Temi, dai quali nessuno può uscire, nessuno può sottrarsi (essi occupano ormai tutti gli spazi, ingredienti ‘sine qua non’ del Grande Minestrone Globale). Anzi no, uscirne, sottrarvisi, si potrebbe bensì, ma pochi lo fanno, ci vuole coraggio, ci vuole energia, bisogna fregarsene di tante menate, sapere di poter mandare tutto e tutti affanculo. Si può, ma non è facile, perciò pochi lo fanno. Questo anche perché la cosiddetta arte contemporanea è diventata il luogo deputato del conformismo (ci si deve conformare, obbedendo al diktat dei Temi e a svariati altri, come la demenziale tendenza, purtroppo sempre più diffusa, all’uso nefasto, nei comunicati stampa, della cosiddetta scevà) e i sedicenti artisti che in massima parte la praticano vi si adeguano docilmente, come fa un cane col suo padrone.
Ma bisogna abbandonare tutti quei luoghi, dismettere certi comportamenti ormai svuotati di senso, andarsene insomma: soltanto così si potrà forse (c’è ancora una piccolissima speranza) fare o dire ancora qualcosa che valga la pena di essere fatto o detto, e chiamatelo come volete, arte, poesia o altrimenti. Oppure non diamogli nessun nome, meglio ancora, è come cancellare le orme sul sentiero, o confondere quelle nella neve, così sarà più facile sfuggire alle guardie, agli avvoltoi costantemente in agguato, malamente dissimulati dietro i loro maligni sorrisi falsamente benevoli.

(testo scritto il 28 settembre scorso; da considerare come una postilla a Quel che non va, un testo ‘in progress’ che ha già avuto diverse aggiunte, ad oggi non ancora pubblicate su questo blog)

da soli a mun ange

Un solo visitatore per un’opera che venne creata da una persona mentre si trovava sola all’interno di una antica casa in pietra disabitata da molto tempo. Già soltanto due persone presenti insieme negli angusti spazi di mun ange determinerebbero una situazione di ‘spettacolo’, cinema o teatro, con una effettiva separazione – che chiamerei anche de-responsabilizzazione – fra l’opera e chi la esperisce. Chi invece entra a mun ange solo deve attivare la sua attenzione, niente lo può distrarre, come niente poteva distrarre l’autore mentre si trova là dentro guardando prima dentro e poi fuori, ascoltando e ascoltandosi. Così il visitatore potrà vedere, ascoltare, pensare, rivivere e ricreare l’esperienza originaria dell‘autore, farla propria.

(scritto l’8 agosto 2021)