L’apoteosi di Billie Dawn


Nata ieri (Born Yesterday) è un vecchio film, l’avevo visto da bambino in televisione. Tutto quel poco che mi ricordavo era legato alla protagonista, Judy Holliday, i suoi atteggiamenti da svampita e quella inconfondibile parlata (nel doppiaggio di Rina Morelli, che pare imitasse bene la voce dell’attrice americana, anche se non ho mai visto quella versione). Il film – rivisto ieri sera – in gran parte regge ancora bene, anche se crollerebbe, o poco meno, senza la protagonista, che è certamente perfetta per la parte (già interpretata in teatro, a Broadway). Lei, Holliday, apparentemente non fa nessuno sforzo, sembra proprio così, svampita e spontanea sempre, tanto è vero che il personaggio le si appiccicò addosso per tutto il resto della carriera. Anzi, due anni dopo l’uscita del film, convocata da una commissione senatoriale (istigata dal famigerato documento Red Channels, pubblicato dal periodico di estrema destra Counterattack) perché sospettata – insieme a, fra gli altri, i più famosi: Orson Welles, Leonard Bernstein, Harry Belafonte, Aaron Copland, John Garfield, Lisa Sergio, Dashiell Hammet, Alan Lomax, Charlie Chaplin… – di “attività anti-americane”, vale a dire di essere comunista1, scelse, con grande intelligenza e spregiudicatezza, di recitare come se fosse davvero Billie Dawn (la nata ieri del film), parlando con lo stesso particolare tono di voce squeaky (stridulo), sgranando frequentemente gli occhi e sorridendo ammiccante spesso e volentieri. Non ho mai potuto vedere una registrazione di quella audizione – ammesso che esista, penso di sì – ma da quanto ho letto lei se la cavò alla grande. Negò di essere mai stata una commie e di aver neppure mai sostenuto certe organizzazioni ritenute, a torto a ragione, comuniste, ma non esitò a dichiarare (un po’ come nel film, quando finalmente apre gli occhi, capisce che razza di uomo è Broderick Crawford e osa fargli una lezione su cosa siano la democrazia e i diritti inalienabili della gente comune e quanto lui sia spregevole) che, pur non avendo niente a che fare con loro, ritiene che gli si debba riconoscere il diritto di pensarla diversamente da altri, riconosciuto dalla Costituzione americana. Insomma, ebbe molto coraggio, dissimulato dietro la maschera dell’oca, la ‘nata ieri’ incolta e superficiale, provocando così spesso simpatia e ilarità fra i presenti all’audizione, compresi i membri della commissione. Tutt’altro che stupida, però, come il film stesso alla fine rivelerà, trionfalmente, quando lei e Paul Verral (William Holden) si libereranno del bieco Harry Brook / Broderick Crawford neutralizzandolo e correndo quindi verso l’agognato matrimonio. Judy Holliday, insomma, uscì vincitrice dalla temuta audizione e pare che dopo non ebbe più fastidi, a differenza di tanti blacklisted da Hollywood, che ebbero la carriera stroncata, oppure dovettero emigrare verso il Regno Unito o l’Europa. Ovviamente l’esperienza le costò in termini di sforzo nervoso, perché dovette essere molto brava per non insospettire coloro che la interrogavano, e soprattutto non irritandoli sentendosi presi in giro.
Dopo, parlandone con un amico, un attivista dei diritti civili se ben ricordo, affermò di non essersi affatto vergognata di assumere quella parte; semmai, fu sempre molto fiera del fatto che evitò accuratamente di rivelare i nomi di sospettati di comunismo (“I didn’t name names”), obiettivo precipuo di certe audizioni. Una trappola in cui caddero, per viltà o perfino per canaglieria, non pochi suoi colleghi, o altri esponenti dell’ambiente hollywoodiano (casi emblematici quelli dei registi Elia Kazan e Edward Dmytryk).
C’è un momento nel film, verso la fine, quando Billie ha ormai aperto gli occhi e deciso di rompere con il suo ingombrante fidanzato, che già era arrivato al punto di picchiarla per costringerla a firmare certi documenti compromettenti. Finalmente liberatasi di ogni paura e di ogni ritegno, gli grida in faccia “Nazista!”, provocando la sua reazione sgomenta, dato che non riesce a rendersi conto del significato del termine e se si tratti di un insulto. In verità Billie, nella versione originale grida bensì “Fascista!”, epiteto ben più adatto al personaggio, un prepotente e un prevaricatore abituato a soverchiare il prossimo senza disdegnare l’uso della violenza. Eravamo nel 1950, in Italia il fascismo era caduto da sette anni, da cinque si era in una repubblica fondata, anche, sull’antifascismo; eppure, la potente censura italiana, piena di ex-fascisti ricondizionati (per usare un termine molto in uso attualmente), sempre pronta a intervenire per tagliare e, appunto, censurare, spietatamente, non si fece alcuno scrupolo di alterare il dialogo del film. Perché non era ammissibile, già nell’Italia del dopoguerra, nominalmente antifascista, che in un film, sia pure americano, qualcuno usasse il termine per quello che effettivamente è, o era: un giudizio molto severo, anzi un insulto.
Ho scoperto questa cosa soltanto dopo aver visto il film, mentre facevo una ricerca su internet per approfondirne la conoscenza. Una scoperta spiacevole, che lascia l’amaro in bocca, ma anche molto istruttiva.

1 In verità erano quasi tutti semmai anti-razzisti, pacifisti, oppositori della Spagna franchista e della bomba atomica, ecc

L’altro James Stewart


Chiamate Nord 777 di Henry Hathaway è un film veramente bello. Si può dire che ogni sua immagine – non soltanto ogni sequenza – seppure mostrata sempre con asciuttezza, quasi con understatement, sia intensa e arrestante. Non si indugia nell’effetto, quasi mai, è tutto reale, schietto, diretto. Pur essendo il film abbastanza lungo il suo ritmo è teso, ci sono molte ellissi, di cui il regista (con il montatore) fa un uso eccellente, evitando di perdere tempo mostrando parti della storia che pure sono decisive per il suo svolgimento. Appare al centro dello schermo un’insegna, o una frase scritta sulla macchina per scrivere, a sintetizzare una svolta della vicenda, oppure una fase cruciale, senza far uso di troppe immagini o parole. Ogni oggetto inquadrato, non soltanto le facce degli attori, è pregnante e carico anche di pathos, al punto da inquietare, spesso, chi guarda il film, catalizzando la sua attenzione: un cartello nel parlatorio del carcere, un orologio a muro, il numero sulla porta della falsa testimone, per non parlare dei molti particolari della macchina della verità all’opera sul corpo del recluso (il sempre bravo Richard Conte) mentre viene sottoposto a un difficile e delicato esame della sua affidabilità e sincerità. Per quanto riguarda gli attori, le loro espressioni facciali sono misurate, non si vedono smorfie o strabuzzamenti, proprio perché è piuttosto, e soltanto, il film a contare, il suo ritmo, la sua forza trainante tenuta sempre viva con un serrato e preciso montaggio. Quella di Hathaway è una lezione di regia essenziale, sobria, senza però mai diventare arida, tutt’altro – nonostante il taglio semi-documentaristico, piuttosto in voga in quegli anni. Il film è bensì ricco e vario, pieno di soluzioni intriganti e mai banali, come già i titoli di testa, che scorrono sulle pagine di una specie di block-notes (trattandosi di un film del 1948, è un’idea interessante e innovativa). Ma anche subito dopo, con le strane immagini della Chicago del XIX secolo in fiamme, evidentemente realizzate con dei modelli, ma molto bene, con la città vista dall’alto. Senza soluzione di continuità – mentre una voce fuori campo rievoca i fatti essenziali del film (presentato all’inizio come “Una storia vera”) – si passa a immagini, sempre dall’alto e da una certa distanza, della Chicago attuale, e sono anche queste non banali, semmai misteriose e inquietanti, e rendono bene l’idea dell’estrema durezza della vita lì, come verrà chiaramente fuori durante il film.
Poi appare James Stewart, che nella prima parte del film – anche questo è un aspetto insolito del film, e probabilmente avrà preso alla sprovvista i primi spettatori – è davvero piuttosto antipatico, realista fino al cinismo, e si decide ad occuparsi della vicenda di una madre che offre un ricco premio a chi fornirà prove utili a scagionare il figlio e a farlo uscire dalla galera dove langue da undici anni, soltanto dopo molte insistenze da parte del suo direttore. L’evoluzione dell’atteggiamento del personaggio interpretato da Stewart, attraverso un travaglio interiore crescente, che lo porta a mutare radicalmente la sua opinione, è certamente uno dei punti di forza del film. Immagino che vedendo la prima parte del film il pubblico americano fosse rimasto spiazzato e deluso scoprendo nell’attore tanto amato aspetti negativi a cui non era abituato. Poi, piano piano, è come se Stewart tornasse ad essere sé stesso, la persona ben nota, con le sue proverbiali qualità, tanto apprezzate dai suoi affezionati sostenitori. Si potrebbe dire che da un certo punto in poi l’attore esageri perfino un po’, indulgendo nelle ben note mosse ed espressioni, per ridiventare a tutti gli effetti il solito James Stewart – e soprattutto per farlo vedere. Ma sono sfumature tutto sommato trascurabili, è comprensibile che l’attore ci tenesse a riuscire convincente, a farsi riconoscere insomma. Bisogna considerare il fatto che nell’America di quegli anni (fino almeno a tutti i ’50) certi attori, come lui, Henry Fonda, John Wayne e altri, erano in verità delle maschere, nel senso che proponevano sempre la stessa persona, con le stesse movenze ed espressioni e soprattutto le stesse qualità morali. Erano convinti – e con loro gli studios – che fosse di estrema importanza il fatto che il pubblico li riconoscesse sempre, riconoscendosi in loro, nelle loro qualità, ed era un fatto che andava oltre il cinema, sconfinando nella vita reale. Erano infatti personaggi pubblici e in quella società così fondamentalmente puritana dovevano proporsi sempre come eroi, o comunque come figure positive, paladini del bene, pur con qualche trascurabile difetto caratteriale, che gli si perdonava perché faceva parte del personaggio. Per quanto ne so, James Stewart impersonò una sola volta in carriera un personaggio negativo, in un film della serie dell’Uomo Ombra, dove era addirittura l’assassino, smascherato alla fine del film. Ma era ancora molto giovane, doveva ancora forgiare la sua maschera, e credo che quell’occasione sia rimasta l’unica eccezione di tutta una lunga carriera1.


La parte finale è veramente molto coinvolgente, perfino elettrizzante, grazie al lavoro del regista e a quello degli attori, Stewart ma non soltanto lui. Quello che accade davanti ai nostri occhi sfida quasi la verosimiglianza, l’idea di Mc Guire (il reporter impersonato da Stewart) è talmente inusitata da apparire quasi folle ma forse proprio perciò riesce convincente, sia per il pubblico sia per gli altri personaggi all’interno del film. Teniamo ben presente che Call Northside 777 è stato girato nel 1948, poco meno di vent’anni prima di Blow-Up, il grande film di Antonioni. Eppure succede già la stessa cosa: da una foto che parrebbe banale e insignificante, successivi macro-ingrandimenti arrivano a svelare un segreto che vi era celato. In questo caso da circa dodici anni, mentre nel film di Antonioni non erano trascorse che poche ore fra il momento in cui la foto fu scattata e quello in cui l’ultimo, fatale ingrandimento ci mostra la verità nascosta, pur essendo sempre stata lì, di fronte ai nostri occhi (e a quelli di David Hemmings, soprattutto).

1 Non tutti i grandi divi di Hollywood fecero questa scelta, quantomeno non in maniera così drastica. Humphrey Bogart, se pure apparve sempre in parti di duro, però affascinante, qualche (rara) volta ne fece di negative, di gangster spietati e brutali. Cary Grant, anche se era sempre riconoscibile alla prima occhiata (stessa pettinatura e stesso aspetto fisico per decenni) fece anche, di quando in quando, personaggi non così positivi, e comunque una certa ambiguità traspariva sempre dalle sue espressioni, era anzi un po’ la sua cifra. Ma così altri, e lo stesso Fonda, già anzianotto, con Sergio Leone interpreterà per la prima volta un personaggio negativo a tutto tondo. Il caso di Stewart è davvero particolare, credo, proprio perché ci teneva a non deludere mai il suo pubblico, perciò non rischiò praticamente mai. E questo è forse stato il suo vero limite in quanto attore, peraltro sicuramente bravo.

Tre volte Ana

Spesso si dice o si scrive a proposito del capire un’opera d’arte – pittura o scultura, letteratura o cinema – o perfino una persona o un luogo. Capire deriva dal latino càpere, e più indietro da una parola greca, kàptein che significa ‘prendere’ o anche, dopo un tortuoso percorso fra vari idiomi nel corso di molti secoli, ‘afferrare’, quindi anche ‘contenere’ (da cui la ‘capienza’ di un contenitore).
Insomma, si cerca di prendere, afferrare, bloccare qualcosa che si muove, o che tende naturalmente a farlo, per imprigionarlo in una forma che si vorrebbe perpetua, immutabile. In verità, possiamo soltanto entrare temporaneamente in contatto – anche per un attimo – con un’opera, una persona, un luogo, in un determinato momento della sua vita e della sua storia. Rivedendoli, ritornandoci, dopo qualche tempo, non sono più quell’opera, persona, luogo, ci accorgiamo che sono qualcos’altro e non possiamo pretendere di capirli, ovvero di farli coincidere con la forma in cui ci apparvero la prima volta, e poi le volte successive. Non capire, non afferrare, non bloccare, bensì stabilire una relazione che determina in noi un’impressione, ogni volta una del tutto nuova, che aggiungendosi a tutti le precedenti contribuisce a creare un’idea, affatto multiforme e contraddittoria, di quell’opera, persona o luogo.


Verso la metà di Cerrar los ojos, un film (uscito nel 2023) di Victor Erice vediamo apparire un volto che ha qualcosa di familiare, anche se ci vuole qualche secondo per rendersi conto che appartiene ad Ana Torrent. Quegli occhi, che lasciarono un segno indelebile in chi vide il primo film di Erice, El espíritu de la colmena, non sono più così spalancati, cinquant’anni sono trascorsi, un tempo molto lungo e all’epoca lei aveva soltanto sette anni. Allora ogni loro sguardo esprimeva stupore, audacia, inquietudine e tristezza, spesso tutte queste cose insieme, mentre ora si sono stretti, come se gli fosse ormai impedito, per sempre, di spalancarsi.
Questa apparizione è uno dei primi segnali che ci mettono, io credo, sulla strada giusta per individuare il senso dell’ultima opera (finora) di Erice, che tratta del tempo, della sua azione costante e implacabile sulle persone, che cambiano esteriormente ma rimangono sempre avvinte a tutte le esperienze vissute, a tutti coloro con cui le hanno condivise, ai luoghi in cui sono avvenute. È un’opera sui legami invisibili fra presente e passato.
Anche il personaggio della Torrent si chiama Ana, come nello stesso primo film, quando aveva sette anni, e dove pure inizialmente ne aveva un altro. Ma a un certo punto durante la lavorazione Erice decise che i quattro protagonisti (Ana, la sorella maggiore e i loro genitori) si dovessero chiamare ognuno con il proprio vero nome, dopo essersi accorto che la bimba era sconcertata e confusa non riuscendo a capire per quale motivo tutti avessero un altro nome1. E così, «Yo soy Ana», dirà nella seconda parte di questo film incontrando il padre (che non la riconosce) per la prima volta dopo vent’anni. E «Yo soy Ana» aveva già detto cinquant’anni prima, nel primo film di Erice. Due volte Ana, anzi tre, perché la prima è lei, Ana Torrent, che contiene e rappresenta le altre due: come cucire insieme, con lentezza, accuratamente, tre vite – una reale e due immaginarie – nell’arco di mezzo secolo. Ma cos’è mezzo secolo? Un soffio davanti a uno specchio, che si appanna per pochi secondi. Durante i quali tutto viene ricordato, anzi rivissuto.
La Torrent stabilisce un altro legame forte fra i due film, il primo e l’ultimo di Erice, perché in entrambi chiude gli occhi – attivando un’altra vista, più profonda e più pura, soprattutto più libera, che va oltre le apparenze – e sempre in un momento cruciale. La prima volta alla fine, gli occhi della bimba chiudendosi creano una separazione fra lei e noi che la guardiamo, chiudendo di fatto anche il film. La seconda, Ana li chiude dopo aver rivisto il padre (quasi sempre assente nella sua vita anche prima) ricomparso dall’oblio dopo vent’anni, durante i quali era stato dato per morto. Perciò il titolo del film, che pure ci mostra questo gesto fatto da un’altra persona, la giovanissima figlia del vecchio ebreo nel film incompiuto di vent’anni prima (La mirada del adiós, ovvero Lo sguardo dell’addio) che apre e chiude Cerrar lo ojos, parrebbe piuttosto riferirsi ai due momenti di Ana Torrent, separati da cinquant’anni della sua vita reale e apparsi in due film di finzione.
Sembra proprio essere, Cerrar los ojos, un film su Ana Torrent, anche. Ma si deve aver visto prima di questo (o anche dopo) il primo di Erice, El espiritu de la colmena, per rendersene conto. Il cinema come registrazione del mutamento in cui incorre una persona in cinquant’anni della sua vita, dall’infanzia alla mezza età. Quindi non soltanto finzione ma anche realtà, e i due livelli – ciò che accade in questo film – si intersecano, lavorando in osmosi.

Infine, ancora una volta, ed è la terza su tre film di Victor Erice, assistiamo a una vicenda di relazione fra una figlia e suo padre. In questo caso sono addirittura due figlie e due padri, idivisi fra Cerrar los ojos e La mirada del adiós. È quanto meno possibile che questo aspetto riguardi da vicino proprio lo stesso autore, della cui vita privata, peraltro, io non so niente.

1 Qualcosa di simile accade, ad esempio, in Sotto gli ulivi di Kiarostami (incidentalmente, un autore che credo Erice apprezzi molto) e in Pane e fiore di Makhmalbaf. In entrambi, gli attori, non-professionisti che nel primo caso devono interpretare sé stessi, non riescono a fingere e si rifiutano di compiere, sia pure all’interno di un film, gesti che non compirebbero mai nella vita, e vogliono essere chiamati con il loro vero nome.

ps: ho scoperto pochi minuti fa, mentre mi accingevo a pubblicare questo testo, che nel 2011 Erice realizzò, all’interno di un progetto collettivo dedicato alla tragedia di Fukushima, 3.11, A Sense of Home, un corto di 3′ intitolato Ana, tres minutos. Ovviamente, con Ana Torrent.

Ritorno a Paris, Texas


Credo di aver visto Paris, Texas quando era uscito nei cinema, nel 1984, o forse nel 1985, dipende da quando uscì in Italia, perché credo che andai subito a vederlo. Era quello un momento topico della mia vita, quando tutto stava cambiando per me e fu come ripartire da zero. Infatti da lì in poi, proprio a partire da quell’anno, dopo la grave crisi del 1983, la mia vita fu diversa, quasi completamente (nel senso che non cambiai lavoro – anche se fui trasferito fuori Torino, in una piccola città). Vedere quel film fu un’esperienza scioccante, già a partire dall’inizio, ma soprattutto la parte finale, quella nel peep-show. Ricordo ancora bene che non riuscii a fermare le lacrime, là da solo nel cinema (non credo ci fosse molta gente, doveva essere di pomeriggio): evidentemente mi immedesimavo nella vicenda di Travis, era come se vedessi me stesso rappresentato da quel personaggio. In ogni caso, si trattò di un’esperienza così intensa, quasi devastante, psicologicamente, che decisi di non rivederlo mai più, unico fra tutti i grandi film di Wenders, diciamo fino a Il cielo sopra Berlino (tutti gli altri venuti dopo per me contano poco, molti non li ho neppure mai visti).
Questo finché qualche giorno fa, trovando su internet una versione di ottima qualità, ho deciso di scaricarla: prima o poi l’avrei rivisto. È successo ieri e mentre lo guardavo ho avuto la strana sensazione, da un certo punto in poi, che non fosse lo stesso film e soprattutto la mia percezione era molto diversa da quella di allora, per quel che mi ricordavo. In particolare, avevo completamente rimosso la figura di Hunter, il figlio di Travis e Jane, in verità fondamentale, perché senza di lui non sarebbe successo niente: ritrovandolo dopo quasi quattro anni, quasi per caso, il padre capisce, sia pure non subito, cosa dovrà fare, per il bene del figlio più che per il suo. Questa mia dimenticanza non me la so spiegare, è davvero strana, anche perché Hunter stabilisce un nesso molto importante con Alice, la protagonista (quando credo avesse la stessa età) di Alice nelle città, sicuramente uno dei film di Wenders che amo di più. Forse, chissà, me ne ero reso ben conto già allora e la cosa non mi piacque, come se ci fosse una sovrapposizione fra i due personaggi che non approvavo, per qualche motivo. Fatto sta che ieri sera mi sono dapprima stupito vedendo apparire Hunter, poco dopo l’inizio del film, e soprattutto mi sono stupito dopo accorgendomi della sua importanza nello sviluppo della vicenda (mentre da subito avevo pensato che non l’avremmo più visto, una presenza episodica e marginale, senza conseguenze). Quindi, quando ho capito che sarebbe stato al centro di tutto ciò che sarebbe seguito alla sua prima apparizione, per me è stato come vedere un altro Paris, Texas, del tutto nuovo, come se Hunter fosse stato, chissà come, infilato nel film dopo il 1984.
Perciò si è creata una strana situazione dentro di me, tornato dopo circa quarant’anni a guardare un film che mi aveva davvero sconvolto quella volta, ma che non riconoscevo, non del tutto, soprattutto a causa del bambino, che allora non c’era. E questo fatto ha determinato in me una sorta di scompenso, la presenza di una mancanza, ovvero l’assenza di qualcosa che ho perduto e non potrò mai più ritrovare.
Peraltro, non potrò mai più rivedere il film come quella prima volta, mai più provare le stesse intense emozioni (ma altre certamente sì, come ieri sera), perché non sono più quello, è passato troppo tempo e in quegli anni l’intensità delle mie esperienze era tale da non potersi realmente ricordare, o meglio rivivere, anche perché non mi è mai più capitato niente del genere, e soprattutto non potrebbe capitarmi mai più.
Ma la mia impossibilità di capire, di provare le stesse emozioni di allora, io credo vada soprattutto attribuita all’apparizione (per me è stata tale, ieri sera) di Hunter, per la sua centralità nella storia: non ho mai vissuto la sua esperienza, non posso quindi immedesimarmi in lui, come invece mi fu facile, allora, farlo con quella dei suoi genitori, soprattutto con Travis, per ovvi motivi.
Forse soltanto alla fine, quando, dopo qualche minuto di studio, di naturale esitazione, il bimbo si avvicina alla madre e finalmente la abbraccia (liberando anche lei dalla tensione e dalla paura di essere rifiutata, come castigo per la sua fuga) mi sono realmente, per qualche attimo, commosso. Ma, io credo, in un modo del tutto nuovo, ben diverso da quella prima volta.
In verità ci potrebbe essere un’altra spiegazione della mia rimozione del personaggio Hunter, e forse capisco perché non mi sia venuta in mente prima. È perché mi fa sentire molto a disagio, mettendo a nudo un senso di colpa che avevo inconsapevolmente sepolto in me per tutti questi anni.

14 settembre 2024

Il primo suono

Verrà il tempo in cui tutti si comporteranno come folli e vedendo qualcuno non comportarsi allo stesso modo gli daranno contro dicendo: «Sei matto!», – perché lui non è come loro. (Sant’Antonio del Deserto)

Subito dopo la rovinosa caduta dell’aerostato, un cavallo a terra si gira sulla schiena e scuote le zampe in aria, come esultando.
Sui due lati del fiume: da una parte, in primo piano, i tre monaci, dall’altra i soldati-sgherri che procedono lentamente a cavallo nella stessa direzione; su un cavallo, appoggiato come un sacco, braccia e gambe distese, sta il buffone, appena picchiato.
Mentre Andrej (Rublev) e Danil discutono stando su una strada che si estende a perdita d’occhio nella pianura, circondata da campi fioriti, si vede in lontananza arrivare un cavaliere. Loro continuano a discutere, piuttosto animatamente, e a un certo punto il cavaliere gli passa accanto, galoppando di gran carriera. Nonostante le nostre aspettative, lui sembra non avere niente a che fare con loro, come passando di lì per puro caso (e loro stessi non lo degnano di un’occhiata).
Nel fiume, la donna nuda nuota verso una possibile libertà, passando vicino, quasi incrociandola, alla barca con sopra Rublev, che non si gira a guardarla. La mdp la segue ancora per un po’, tralasciando la barca, lei continua a nuotare, finché esce dall’inquadratura una volta per sempre.
Andrej e Foma sono nel bosco, discutendo, e d’un tratto vediamo una biscia entrare nell’acqua. Poco dopo Andrej, che l’ha vista, chiama l’altro per mostrargliela, parla sottovoce e sorride.
Ruscello inquadrato subito dopo la morte di Foma, colpito da una freccia quando si credeva in salvo, dopo essere fuggito da Vladimir; una carrellata lenta da destra verso sinistra.
Ma già prima, alla fine dell’aggressione nel bosco (accecati degli artigiani che avevano lavorato nella casa del Duca lasciandolo insoddisfatto) si vede una sequenza simile, inquadrato il ruscello mentre qualcosa di bianco – forse latte, o piuttosto colore? – si diffonde lentamente nell’acqua.
Il viso di Duročka inquadrato col teleobiettivo mentre la campana oscilla; lei sorride dolcemente subito dopo il primo rintocco.
Quando la campana finalmente suona, e poi continua a farlo, nel generale tripudio, Boriska e tutti i lavoranti rimangono silenziosi, sfiniti, con un’espressione grave nello sguardo: se non avesse suonato ci avrebbero rimesso la testa, questione di un attimo, bastava che il primo rintocco non si verificasse, che non si udisse alcun suono.
Infine, subito dopo la rassegna di icone, i quattro cavalli sulla riva del fiume, visti da lontano, sfocati, mentre riposano, liberi. Intanto la pioggia cade su di loro, noncuranti.

Credo che la parte della campana (ottava e ultima del film, introdotto da un prologo e chiuso da un epilogo) sia la più intensa, la più commovente e travolgente che abbia mai visto al cinema. Ovviamente anche ciò che la precede è di alto livello, nonché essenziale per apprezzarla compiutamente; ma questi quaranta minuti circa rasentano la perfezione1, raggiunta nei pochi attimi prima del primo rintocco e poi immediatamente dopo (il sorriso di Duročka colto con una zoomata che si infila fra i tralicci e le corde della struttura che sostiene la campana). Ma il vero culmine, per me, il momento in cui mi arrendo completamente – si potrebbe dire che mi inchini, ciò che in verità ho fatto l’altra sera, spontaneamente, rimanendo in ginocchio davanti allo schermo per quasi tutta la durata dell’episodio – travolto dalla commozione e dall’entusiasmo insieme, è quando Boriska, accasciato a terra in lacrime, confessa ad Andrej, che lo ha preso fra le braccia per consolarlo, di avere agito completamente ‘senza rete’, millantando di conoscere il segreto della fusione appreso dalle labbra del padre morente. «Quel bastardo non me l’ha voluto dire, se l’è portato nella tomba!», dice fra i singhiozzi. Improvvisamente tutto ci appare in una luce nuova, una luce fortissima che cade su tutto quanto ha preceduto quel momento, capiamo così che il ragazzo aveva deliberatamente intrapreso un’impresa disperata, sapendo bene che il probabile fallimento avrebbe voluto dire farsi tagliare la testa, a lui e a tutti i suoi collaboratori. Ne fui fortemente colpito la prima volta che vidi il film, conservando sempre dell’esperienza un ricordo intensissimo, indelebile. E ogni volta che lo rivedevo (almeno quattro contando l’ultima) rivivevo la stessa emozione, più o meno come la prima volta: un miracolo che si ripeteva ogni volta identico, un po’ come il sangue di San Gennaro a Napoli.
Ciò che non ricordavo, in verità, è proprio l’inizio dell’episodio, quando vediamo per la prima volta Boriska seduto contro il muro diroccato della sua casa, solo, del tutto sfiduciato, apparentemente privo di emozioni e di speranza nel futuro. Parla con un cavaliere, che non vediamo, gli dice che è rimasto solo al mondo, la pestilenza ha ucciso tutta la sua famiglia, compreso il padre fonditore di campane.
Si riscuote, subitamente, quando apprende che il cavaliere è un messo del Principe e sta cercando un fonditore per costruire una nuova grande campana per la cattedrale. Decide in un batter d’occhi di giocare la sua carta, con un coraggio e una determinazione folli, affermando quasi con veemenza di conoscere il segreto della fusione trasmessogli dal padre. Ora mi rendo conto che questa decisione improvvisa si può anche spiegare con il fatto che il ragazzo non aveva più nulla da perdere, e se mai avesse vinto quella folle sfida sarebbe rinato, piuttosto che rimanere una nullità, un reietto solo al mondo, abbandonato da tutti.

Ma l’artista, il creatore di opere molto belle e create dal nulla, che infondono benessere ed energia positiva nella gente, deve sempre faticare, penare e addirittura, come in questo caso, rischiare la vita. La sua soddisfazione per aver adempiuto al proprio compito è fugace, quando c’è, spesso neppure c’è, perché manca sempre la certezza, ovvero c’è ma è talmente esile e fugace rispetto alla mole immane del lavoro, della fatica. Ma questo è il compito, dare forza e gioia di vivere agli altri, attraverso le proprie pene, il lavoro sfiancante, la fatica. Perciò Andrej e Boriska continueranno insieme per adempiere la propria missione di artisti, di creatori di bellezza che verrà apprezzata da altre persone.

1 Grande la mia sorpresa quando ho sentito qualcuno fuori dall’inquadratura parlare in italiano. Inizialmente non capivo, ho pensato a uno strano difetto del file (?), e il mio sconcerto è perfino aumentato quando subito dopo ho ripreso a udire le voci parlanti in russo (sottotitolato in inglese) come in tutto il resto del film. Ciò che ha un pochino interrotto il crescendo delle mie emozioni, arrivando nei pressi del primo rintocco, che poi mi è quasi sfuggito, parendomi non così sonoro. Evidentemente mi era rimasta impressa la prima visione del film, doppiata in italiano, quando non potevano certamente sorprendermi delle voci fuori campo in italiano. E quella volta, per questo motivo, vissi l’ascolto del primo rintocco della campana con un’intensità ineguagliabile, e irripetibile.

dieci (piccoli) indiani

And Then There Were None, di René Clair, del 1945, si apre con una curiosa rassegna di primi piani di alcuni dei ‘dieci piccoli indiani’ mentre sono sulla barca che li porta verso l’isola fatidica. La lunga sciarpa di una di questi, mossa dal vento, ricopre a turno il volto di alcuni fra gli altri, conferendogli misteriose e inquietanti sembianze1, ma soltanto per lo spazio di pochissimi secondi, prima che ognuno, con un gesto della mano, se la tolga dalla faccia.
Girato quasi tutto in interni, è proprio in questa dimensione che accadono, cinematograficamente, le cose più interessanti. Uno o più personaggi sono in primo piano, ma sullo sfondo, nella grande sala, ne vediamo un altro che magari ha appena lasciato il gruppetto e si allontana verso una scala, la sale. Oppure ne discende, ma in entrambi in casa questa azione ci distrae da quella in primo piano, la alleggerisce, e questa leggerezza si diffonde per tutto il film (che altrimenti, siccome bene o male parla di molto delitti, poteva risultare greve). Ma spesso i personaggi sono distratti, mentre si trovano in una stanza, da qualcosa che accade altrove, udibile soltanto, in forma di urlo, fracasso, sparo, per cui subito si allontanano; oppure guardano lontano servendosi di un binocolo. In questo modo la storia – che bene o male è una pièce teatrale adattata per lo schermo – assume una vivacità, una mobilità e una instabilità che sarebbe alquanto difficile ottenere su un palcoscenico. Un altro espediente – davvero molto ingegnoso – viene utilizzato in una sequenza fra le più memorabili, quella in cui almeno quattro personaggi si spiano a vicenda, o dal buco di una serratura o da dietro un angolo, e seguendosi (ognuno di soppiatto, ovviamente, per non farsi notare) percorrono in cerchio una parte cospicua della casa, con un movimento vertiginoso che di nuovo, come negli altri casi, alleggerisce il film travalicando i limiti dell’unità aristotelica di tempo e luogo dell’azione.

Ma vediamo spesso nel film qualcuno mentre spia qualcun altro attraverso il buco della serratura, generalmente da una sala da bagno, in quanto esse sono sempre comuni a due stanze, inframmezzandole, e sono quindi frequentate, a turno, da due diversi personaggi. Così ognuno scopre dettagli dell’altro che questi nasconde in pubblico, perché la costante di tutto il film, ciò che accomuna i dieci ‘indiani’ (oltre al fatto di celare, quasi tutti, un delitto compiuto in passato) è la finzione, il fatto che tutti fingono e mentono, perciò, inevitabilmente, si spiano sperando di cogliere l’altro, gli altri, in fallo. Ed è questo un altro espediente (peraltro, in questo caso, mutuato dalle pièce) che conferisce al film le sue qualità precipue: imprevedibilità degli eventi, instabilità costante della situazione – anche se il luogo è sempre quello, per tutto il film – e mobilità continua della vicenda, che peraltro (altro espediente rilevante) non ha un solo vero protagonista, ma dieci bensì (undici col traghettatore), per altrettanti punti di vista, quindi nega la centralità e l’univocità.
In questo senso si può dire che And Then There Were None è un film realmente fondato sull’equivoco.

1 È quanto meno probabile che la cosa abbia un senso ben preciso, ovvero mettere in guardia chi guarda il film facendogli capire che tutti i personaggi potrebbero nascondere qualcosa dietro apparenze affatto ordinarie. Per cui, coprire le faccia di alcuni di loro è come dire che sarebbe bene non farsi condizionare, o fuorviare, da tali apparenze. Anche se fra i dieci ci sono diverse persone che occupano nella società ruoli per così dire rispettabili (medico, giudice, generale in pensione, ecc.), meglio diffidarne, ovvero andare oltre le apparenze, che ci vengono così sottratte alla vista per qualche secondo. Ciò nonostante, rimane il fatto che il giochetto della sciarpa mossa dal vento provoca nello spettatore, subito all’inizio del film, una sensazione disturbante.

La mano e gli occhi

In The Tin Star, un western degli anni ’50 di Anthony Mann, la lunga sequenza iniziale è dominata da una mano. Spunta, con parte del braccio, da sotto una coperta, messa addosso al corpo di un bandito ucciso trasportato da un cavallo. Il protagonista, un bounty-killer interpretato da Henry Fonda, entra nel villaggio, lentamente lo attraversa, suscitando la generale curiosità (tutti escono da case o negozi per seguirlo).
La scena ha luogo in silenzio – soltanto il rumore degli zoccoli dei cavalli sulla strada in terra battuta, e nessun commento musicale – e sarà l’unica in cui il morto (di cui vedremo soltanto quella minima parte del corpo) comparirà nel film. L’aspetto più interessante di questa sequenza è che quella parte di un corpo che non possiamo vedere appare nel film come un’intrusione vera e propria, perché non ha niente a che fare con tutto quello che seguirà. Ha i tratti inconfondibili del macabro e dell’orrifico, accentuati dal silenzio assoluto che si crea nel villaggio, anche se praticamente tutti i suoi abitanti, usciti dalle case, sono raccolti lì intorno, sorpresi e sgomenti. Potrebbe davvero sembrare un film dell’orrore, ma di una strana specie, mischiato con il western, e se continuasse così sarebbe tale, ma non succede, quel che segue è tutt’altro e non ha proprio nulla a che fare con quella mano che spunta dalla coperta e ciondola seguendo il movimento del cavallo che porta il cadavere. È un po’ come se un film iniziasse così, su quella nota lugubre e poi finisse ben presto, continuando con gli stessi personaggi ma in tutt’altro modo, diventando un altro film. Fra l’altro, il personaggio interpretato da Fonda si rivelerà in seguito come una figura positiva, niente a che fare con quella sinistra del cacciatore di taglie (del tutto inusitata per un attore dalla consolidata reputazione di ‘buono’ come lui) con cui si era così icasticamente presentato arrivando nel paese, in modo tale da allarmare gli abitanti e sconcertare noi spettatori del film.
Sempre in The Tin Star, piuttosto verso la fine, la parte in cui il villaggio in festa, con tanto di banda, accoglie l’arrivo del vecchio medico, nel giorno del suo 75° compleanno; ma poi si accorgono che il carro è trainato dal cavallo sbrigliato, e il dottore giace inanime al posto di guida, dopo essere stato ucciso dai banditi. Così la banda smette di suonare, per qualche secondo scende il silenzio, poi prevale lo sgomento. È una sequenza molto ben congegnata, non deve essere stato facile farla, con tutta quella gente, e la banda, soprattutto il rapido passaggio dalla gioia allo smarrimento e poi all’orrore.

In The Lady Eve, di Preston Sturges (un film dei primi anni ’40) si assiste per almeno tre volte a un fatto curioso. Mentre Henry Fonda si trova sul ponte della nave in attesa di Barbara Stanwick, improvvisamente nell’inquadratura appare un tipo – sembrerebbe un addetto alle pulizie, porta sulla spalla una specie di scopa, una volta forse una scala – in primissimo piano, attraversa la scena, da sinistra verso destra oppure da destra verso sinistra, sempre per pochissimi secondi, si vede appena. La prima volta Fonda è visibilmente sorpreso, per qualche motivo, e segue con lo sguardo il tizio anche dopo che è uscito dall’inquadratura. La seconda volta è già meno sorpreso, sembra abbozzare un sorriso, e forse la terza volta (o già nella seconda, non ricordo) il marinaio – ammesso che si tratti davvero di un marinaio – lo saluta brevemente. In una delle tre occasioni il personaggio è seguito – o preceduto? – da un uomo in divisa, forse un ufficiale della nave. Nessun commento da parte di Fonda, neppure con gli altri attori, così la perplessità di noi spettatori rimane insoluta.
Ho pensato che forse la cosa accadde una volta sul set per puro caso, un incidente come probabilmente è normale che ne succedano quando si gira un film (penso a The Party di Blake Edwards, le varie gaffe analoghe commesse dal personaggio interpretato da Peter Sellers). Così Sturges, regista noto per la sua eccentricità e per l’atmosfera caotica ed esuberante che regnava sul set nei suoi film, e favorevole a una certa improvvisazione dei suoi attori, deve averla trovata piuttosto divertente, rifacendola poi appositamente per alcune volte.

In The Border Incident, un film assai teso e duro di Anthony Mann del 1949, quasi tutto girato di notte, c’è una scena molto bella e anche diversa da tutte le altre. Ha luogo in una chiesa, durante il saluto del bracero Juan Garcia alla moglie, prima di avventurarsi in un espatrio irregolare dal Messico alla California, per guadagnare qualcosa lavorando clandestinamente nei campi. Inizialmente la si vede di profilo, a destra dell’inquadratura e in secondo piano (mentre lui è in primo piano a sinistra, piuttosto fuori fuoco). Ha un fazzoletto sulla testa, o piuttosto un mantello (insomma, una specie di chador), che le lascia scoperto il viso, così da farla subito sembrare (forse anche perché i due sono in chiesa) una madonna, come è sempre stata rappresentata nei quadri, soprattutto in quelli antichi. Dopo averlo ascoltato si gira lentamente verso di lui, ha uno sguardo luminoso e un lieve sorriso (sia pure triste) le increspa le labbra, mentre gli dice che lo capisce e non si oppone alla sua decisione, ma lo prega, dolcemente, di fare molta attenzione, in modo da poter tornare sano e salvo da lei e dai loro due bambini. Una sequenza molto breve ma particolarmente intensa, lei sembra davvero una madonna, ma con naturalezza, il suo viso è bellissimo, dolce e rasserenante.
L’attrice che impersona questa madonna messicana si chiamava Teresa Celli, nata negli Stati Uniti in una famiglia italiana. Quando era ancora una bimba venne in Italia con la famiglia, fermandosi a lungo anche per studiare canto alla Scala (già in famiglia c’era stata più di una cantante lirica, credo la nonna e la bisnonna). Tornò poi negli USA, lavorando molto raramente nel cinema (anche nel celebre Giungla d’asfalto) oltre a cantare nei teatri.

In Deadline – USA, un bel film di Richard Brooks del 1952, con Humphrey Bogart al suo meglio, già vedendo scorrere i titoli di testa noto casualmente, fra i comprimari, un nome che non conoscevo, Joe De Santis. Saprò che fa una parte di un certo rilievo, quella di un poco di buono, fratello della ragazza uccisa (o fatta uccidere) dal potente gangster Rienzi, un vile che pur trovandosi nel luogo del delitto non fa nulla per evitarlo. Poi per paura si nasconde, ma viene scovato da un cronista del giornale diretto da Bogart e convinto a testimoniare contro il gangster, sia pure dietro un lauto compenso. Bogart e gli altri del giornale lo disprezzano, anche se accettano le sue richieste, unico modo per incastrare il fellone. Che poi riesce a farlo uccidere prima che possa testimoniare davanti a un giudice, per cui tutto il ben congegnato piano di Bogart si sfalda. De Santis se la cava bene, è molto credibile: sudato, con il terrore negli occhi, ma comunque avido di arraffare la sua ricompensa, che pure ottiene, indirettamente, in virtù dell’assassinio della sorella, quando ritenne del tutto conveniente voltare le spalle senza alzare un dito per salvarla.
Dopo aver visto il film ho fatto una rapida ricerca: il suo nome completo era Joseph Vito Marcello De Santis, ovviamente un italiano, come era facile immaginare già dal cognome, e poi dai suoi gesti e dalle sue espressioni. Nato a New York, ma da un padre calabrese e da una madre lucchese, inizia presto a recitare e nello stesso tempo si dedica alla scultura; poi, ancora giovane, fa il conduttore in una radio in lingua italiana. Dopodiché ancora radio, televisione e cinema, oltre alla scultura, che molto probabilmente praticava per pura passione. E a questo proposito emerge un particolare curioso, forse il più interessante, qualcosa che, inopinatamente, lo lega addirittura a Frank Zappa. Infatti, nelle note al primo disco delle Mothers of Invention, Freak Out!, del 1966, dopo l’intestazione che recita “These people have contributed materially in many ways to make our music what it is. Please do not hold it against them”, compare, fra molti altri, anche il suo nome. Zappa frequentava a Los Angeles lo studio di tale Vito Paulekas (scultore e performer assai noto in quella città) e lì fece la conoscenza del nostro, che a sua volta ci andava per fare le sue sculture.
Su internet si trovano diverse foto di De Santis quando aveva già una certa età, sempre con i baffi, e si vede senza ombra di dubbio che era un italiano al 100%, pur avendo sempre vissuto negli USA. In almeno una ha gli occhi lucidi, molto luminosi, con un’espressione solare, benevola. Nella mia vita ho conosciuto diversi uomini così, soprattutto del Sud, ma non soltanto, con quello sguardo luminoso al disopra dei baffetti neri, i capelli imbrillantinati e pettinati indietro. A ben pensarci, almeno un paio erano miei parenti, persone che non vedo più da molto tempo, ormai scomparse.

Ore blu

Il primo episodio di Quattro avventure di Reinette e Mirabelle, di Rohmer, L’Heure bleue, è anche, decisamente, il più bello. Nel senso che se si interrompesse la visione del film alla fine dell’episodio il suo ricordo rimarrebbe intenso e profondo, mentre per quanto riguarda gli altri – pur piacevoli e talvolta anche divertenti – essi rimangono nell’ambito della normalità (quanto meno se si parla di Rohmer). L’ho rivisto ieri sera, scegliendo quasi distrattamente il dvd, più che altro per pigrizia (era stata una giornata molto faticosa per me), perché non avevo voglia di cercare altro. È pieno di situazione ‘normali’, dalla vita di tutti i giorni in un borgo di campagna, dove però la casuale apparizione di Mirabelle, una studentessa parigina in vacanza (siamo in estate), crea una situazione anomala, sia per i contadini – e i loro animali: capre, oche galline, perfino un cavallo – sia, soprattutto, per Reinette, l’eccentrica pittrice autodidatta che vive sola in un granaio riattato. Casualmente fa conoscenza della prima, che aveva bucato una gomma della bicicletta, dopodiché la ospita a casa sua, dove cenano, sempre chiacchierando moltissimo (sono talmente diverse, a tutti i livelli) e poi vanno a dormire. Prima però Reinette ammalia Mirabelle raccontandole della mitica «ora blu», l’unica in cui si può ascoltare il silenzio assoluto, un’esperienza che lei ha vissuto più volte, soprattutto nella stagione estiva. Così si accordano per alzarsi prestissimo il mattino dopo, prima dell’alba, e uscire di casa per aspettare all’aperto il fatidico momento, che durerà «soltanto un minuto», parole di Reinette. Questo primo tentativo fallisce a causa di un imprevisto, Reinette la prende malissimo, addirittura piange, così Mirabelle decide di fermarsi ancora un giorno per ritentare la notte successiva. Venuto il momento, la ragazza di campagna si alza, e non vedendo l’altra nel letto, esce di casa per andare verso il bosco. Ha una camicia da notte bianca, sembra un fantasma, e mentre si muove nel buio quel candore rivela la sua presenza e i suoi movimenti. Dopo qualche secondo si vede un’altra macchia bianca muoversi nel buio (siamo in campagna, tutte le luci artificiali sono spente), andando verso Reinette: è Mirabelle che, silenziosamente, si avvicina all’amica, le vediamo affiancate, quasi spalla contro spalla, guardando il cielo, là dove fra un po’ sorgerà il sole. Stavolta tutto procede nel modo giusto, nessun rumore esterno giunge inaspettatamente a rovinare la situazione (come era invece avvenuto la notte precedente). Si sente ancora qualche isolato verso, uccelli o rane, poi niente, il silenzio assoluto, immane, che dura soltanto per un minuto. Abbiamo assistito, anche noi spettatori, al miracolo dell’ora blu (come era già avvenuto con quello del raggio verde nel film omonimo di Rohmer dell’anno prima) e siamo, quasi come le due ragazze, soverchiati dall’emozione – per tutto quel minuto nessuno ha più aperto bocca, si poteva quasi udire il battito del proprio cuore. Reinette e Mirabelle, poco dopo che si sono uditi i primi versi di qualche uccello mattutino, si abbracciano, travolte dalla commozione e dall’entusiasmo, e questo abbraccio noi lo indoviniamo, rivelato appena dal candore delle camicie da notte che emerge a malapena dal buio. Che solo ora sta iniziando a indebolirsi per cedere il posto alla luce del giorno.

Stamattina mi è venuto in mente che forse anche in Un condannato a morte è fuggito, di Bresson, quando i due evasi finalmente agiscono, dopo aver atteso per ore immobili sul tetto il momento propizio, verso l’alba, ha luogo lo stesso fenomeno. Hanno deliberatamente atteso quel momento fra la notte e il giorno, quando tutto il mondo sembra fermarsi, per compiere la parte decisiva del loro tentativo di fuga dal carcere. E quel momento – come avevo scritto in un testo di pochi anni fa dedicato al film di Bresson – è forse lo stesso in cui si verificano molte morti di persone in agonia, nonché molte nascite, la mia stessa, incidentalmente. E come dice Reinette, quel momento fa paura a chiunque lo viva – al punto di temere che sia giunta la fine del mondo – proprio perché mentre avviene sembra che «tutta la natura smetta di respirare».
Ma non è così, l’ora blu dura pochissimo tempo e poi passa, e così, come ogni giorno, il sole tornerà a sorgere e «domani sarà un altro giorno».

Perlustrazioni dell’invisibile


Nei suoi film Victor Erice si sofferma spesso a lungo su un personaggio, la macchina da presa indugia su di lui, o su di lei, che generalmente tace; oppure si sente la sua voce fuori campo, mentre scrive o legge una lettera. In molti casi, mentre assistiamo a un’azione di chi viene ripreso, generalmente poco appariscente e svolta con lentezza, si capisce ben presto che a contare è soltanto in parte quell’azione, ma semmai ciò che passa nella mente di lei o lui. Erice non ci dice niente, non ci dà chiavi per decifrare questo mistero, anche se possiamo indovinare, vagamente, soprattutto quando ciò che è accaduto prima – e poi quel che accadrà dopo – può metterci sulla strada, o sulle strade possibili. In questo modo, attraverso l’insistenza nel riprendere un’azione silenziosa e lenta, diventa praticamente inevitabile chiedersi cosa starà pensando quella persona, soprattutto quando è sola, e quindi la sola ad essere ripresa. L’espressione di ognuna di queste persone è quasi sempre impassibile, imperscrutabile (come accade quasi sempre nella realtà – soltanto il cinema, e prima ancora il teatro ci hanno abituati a vedere espressioni artificiose e forzate sul volto degli attori in certe situazioni), soltanto gli occhi alludono a qualcosa che sta accadendo in silenzio, dietro di loro. E anche quando sono chiusi – altra situazione frequente nei film di Erice – essi sono comunque espressivi e ci attraggono con una silenziosa promessa: qualcosa sta succedendo, è certo, anche se non sapremo mai cosa, non ci verrà rivelato. Come si immagina che Ana mai rivelerà niente di quanto le è accaduto, né le uscite notturne, senza svegliare la sorella Isabel, né l’incontro col fuggiasco e neppure quello – immaginato ma altrettanto reale – con il “mostro” di Frankenstein sulla riva dello stagno, quella notte.
Ma ancora prima che per noi spettatori, per forza di cose passivi e ininfluenti, da certe rivelazioni sono esclusi gli altri personaggi dei vari film. Che sono per lo più famigliari, vivono insieme nella stessa casa, mangiano e anche dormono insieme, ogni tanto si parlano, certamente, in qualche modo, si amano, ma rimangono fondamentalmente estranei fra loro, sempre di più con il passare del tempo. E quando ad esempio Estrella cresce, pur continuando ad amarli si estrania sempre più dai genitori, soprattutto dal padre, con il quale aveva, nell’infanzia, un legame silente e discreto ma molto intenso. È così sempre, in ogni famiglia, anche le più unite, più apparentemente serene, come quelle che vediamo nei due primi film, El espìritu de la colmena e El Sur: due, tre, quattro persone unite da vincoli di sangue vivono insieme ma sono diverse fra di loro, fondamentalmente estranee, sempre di più col passare del tempo. Anche se si amano, anche se si prendono cura uno dell’altra e degli altri, rimangono tali, estranei che vivono all’interno di mondi diversi, soltanto compresenti, seguendo percorsi paralleli che poi nel tempo divergeranno sempre più.


Nei film di Erice proprio quando sembra che non succeda niente in realtà stanno accadendo le cose più importanti. Anche se non le vedremo mai e non sapremo mai niente di preciso su di esse. Potremo soltanto provare a immaginarle, ovvero a intuirle, senza però avere mai una conferma delle nostre intuizioni, o congetture. Niente viene esplicitato, o rivelato, e quando qualcuno parla ciò che dice serve piuttosto a sviare che a far luce su quanto accade dietro quegli occhi, aperti o chiusi. Così Isabel mente alla sorellina Ana sul mostro di Frankenstein, e Agustìn, il padre di Estrella, ostenta durante il pranzo insieme a lei al ristorante del Grand Hotel, un’allegria fallace (?) proprio poche ore prima di togliersi la vita. La stessa Estrella elude l’ultima muta richiesta di soccorso del padre, frapponendo fra i due parole che non sono neppure insincere, però inette a stabilire un contatto fra i due, un ponte sul quale incontrarsi e stringersi in un abbraccio salvifico (per lui).
Un altro aspetto peculiare di questi film, ciò che li rende così ‘naturali’ (nel senso di qualcosa che è proprio così, per tutti, nella realtà di tutti i giorni) sono i momenti in cui due o più personaggi comunicano fra loro senza parlarsi, senza neppure guardarsi, talvolta. In El Sur, Estrella manifesta il suo disagio e la sua contrarietà nei confronti della piega che hanno preso i rapporti all’interno della famiglia, nascondendosi per un giorno intero sotto il tetto, e il padre, che ha bene intuito il senso del gesto della figlia, batte ripetutamente – con una cadenza evidentemente ricercata e ‘pregnante’, un po’ come un telegrafista – con la punta del bastone sull’assito della mansarda che si trova sopra la stanza di lei. Così la figlia capisce che lui ha capito, anche se non può far niente per risolvere quel disagio, quelle problematiche, ma l’ha capita, e in questo modo anomalo essi comunicano i rispettivi stati d’animo. Nello stesso film la bellissima sequenza del sopralluogo di Agustìn come rabdomante sul campo in cerca dell’acqua: la figlia sta dietro al padre, non si vedono in faccia, ma comunicano attraverso il peso delle monete che lei gli posa in mano, fino a quando il pendolo che lui tiene sospeso si ferma, una volta raggiunta la falda sotterranea. O quando lui, prima di andarsene per sempre, saluta la figlia per l’ultima volta lasciando sotto il suo cuscino, mentre lei sta dormendo (emblematico che sia così, che abbia cioè gli occhi chiusi, mentre al ristorante erano bene aperti, ma in verità inetti a vedere cosa stava accadendo, a leggere nel suo animo turbato) quello stesso pendolo.
In altri casi, ogni comunicazione è impossibile, non c’è neppure l’intenzione che si verifichi, e allora lo sguardo (di Ana) è fisso nel vuoto, rivolto per ore verso le fiamme del fuoco usato dalle più grandi per un gioco pericoloso che lei forse non capisce, ma teme, mentre ne è attratta irresistibilmente. In quello sguardo, sul quale la mdp indugia, si intuisce l’intensità di quanto sta accadendo in uno spazio interiore il cui accesso ci è precluso.
E neppure è possibile per la bimba resistere all’espressione dura e autoritaria del padre quando la sorprende all’uscita dalla stalla dove lei non ha più ritrovato il ‘suo’ fuggiasco, ma soltanto tracce del suo sangue ancora fresco. Non le resta che fuggire, non sa neppure dove, lontano da tutti e da tutto, fino a cedere alla stanchezza al riparo di un’antica rovina, dove verrò ritrovata dal cane di famiglia (chissà, forse perché il suo modo di comunicare non è verbale, ‘civilizzato’, ma piuttosto sensoriale, quindi naturale).
Si potrebbe allora dire che tutto il cinema di Erice si fondi sulla ricerca da parte della mdp – occhio nascosto e onnipresente – di un varco anche minimo per provare ad entrare in quegli spazi chiusi e inaccessibili (anche, forse, per lo stesso autore). Tentativo inevitabilmente destinato a fallire, che ci porta comunque molto vicino a quella soglia, indicata dal temporaneo prevalere di un prolungato profondo silenzio, o da due occhi, a volte aperti altre volte serrati.


Il treno nei due film è (come anche nella realtà) sempre fatale, inesorabile, un’entità maestosa e spietata che impaurisce, protagonista anche quando non appare come forma tangibile. Lascia cadere mentre è in piena corsa, come sputandolo, il fuggiasco (evidentemente un repubblicano anti-franchista); parte appena prima che Agustìn si svegli e possa salirci sopra per fuggire (in cerca di Irene Rios, forse); raccoglie le lettere della moglie dell’apicoltore a un amante, e lei deve sbrigarsi con la bicicletta per arrivare in stazione prima che parta (e in quei pochi minuti assistiamo agli sguardi insistiti e intensi che scambia con un ignoto soldato sul treno, silenzioso); corre fischiando verso Ana che indugia nei pressi del binario, affascinata, e si ridesta soltanto quando la sorella Isabel urla il suo nome, facendola arretrare appena in tempo; saluta da lontano con un fischio, non visto, la riapertura degli occhi di Ana mentre è in piedi sul balcone – fuori è notte – aspettando fiduciosa che riappaia lo spirito, il mostro, il fuggiasco che aveva amorevolmente accudito.

William Bendix fan club

Nel cinema americano degli anni ’40 e ’50, soprattutto in quello cosiddetto noir, non raramente ci si può imbattere nel faccione inconfondibile di William Bendix, quasi sempre in ruoli di gangster duro e brutale1, talvolta con manifestazioni sadiche, come in The Glass Key – quando ostenta il suo selvaggio compiacimento nel torturare Alan Ladd, anche con qualche sfumatura omo-erotica – o come quando, in The Dark Corner, per vendicarsi schiaccia la mano di Mark Stevens a terra privo di sensi, dopo che lo aveva cloroformizzato. Eppure, questi atteggiamenti non lo rendono antipatico, e neppure troppo sgradevole, anche se la sua presenza non ha niente di attraente, e soprattutto non traspare in lui nessuna intenzione di apparire tale. Lui è così, grosso, sgraziato, sopra le righe, e non lo nasconde proprio, se ne frega dell’opinione degli altri, anzi, sembra fregarsene perfino del pubblico in questo suo mostrarsi così com’è, privo del minimo infingimento. Proprio perciò, probabilmente, piace, più è cattivo e scorretto e più piace, perché si capisce che lui deve essere così, quindi che non recita, non sembra nemmeno un vero ‘attore’, tale è il suo realismo nelle mosse e nelle battute di dialogo. Quando appare al centro dell’azione, grosso e tozzo com’è, riempie lo schermo, come si dice, calamita l’attenzione dello spettatore, che ne percepisce la presenza proprio fisica, quasi ne sente l’odore – certamente forte, umano, e si vede che sta realmente sudando – e istintivamente sta in guardia, intuendo che da un momento all’altro lui può fare qualcosa di particolarmente eclatante e pericoloso, oltre i limiti. Certi particolari poi rafforzano questa impressione, ad esempio la sua capigliatura, ricciuta e folta: quando si batte con qualcuno, oppure dopo aver fatto qualcosa di veramente eccessivo, un omicidio ad esempio, c’è sempre un momento in cui si rialza e subito sistema di nuovo al suo posto un lungo ciuffo che si era scomposto nell’azione. È qualcosa di stridente rispetto alla maggioranza degli altri attori, sempre ben pettinati, sempre vestiti nel modo giusto, composti anche quando si picchiano con qualcuno. Anche i suoi vestiti sono un po’ così, eccessivi e smodati, ad esempio il completo bianco che indossa – deliberatamente, per essere notato – quando pedina Bradford Galt / Mark Stevens. Dopo l’involontario rovesciamento del calamaio, questi, stizzito, con un gesto volgare e arrogante si pulisce la mano sporca d’inchiostro sulla giacca bianca di Bendix, che pure non reagisce, limitandosi a osservare, interdetto. Ma un breve lampo nel suo sguardo incredulo ci fa capire che il gesto, così come tutto il comportamento aggressivo del rivale, non gli sono proprio piaciuti e prima o poi si vendicherà. Ciò che succederà infatti quando schiaccia, con visibile compiacimento, la mano di Stevens svenuto a terra, prima di eclissarsi dal luogo del delitto2.
Pare che più di una volta Bendix abbia dichiarato il suo scarso coinvolgimento nella professione dell’attore, qualcosa da fare giusto per intascare il compenso, e poi subito pronto a calarsi con noncuranza in un nuovo ruolo, con un atteggiamento da proletario, da manovale senza fisime. Un blue collar come dicono gli americani: gente che si sporca le mani, l’opposto dei white collar, gli impiegati sempre vestiti in modo formale, che guadagnano di più e non si sporcano mai le mani lavorando. Bendix sembra veramente uno di loro, un blue collar – e non mi risulta abbia mai impersonato un ‘colletto bianco’, gli sarebbe stato impossibile –, ciò che induce nell’errore di credere a quelle sue parole, di credere cioè che non sia un vero attore. In realtà si tratta di un eccellente attore, sempre privo di smancerie, inetto al birignao, perfino misurato nella sua smisuratezza. Infatti, non atteggia mai o quasi mai il volto a smorfie o atteggiamenti ‘attoriali’, usando soprattutto gli sguardi e le movenze del suo corpaccione, e quella voce inconfondibile, tutto meno che coltivata e artefatta, che è indispensabile ascoltare com’è, quindi non doppiata, per apprezzare completamente la maestria sprezzata, noncurante, di questo grande, inimitabile attore.

1 L’eccezione che viene subito in mente è quella di Lifeboat, il film di Hitchcock ambientato su una lancia piena di naufraghi dopo l’affondamento di una nave da parte di un sommergibile tedesco. Qui peraltro, nella parte di un brav’uomo molto sfortunato e altrettanto altruista, vien fuori meglio la vera natura dell’uomo Bendix, descritto da tutti come una persona positiva e gradevole, alieno rispetto a certi canoni hollywoodiani al punto di rimanere per tutta la vita sposato, dall’età di 21 anni, con un’amica d’infanzia.

2 La scena, una delle due del film in cui i due si confrontano, apparendo insieme per alcuni minuti, è molto eloquente nel farci vedere come tra i due il più bravo sia senza dubbio Bendix, che si muove pochissimo quasi limitandosi ad osservare, perfino con un certo distacco, le mosse di Stevens. Che è – qui come in tutto il film – artificioso, affettato, già a partire dalla voce, che sono sicuro abbia contraffatto, malamente, per sembrare più duro e più amaro. Invece Bendix è Bendix, e senza apparentemente impegnarsi esce vincitore dal confronto attoriale; e noi – per me almeno è stato così – sotto sotto stiamo più con lui, dalla parte del cattivo, piuttosto che da quella del presunto buono (in verità alquanto antipatico, e ben poco plausibile) Stevens. Lo stesso regista Hathaway dichiarò la sua delusione per la scelta di questo attore, a suo parere il punto debole del film.