Nel film Saboteur (Hitchcock, 1942) la gente comune e gli sfigati vengono fuori molto meglio dei cosiddetti normali, quelli perbene; vedi l’autista che dopo aver avuto brevemente a che fare con il fuggiasco, siccome si fida di lui, gli piace (sembra un po’ la parabola del Buon Samaritano), lo aiuta a sfuggire ai suoi inseguitori ‘autorizzati’ (leggi: polizia). Poi il cieco che lo accoglie subito in casa e gli dà rifugio e cibo, basandosi sull’istinto (gli basta ascoltare la sua voce); anche per lui quell’uomo in fuga è degno di essere aiutato, soprattutto in un paese come gli Stati Uniti d’America che sono nati e si sono poi sempre proposti come paese della libertà: tutti sono innocenti, fino a prova contraria, e hanno diritto a difendersi e perfino a fuggire quando quella è l’unica possibilità rimastagli per difendersi da un’accusa ingiusta. Infine la troupe dei freaks circensi, che dopo una breve discussione con l’unico di loro che vorrebbe denunciare la coppia di fuggiaschi (ma viene prontamente messo a tacere) li nascondono nella loro carrozza a un fermo di blocco. Alla luce di tutti questi episodi, si può dire che questo sia un film quasi eversivo.
In Shop around the corner (Lubitsch, 1940) la battuta di lei, Margaret Sullavan, a James Stewart, per prendere, sia pure garbatamente, le distanze da lui (“Signor Kralik, noi in questo momento siamo insieme nella stessa stanza, ma non sullo stesso pianeta”) è per me una delle più memorabili ed elettrizzant mai udite al cinema.
In The Twilight Samurai (di Yoji Yamada, 2002) il samurai cieco riconosce la moglie, da cui aveva dovuto separarsi da molto tempo (e che non gli si è manifestata, rimanendo in incognito), dal sapore dei cibi che gli prepara.
In un altro film (I massaggiatori ciechi e la ragazza, di Shimizu, 1938), Toku, il cieco innamorato della fascinosa Mieko Takamine, già la prima volta che si incontrano fugacemente per strada – o forse nell’albergo – ne è subito attratto e dice al suo amico, anche lui cieco, che ha percepito distintamente il “profumo di Tokyo”.
L’ex-soldato giapponese della XX guerra mondiale – in un film semi-documentario di cui non ricordo il titolo – che va in cerca di coloro che durante il conflitto si erano macchiati di crimini e atrocità per farli confessare, e arriva a picchiarli quando si ostinano a tergiversare oppure mentono.
L’eclisse del 15 febbraio 1961 che appare in Barabbas (il produttore Dino De Laurentiis volle espressamente che venisse ripresa e inserita nel film). Avvenne fra le 8:38 e le 8:40 di quel giorno. Io c’ero, e osservai il fenomeno con i miei compagni di classe, accompagnati dal nostro maestro presso i resti del castello di Novi Ligure, la parte più alta della città. Recentemente l’ho rivista, l’eclisse del 1961, proprio in quel film.
« 4 o 5 pesche… 5 o 6 pomodori… »: lo dico alla signora del mercato dei contadini di Porta Palazzo e lei, veramente onesta e rispettosa, non mi dà cinque pesche o sei pomodori, ma, rispettivamente, quattro e cinque.
Saburi Shin in Fratelli e sorelle della famiglia Toda, di Ozu (1941) quando rimprovera duramente il fratello e le due sorelle sposate – con i rispettivi coniugi – e li caccia dal pranzo commemorativo del padre, un anno dopo dopo la sua morte. Lui era considerato il figlio scapestrato, aveva sempre creato problemi al padre, e infatti anche stavolta arriva in ritardo a una cerimonia celebrativa (una tantum anche giustificato, venendo dalla Cina via mare). Ma quando capisce cosa è successo durante la sua assenza, come i suoi congiunti hanno mancato di rispetto alla madre e all’adorata sorella minore (Mieko Takamine), reagisce con durezza: affrontandoli rinfaccia ad ognuno di loro le sue mancanze, rimproverando tutti aspramente per avere così mancato di rispetto anche al padre deceduto un anno prima. È severo e inflessibile, ma senza mai perdere la calma e senza neppure alzare più di tanto la voce. Infine li caccia, uno ad uno, dalla sala del banchetto, rimanendo solo con la madre e l sorella, che quindi esorta a godere del lauto pranzo, senza darsi alcuna pena, spiegando loro che doveva farlo, doveva dare una lezione a fratello e sorelle. Loro, dopo un iniziale imbarazzo, si lasciano convincere da lui, si rilassano e iniziano a mangiare, sicuramente rassicurate dalla presenza del figlio/fratello e contente di stare in sua compagnia. Questa scena è esaltante, ogni volta che vedo il film mi galvanizza; Saburi Shin è bravissimo, anche per come passa con disinvoltura e naturalezza dal ruolo della pecora nera a quello del vero maschio alfa, autentico successore del padre come figura di riferimento, più autorevole, della famiglia Toda.
… una lingua che non concede nulla all’attualità – cioè alle regole che definiscono ciò che si può dire e il modo in cui dirlo.
(G. Agamben, da Una voce, sul sito di Quodlibet, 13 ottobre 2023)
Mississippi John Hurt all’età di nove anni ebbe in dono dalla madre la sua prima chitarra. Non era niente di che, probabilmente fu presa da un rigattiere, ma per il piccolo John emanava un’aura quasi mistica, e all’inizio la lasciava appoggiata sul letto, fissandola a lungo. Spesso le mosche, abbondanti nello stato del Mississippi, nel sud degli USA, dove viveva, si posavano sulle corde, facendole debolmente risuonare. Nel 1928, all’età di 35 anni, MJH incise otto tracce, dopodiché, quando, con l’avvento della Grande Depressione, la piccola casa discografica chiuse i battenti, sparì nel nulla, dimenticato, anche se in verità rimase sempre lì ad Avalon, la sua città, a far lavori di fatica per un magro guadagno. Per decenni, suonò e cantò soltanto occasionalmente per feste locali o in qualche locale da ballo, finché qualcuno, nel 1963, riuscì a scovarlo (guidato dalla sua Avalon Blues, una di quelle otto incisioni, da poco riscoperta) e lo portò al centro della scena, dove non era realmente mai stato, concedendogli tre anni – gli ultimi della sua vita – di prosperità e di successo, cercato dai più importanti festival di musica popolare.
Storie simili si trovano leggendo le note contenute in Dust In The Nettles e Sumer Is Icumen In, due cofanetti di cd dedicati alla musica folk inglese più lontana dai riflettori: Anne Briggs, Vasti Bunyan, Clive Palmer e gli altri due di C.O.B. fra i tanti. Ragazzi e ragazze che avevano una passione, e spesso anche molto talento, e provavano a fare qualcosa di importante, per loro. Cose anche molto belle che però all’epoca quasi nessuno notò, per cui molti fra loro lasciarono perdere e si misero a fare lavori ‘normali’, per trovare di che vivere. Oppure, come i tre citati, rifiutavano questa che gli sembrava una resa alla normalità e rimanevano ai margini della società, spesso vivendo in vecchie roulotte trainate da un cavallo e girando continuamente per le campagne del Regno Unito.
“We seated [Edna and myself] behind a large pillar. While we were scanning the menu, some of the customers recognized us. The word spread like wildfire. Back rushed the [head] waiter, waving us to a nice table by the window, where we’d be visible to all his guests. But Edna remained seated and motioned to me to be seated…[the headwaiter] said “I’m so sorry, I thought you were just common people.” Edna looked at him and said sweetly, “We want to thank you for treating us like humble people. You have just paid us the highest compliment. That will be all. Please send us the waiter.”
(C. Chaplin, rievocando un episodio dagli anni trascorsi con Edna Purviance, quando si presentarono in un ristorante esclusivo, vestiti in modo piuttosto dimesso – ora si direbbe casual – e, scambiati per hoboes, furono fatti sedere a un tavolo molto defilato)
Nella controcultura americana un hobo era un vagabondo che si spostava continuamente, spesso viaggiando di nascosto sui treni merci. Distinto dal tramp (un tipo di vagabondo che lavorava il meno possibile) e dal bum, che a differenza degli altri due non lavorava proprio mai e viveva di espedienti, l’hobo non disdegnava il lavoro purché fosse provvisorio, aborrendo la ripetitività della vita normale e sentendo come necessario il continuo spostamento e la vita all’aperto. Una specie di figura romantica post-litteram, non pochi di questi hoboes erano poeti o scrittori: Jack London, prima, e Jack Kerouac dopo sono considerati come appartenenti a questa schiera, quanto meno per una parte della loro vita; ma anche Woody Guthrie, Harry Partch e addirittura Robert Mitchum (fra i 14 e i 16 anni d’età), furono hoboes.
Avevano un gergo piuttosto ampio e articolato, che utilizzavano quotidianamente per comunicare fra loro senza essere capiti dagli altri, i commons. Carrying the banner [portare la bandiera], ad esempio, significava stare costantemente in movimento, per evitare di essere pizzicati (dalla polizia) per vagabondaggio o anche soltanto per non cadere preda del gelo, in inverno. Elevated [elevato] definiva chi si trovava sotto l’influsso di droga o alcool. On the fly [‘al volo’, o ‘in volo’] significava “saltare su un treno in corsa”. Tokay blanket stava per “bere alcool [il tokay è un vino di origine ungherese] per scaldarsi”. Meraviglioso Cover with the moon [coprirsi con la luna], per “dormire all’aperto”.
Il compianto artista americano Terry Fox (che ebbi la fortuna di conoscere durante gli anni di e/static e con il quale collaborai) pubblicò il libro Hobo Signs, una sorta di catalogo di segni usati dagli hoboes per comunicare senza parole, tracciandoli ovunque ci fosse la necessità di segnalare qualcosa di importante ad altri simili. Terry ci lavorò per un decina di anni, riuscendo a recuperare, in giro per gli USA, 52 di questi segni, incisi o scritti un po’ ovunque, su muri, staccionate, cassette postali, vagoni ferroviari, ecc..
(…) I sopravvissuti che ci circondano non hanno bocca né orecchie, non parlano né ascoltano, contano soltanto. Parlargli non serve. I poeti e i filosofi sono morti – per questo con loro possiamo parlare.
(G. Agamben, da Una voce, sul sito di Quodlibet, 10 dicembre 2025)
Mi è capitato in passato di scrivere con la maiuscola una parola a cui volevo dare un’importanza o un significato particolare. Ora so che sbagliavo. È bene vedere tutto in minuscolo, la maiuscola impedisce di vedere. E di capire, quasi che una volta sottolineate la priorità o l’importanza, comprendere non fosse più necessario. Più in generale, se qualcosa – fosse anche il termine dio, o, peggio, la parola stato – ha bisogno della maiuscola, vuol dire che non si crede abbastanza nel suo primato. Come meravigliosamente ha scritto la poetessa greca Kikì Dimulà: «Se la pioggia cade in maiuscolo / la guardo; se cade in minuscolo / la amo». In minuscolo vediamo, in minuscolo viviamo e, se dio e lo stato non ce le imporranno, senza maiuscole ce ne andremo dalla minuscola, amabile terra.
(G. Agamben, ibid., 12 dicembre 2025)
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