Forme di vita

Nel film Saboteur (Hitchcock, 1942) la gente comune e gli sfigati vengono fuori molto meglio dei cosiddetti normali, quelli perbene; vedi l’autista che dopo aver avuto brevemente a che fare con il fuggiasco, siccome si fida di lui, gli piace (sembra un po’ la parabola del Buon Samaritano), lo aiuta a sfuggire ai suoi inseguitori ‘autorizzati’ (leggi: polizia). Poi il cieco che lo accoglie subito in casa e gli dà rifugio e cibo, basandosi sull’istinto (gli basta ascoltare la sua voce); anche per lui quell’uomo in fuga è degno di essere aiutato, soprattutto in un paese come gli Stati Uniti d’America che sono nati e si sono poi sempre proposti come paese della libertà: tutti sono innocenti, fino a prova contraria, e hanno diritto a difendersi e perfino a fuggire quando quella è l’unica possibilità rimastagli per difendersi da un’accusa ingiusta. Infine la troupe dei freaks circensi, che dopo una breve discussione con l’unico di loro che vorrebbe denunciare la coppia di fuggiaschi (ma viene prontamente messo a tacere) li nascondono nella loro carrozza a un fermo di blocco. Alla luce di tutti questi episodi, si può dire che questo sia un film quasi eversivo.

In Shop around the corner (Lubitsch, 1940) la battuta di lei, Margaret Sullavan, a James Stewart, per prendere, sia pure garbatamente, le distanze da lui (“Signor Kralik, noi in questo momento siamo insieme nella stessa stanza, ma non sullo stesso pianeta”) è per me una delle più memorabili ed elettrizzant mai udite al cinema.

In The Twilight Samurai (di Yoji Yamada, 2002) il samurai cieco riconosce la moglie, da cui aveva dovuto separarsi da molto tempo (e che non gli si è manifestata, rimanendo in incognito), dal sapore dei cibi che gli prepara.

In un altro film (I massaggiatori ciechi e la ragazza, di Shimizu, 1938), Toku, il cieco innamorato della fascinosa Mieko Takamine, già la prima volta che si incontrano fugacemente per strada – o forse nell’albergo – ne è subito attratto e dice al suo amico, anche lui cieco, che ha percepito distintamente il “profumo di Tokyo”.

L’ex-soldato giapponese della XX guerra mondiale – in un film semi-documentario di cui non ricordo il titolo – che va in cerca di coloro che durante il conflitto si erano macchiati di crimini e atrocità per farli confessare, e arriva a picchiarli quando si ostinano a tergiversare oppure mentono.

L’eclisse del 15 febbraio 1961 che appare in Barabbas (il produttore Dino De Laurentiis volle espressamente che venisse ripresa e inserita nel film). Avvenne fra le 8:38 e le 8:40 di quel giorno. Io c’ero, e osservai il fenomeno con i miei compagni di classe, accompagnati dal nostro maestro presso i resti del castello di Novi Ligure, la parte più alta della città. Recentemente l’ho rivista, l’eclisse del 1961, proprio in quel film.

« 4 o 5 pesche… 5 o 6 pomodori… »: lo dico alla signora del mercato dei contadini di Porta Palazzo e lei, veramente onesta e rispettosa, non mi dà cinque pesche o sei pomodori, ma, rispettivamente, quattro e cinque.

Saburi Shin in Fratelli e sorelle della famiglia Toda, di Ozu (1941) quando rimprovera duramente il fratello e le due sorelle sposate – con i rispettivi coniugi – e li caccia dal pranzo commemorativo del padre, un anno dopo dopo la sua morte. Lui era considerato il figlio scapestrato, aveva sempre creato problemi al padre, e infatti anche stavolta arriva in ritardo a una cerimonia celebrativa (una tantum anche giustificato, venendo dalla Cina via mare). Ma quando capisce cosa è successo durante la sua assenza, come i suoi congiunti hanno mancato di rispetto alla madre e all’adorata sorella minore (Mieko Takamine), reagisce con durezza: affrontandoli rinfaccia ad ognuno di loro le sue mancanze, rimproverando tutti aspramente per avere così mancato di rispetto anche al padre deceduto un anno prima. È severo e inflessibile, ma senza mai perdere la calma e senza neppure alzare più di tanto la voce. Infine li caccia, uno ad uno, dalla sala del banchetto, rimanendo solo con la madre e l sorella, che quindi esorta a godere del lauto pranzo, senza darsi alcuna pena, spiegando loro che doveva farlo, doveva dare una lezione a fratello e sorelle. Loro, dopo un iniziale imbarazzo, si lasciano convincere da lui, si rilassano e iniziano a mangiare, sicuramente rassicurate dalla presenza del figlio/fratello e contente di stare in sua compagnia. Questa scena è esaltante, ogni volta che vedo il film mi galvanizza; Saburi Shin è bravissimo, anche per come passa con disinvoltura e naturalezza dal ruolo della pecora nera a quello del vero maschio alfa, autentico successore del padre come figura di riferimento, più autorevole, della famiglia Toda.

una lingua che non concede nulla all’attualità – cioè alle regole che definiscono ciò che si può dire e il modo in cui dirlo.
(G. Agamben, da Una voce, sul sito di Quodlibet, 13 ottobre 2023)

Mississippi John Hurt all’età di nove anni ebbe in dono dalla madre la sua prima chitarra. Non era niente di che, probabilmente fu presa da un rigattiere, ma per il piccolo John emanava un’aura quasi mistica, e all’inizio la lasciava appoggiata sul letto, fissandola a lungo. Spesso le mosche, abbondanti nello stato del Mississippi, nel sud degli USA, dove viveva, si posavano sulle corde, facendole debolmente risuonare. Nel 1928, all’età di 35 anni, MJH incise otto tracce, dopodiché, quando, con l’avvento della Grande Depressione, la piccola casa discografica chiuse i battenti, sparì nel nulla, dimenticato, anche se in verità rimase sempre lì ad Avalon, la sua città, a far lavori di fatica per un magro guadagno. Per decenni, suonò e cantò soltanto occasionalmente per feste locali o in qualche locale da ballo, finché qualcuno, nel 1963, riuscì a scovarlo (guidato dalla sua Avalon Blues, una di quelle otto incisioni, da poco riscoperta) e lo portò al centro della scena, dove non era realmente mai stato, concedendogli tre anni – gli ultimi della sua vita – di prosperità e di successo, cercato dai più importanti festival di musica popolare.
Storie simili si trovano leggendo le note contenute in Dust In The Nettles e Sumer Is Icumen In, due cofanetti di cd dedicati alla musica folk inglese più lontana dai riflettori: Anne Briggs, Vasti Bunyan, Clive Palmer e gli altri due di C.O.B. fra i tanti. Ragazzi e ragazze che avevano una passione, e spesso anche molto talento, e provavano a fare qualcosa di importante, per loro. Cose anche molto belle che però all’epoca quasi nessuno notò, per cui molti fra loro lasciarono perdere e si misero a fare lavori ‘normali’, per trovare di che vivere. Oppure, come i tre citati, rifiutavano questa che gli sembrava una resa alla normalità e rimanevano ai margini della società, spesso vivendo in vecchie roulotte trainate da un cavallo e girando continuamente per le campagne del Regno Unito.

“We seated [Edna and myself] behind a large pillar. While we were scanning the menu, some of the customers recognized us. The word spread like wildfire. Back rushed the [head] waiter, waving us to a nice table by the window, where we’d be visible to all his guests. But Edna remained seated and motioned to me to be seated…[the headwaiter] said “I’m so sorry, I thought you were just common people.” Edna looked at him and said sweetly, “We want to thank you for treating us like humble people. You have just paid us the highest compliment. That will be all. Please send us the waiter.”
(C. Chaplin, rievocando un episodio dagli anni trascorsi con Edna Purviance, quando si presentarono in un ristorante esclusivo, vestiti in modo piuttosto dimesso – ora si direbbe casual – e, scambiati per hoboes, furono fatti sedere a un tavolo molto defilato)

Nella controcultura americana un hobo era un vagabondo che si spostava continuamente, spesso viaggiando di nascosto sui treni merci. Distinto dal tramp (un tipo di vagabondo che lavorava il meno possibile) e dal bum, che a differenza degli altri due non lavorava proprio mai e viveva di espedienti, l’hobo non disdegnava il lavoro purché fosse provvisorio, aborrendo la ripetitività della vita normale e sentendo come necessario il continuo spostamento e la vita all’aperto. Una specie di figura romantica post-litteram, non pochi di questi hoboes erano poeti o scrittori: Jack London, prima, e Jack Kerouac dopo sono considerati come appartenenti a questa schiera, quanto meno per una parte della loro vita; ma anche Woody Guthrie, Harry Partch e addirittura Robert Mitchum (fra i 14 e i 16 anni d’età), furono hoboes.
Avevano un gergo piuttosto ampio e articolato, che utilizzavano quotidianamente per comunicare fra loro senza essere capiti dagli altri, i commons. Carrying the banner [portare la bandiera], ad esempio, significava stare costantemente in movimento, per evitare di essere pizzicati (dalla polizia) per vagabondaggio o anche soltanto per non cadere preda del gelo, in inverno. Elevated [elevato] definiva chi si trovava sotto l’influsso di droga o alcool. On the fly [‘al volo’, o ‘in volo’] significava “saltare su un treno in corsa”. Tokay blanket stava per “bere alcool [il tokay è un vino di origine ungherese] per scaldarsi”. Meraviglioso Cover with the moon [coprirsi con la luna], per “dormire all’aperto”.
Il compianto artista americano Terry Fox (che ebbi la fortuna di conoscere durante gli anni di e/static e con il quale collaborai) pubblicò il libro Hobo Signs, una sorta di catalogo di segni usati dagli hoboes per comunicare senza parole, tracciandoli ovunque ci fosse la necessità di segnalare qualcosa di importante ad altri simili. Terry ci lavorò per un decina di anni, riuscendo a recuperare, in giro per gli USA, 52 di questi segni, incisi o scritti un po’ ovunque, su muri, staccionate, cassette postali, vagoni ferroviari, ecc..

(…) I sopravvissuti che ci circondano non hanno bocca né orecchie, non parlano né ascoltano, contano soltanto. Parlargli non serve. I poeti e i filosofi sono morti – per questo con loro possiamo parlare.
(G. Agamben, da Una voce, sul sito di Quodlibet, 10 dicembre 2025)

Mi è capitato in passato di scrivere con la maiuscola una parola a cui volevo dare un’importanza o un significato particolare. Ora so che sbagliavo. È bene vedere tutto in minuscolo, la maiuscola impedisce di vedere. E di capire, quasi che una volta sottolineate la priorità o l’importanza, comprendere non fosse più necessario. Più in generale, se qualcosa – fosse anche il termine dio, o, peggio, la parola stato – ha bisogno della maiuscola, vuol dire che non si crede abbastanza nel suo primato. Come meravigliosamente ha scritto la poetessa greca Kikì Dimulà: «Se la pioggia cade in maiuscolo / la guardo; se cade in minuscolo / la amo». In minuscolo vediamo, in minuscolo viviamo e, se dio e lo stato non ce le imporranno, senza maiuscole ce ne andremo dalla minuscola, amabile terra.
(G. Agamben, ibid., 12 dicembre 2025)

in progress

W D M

In verità, se si osserva una pittura o una scultura senza parteciparvi, al livello di partecipazione che si ha ascoltando musica, cioè, se si ascolta come musica di sottofondo, allora è musica di sottofondo; se attraversi il Whitney Museum e ti limiti a guardare con la coda dell’occhio le cose esposte, allora è pittura di sottofondo, e se guardi certa pittura e dici soltanto “ah, è questo stile, o quest’altro”, non vuol dire niente. Sfortunatamente quello è probabilmente il modo in cui il 98-99% dell’arte viene esperita: come categoria, come una sorta di giudizio intellettuale. Se non si è realmente portati via, se non si è fisicamente mossi, ma proprio al punto di temere per la propria vita e sanità di mente, allora, praticamente, “non funziona”. È la frase degli anni ’50, “funzionare”. Funziona il quadro? Per dire, se realmente non ci si sente mancare il fiato, se non ti accasci e muori, se non ti senti realmente scappar via, se il tuo battito cardiaco non aumenta… Se non soddisfa queste semplici esigenze, se non ti provoca la sensazione che proveresti nuotando nell’oceano o montando un cavallo, o qualcuna delle esperienze di droga pesante che si potrebbero fare, se non eguaglia nessuna di queste importanti, intense, potenti esperienze che si potrebbero fare nella vita, allora non è una vera opera d’arte.

Il senso del mio discorso: la cosa veramente fantastica è poter esperire un’opera d’arte per un certo periodo di tempo. Per esempio, sappiamo che l’architettura ha sempre tenuto in considerazione questo aspetto. Si va in un palazzo, in una casa, si fa esperienza dei diversi piani, seduti in certe stanze per un certo tempo, e poi, dopo un’ora o mezz’ora oppure quattro o cinque ore si lascia il luogo. Si sono esperite tutte le proporzioni e le relazioni, si è esperito qualcosa nel tempo. Ebbene, in massima parte le sculture sono sempre state confinate al ruolo di semplici oggetti, al di là dello stile o della configurazione – espressionista, figurativo o quant’altro. ( … ) Quanto tempo passa una persona al cospetto di una scultura? Mediamente forse meno di un minuto, o a un massimo di cinque, forse dieci minuti. Ma poi nessuno passa tanto tempo guardando una scultura. Così, iniziando, nel 1968, a lavorare con la ‘scultura nel paesaggio’ [land sculpture] potei fare cose in una scala completamente sconosciuta fino a quel momento, e potei tenere delle persone occupate con una singola opera per periodi lunghi perfino un giorno intero. Un tempo che potrebbe essere anche più lungo, ma in questo caso, se ci vogliono due ore per arrivare all’opera, quattro ore per vederla e altre due per tornare indietro, si devono trascorrere otto ore con quest’opera, di cui almeno quattro nelle sue immediate vicinanze. Sebbene, in una certa misura, l’avvicinamento e l’allontanamento siano parti essenziali dell’esperienza dell’opera.

In Europa, è come se si dovesse sempre lottare, idealmente, contro tutti quei vecchi edifici, e [con] le vibrazioni, le vibrazioni del passato, presenti nell’architettura come nella scultura. Camminando attraverso una città europea, queste opere d’arte così ben riuscite trattengono racchiuso in esse, intrappolato, un mucchio di energia; ma tengono anche intrappolate le persone in un sistema di idee che le blocca. Intendo dire che lo spirito del Barocco resta sospeso su molta parte dell’Europa, essendo intrappolato in quella architettura. In conseguenza di ciò, [lì] c’è molto meno dello spirito del tutto aperto che esiste qui [negli USA]. Ciò che sarebbe un problema per me [se ci vivessi].

Ritengo che ogni buon lavoro dovrebbe avere almeno dieci significati, ne sono davvero convinto. Ma se ne ha soltanto uno… Infatti io penso che è probabilmente dove la pittura ‘hard edge’ e la scultura ‘hard edge’ fallirono. Sembravano avere non più che due o tre significati, quando invece dovresti averne dieci. Per dire, pensiamo alla scultura ‘hard edge’: la guardi, hai quel semplice rosso, giallo o blu, hai quel semplice contenuto geometrico, hai la combinazione di quelle due cose e magari anche una certa imponenza, sono forse quattro cose, soltanto quattro… Troppo poco per arrivare ad essere un lavoro riuscito.

Qualsiasi artista che si metta a spiegare il suo lavoro secondo me è uno stupido.

Walter De Maria (estratti da un’intervista del 1972, tradotti da me)

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Musei e giardini zoologici

Che differenza c’è fra andare in un museo o in una galleria d’arte e allo zoo? Vero, gli animale sono vivi, ma essendo imprigionati è come se fossero morti. E le opere d’arte sarebbero vive se inserite in un contesto affatto diverso, eterogeneo e libero da vincoli e costrizioni. Ma lì dentro appassiscono come piante d’appartamento tenute al buio. Entrambi, animali e opere d’arte, non si possono toccare, sia pure per motivi diversi.
Si va in musei e gallerie, oppure allo zoo, pensando di accedere a qualcosa di spirituale (nel primo caso) o di vitale (nel secondo). Perché tutte e due le dimensioni ci sono precluse nella vita di tutti i giorni, che è tutto meno che spirituale o vitale – nel senso della vita pulsante e incontrollabile. Quindi tutti nei musei e nelle gallerie, o negli zoo, dove fingere di avere esperienze reali, interagendo con presenze reali, o con espressioni spirituali genuine.

(testo scritto il 21 marzo di quest’anno, di cui mi ero dimenticato; riletto e modificato oggi)

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Sulle pietre

A un certo punto della sua vita – impossibile stabilire con precisione quando – cominciò a raccogliere pietre. Camminando ovunque, ma soprattutto in montagna, ogni volta ne raccoglieva almeno una, per portarsela a casa. Ma potevano anche essere molte, quando gli capitava di trovarne di molto belle in un certo luogo. Sono ancora tutte lì in casa sua, alcune appoggiate su ripiani o tavoli, perché possa facilmente vederle, e ogni tanto anche prenderle in mano. La maggior parte delle pietre si trova in un magazzino della stessa casa, tutte avvolte in carta velina e riposte con cura all’interno di scatole, perché altrimenti non ci sarebbe abbastanza posto per tutte, se le spargesse in giro per la casa. Ma non sono dimenticate, anche se non si vedono.
Quelle che sono esposte in giro ogni tanto le guarda, brevemente, talvolta anche più a lungo. Lo aiutano a pensare, ma anche a non pensare. 1

Poi un giorno credette di capire. Sono, le pietre, parole che non si potrebbero dire altrimenti, che non si potrebbero neppure udire in alcun modo, ma che risuonano, mute, nella testa di chi le vede, le pietre, di chi le raccoglie e poi le tiene in mano, e stringendo il pugno, nascondendole alla vita, le ode-vede con chiarezza, ma senza poterle formulare in alcun modo.2

1 Scritto probabilmente nel mese di marzo 2017.

2 Scritto il 30 agosto 2025.

Su questa stella sempre più oscura

Su questa stella sempre più oscura che noi abitiamo, ridotti al silenzio, arretrando di fronte alla crescente pazzia, mentre sgomberiamo intere regioni del cuore, mentre ci ritiriamo dai pensieri e congediamo così tanti sentimenti, chi non si accorgerebbe improvvisamente – se risuonasse ancora una volta, se risuonasse per lui! – di ciò che essa è: una voce umana.

(Ingeborg Bachmann, da Musica e poesia, 1959; trad. di Barbara Agnese)

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I distruttori di nidi di rondini

Opere edilizie antisismiche [sic], poco meno che dissennate, e costosissime, che creano disagio a una comunità, senza alcun beneficio apparente (tutto molto teorico e inconsistente).

Le rondini, affaccendate per giorni, forse settimane, dalla mattina alla sera, senza mai potersi fermare, per portare il nutrimento ai loro piccoli nei nidi sotto le grondaie della scuola oggetto dei lavori.

Viene il giorno in cui gli operai intervengono proprio lì, distruggendo i nidi o quantomeno ignorandoli, mentre i loro gesti duri e rumorosi arrivano spietati, e così niente più nutrimento per un giorno o due. Le rondini sembrano sparite, smessi i loro voli frenetici avanti e indietro ai e dai nidi, ammutolite: chissà dove sono ora.

Poi, nei giorni del fine settimana, durante la pausa settimanale dei lavori, le si rivede, ma c’è qualcosa di diverso nei loro voli: non si soffermano più per quei pochi secondi librandosi presso i nidi, per distribuire il cibo ai piccoli (ormai già grandicelli, sulla via di diventare adulti, e volare). Si librano bensì ancora ma per un attimo, perché non ci sono più i nidi, evidentemente, oppure… Dopo, un po’ ovunque all’intorno, piccole carcasse già decomposte (ha piovuto, e poi le formiche sono inesorabili), tutte le piccole rondini che non sapevano ancora volare, ed erano anche deboli per il mancato nutrimento.

Ma i lavoratori, che forza! Otto ore sempre lavorando, in situazioni spesso rischiose, affrontando continuamente problemi, con coraggio e determinazione. È difficile non ammirarli, per la loro forza e la loro destrezza, e l’abilità nel risolvere problemi sempre nuovi, questi distruttori di nidi di rondini.

(scritto il 27 luglio 2025)

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Una via

Oggi per la prima volta, guardando su internet una mappa del quartiere dove ho vissuto per tanti anni, fino a tre mesi fa, mi sono accorto di una particolarità di via Reggio. Vi si può scorgere un rettangolo, i cui lati corrispondono, partendo da sinistra in senso orario, a via Pisa, corso Regio Parco, corso Verona e via Cagliari. Ebbene, via Reggio è una specie di diagonale che, provenendo dal ponte Rossini, di cui costituisce la naturale prosecuzione, entra nel quartiere appena a sinistra del vertice basso formato dalle vie Pisa e Cagliari e arriva fino alla grande rotonda di corso Verona – attraversata anche da corso Regio Parco – formando lì, nel vertice alto a destra del quadrangolo, due angoli quasi uguali (grossomodo, uno di 40°, o poco più, e uno di 50° o poco meno).
Insomma, via Reggio rompe la monotonia del reticolo – di origine romana – che caratterizza questa zona, così come molte altre della vecchia Torino. È disobbediente, va per conto suo, per la tangente, si potrebbe dire. E ora mi rendo conto molto meglio del perché sia una via non così facile da trovare, per chi la cerca la prima volta sia camminando sia guidando un’auto. Io stesso, nei primi tempi, mi confondevo un po’ quando dovevo arrivarci da via Parma, soprattutto; aveva qualcosa di insolito rispetto alle altre strade, proprio per il fatto di rifiutare certi automatismi tipici delle vie perpendicolari, parallele fra loro da due punti di vista. Via Reggio no, non è parallela a nessuna altra via, se ne va per conto suo, partendo appunto dal fiume e versandosi nella rotonda, dove è come se si spegnesse, dato che, diversamente dalle altre due strade, sul lato opposto non c’è una via che le corrisponda. Finisce insomma improvvisamente, come un sogno subito dopo il risveglio.

(scritto il 25 giugno scorso)

Due persone si incontrano

Già da qualche tempo mi sono accorto di un fatto singolare che ha luogo, di quando in quando, proprio qui davanti al mio ufficio, quasi all’angolo di via Reggio con la rotonda. Due uomini si incontrano lì, in un modo che potrebbe quasi apparire clandestino, con una frequenza che non saprei quantificare, ma sempre, direi, fra le 17.30 e le 18. Il più giovane lo conosco di vista da anni, è uno dei due fratelli che gestiscono un bar a poche centinaia di metri da qui, sull’angolo fra lungodora Siena e corso Regina Margherita. Il tempo passa, ormai avrà almeno cinquant’anni, ma non è molto cambiato. Alto, magro, con i capelli rasati (o sarà forse calvo), me lo ricordo sempre serio e taciturno, non dovrebbe essere cambiato. Anche se il suo rapporto con l’altro uomo – decisamente più anziano, piccolo di statura e piuttosto esile – è all’insegna della loquacità, soprattutto da parte sua. Devono avere molte cose da dirsi, chissà quali, e perché, e quali sono i loro rapporti. Io da un po’ mi sono messo in testa che il vecchio sia il padre dell’altro, forse divorziato dalla madre, e forse per molto tempo si erano allontanati ma ora si sono riavvicinati, magari il vecchio vive solo, si sarà fatto vivo lui dopo molto tempo. È sicuramente strano che si incontrino sempre lì, nello stesso punto, il più giovane ha una bici e viene da nord, dopo che si sono salutati raggiungerà il bar per prendere servizio (se non hanno cambiato gli orari, rimane aperto fino a notte fonda). Un’altra cosa che si nota è il fatto che, pur essendo visibilmente legati da un qualche vincolo, forse appunto di stretta parentela, si tengono sempre lontani uno dall’altro, almeno un metro e mezzo, e senza mai toccarsi. Come se una barriera invisibile si frapponesse fra di loro, che pure comunicano con apparente intensità, soprattutto il giovane parla e gesticola, forse raccontando all’altro quello che ha fatto nel periodo di tempo passato dal loro ultimo incontro. Il vecchio lo ascolta con attenzione, ogni tanto interviene, ma l’impressione è che sia sempre la vita del più giovane al centro della loro conversazione, e il vecchio stia in ascolto per poi consigliarlo, a proposito di qualche questione che lo preoccupa. Forse a causa dell’insolita distanza permanente fra i due, tale da suggerire l’esistenza di una barriera invisibile, poco fa mentre li osservavo ho pensato che potrebbe trattarsi di un incontro in un carcere, fra un detenuto e un parente o amico venuto a trovarlo. Sarà forse anche a causa dell’orario, sempre lo stesso, oltreché della distanza pressoché immutabile, e invalicabile, che li divide e li tiene uniti nello stesso tempo. E poi la faccia seria, imperscrutabile, del giovane, e i suoi gesti che fanno pensare a qualcosa di serio a sua volta, anche se magari stanno parlando di cose banali. Però lo fanno in un certo modo, nessuno dei due vuole perdersi un momento dell’incontro, non una parola, neppure uno sguardo, dato che sono sempre concentrati ognuno sull’altro, trascurando tutto ciò che li circonda. Del vecchio non so, lo vedo sempre di tre quarti da dietro, in testa un cappelluccio con visiera, e porta gli occhiali; anche lui gesticola un po’, ma in modo più misurato, e più raramente. Forse dei due è il più giovane a vivere in una sua prigione che soltanto l’altro è in grado di scorgere (e perciò soltanto lui può confortarlo, ed è a lui che si rivolge, sicuro di trovare un saldo sostegno).
Oppure no, in galera ci sta il vecchio, ma ormai non dà più peso alla cosa, mentre l’altro sente acutamente la sua mancanza, ha bisogno di lui, del suo ascolto, del suo conforto, ancorché muto. Così ogni tanto va a trovarlo.

(testo scritto il 12 marzo scorso, rivisto oggi, 25 giugno 2025, a Mondonio – AT)

20/10/00

Nell’ultima fase di un recente trasloco, quando erano rimasti, sparsi in giro, ancora molti oggetti da considerare, valutare, infine prendere o buttare, mi è capitato sotto gli occhi un barattolo di vetro, di quelli che possono contenere (e in effetti conteneva, un tempo) un chilogrammo di miele. Non mi era nuovo, l’avevo già visto qualche volta negli anni scorsi, ma senza mai aprirlo, senza neppure prenderlo in mano, forse. Intravedevo al suo interno dei foglietti, tutti piuttosto lunghi e stretti (diciamo un palmo di lunghezza per massimo 7-8 cm di altezza) su ognuno dei quali era stato scritto qualcosa, a mano; perché un tempo si scriveva – io almeno scrivevo – ancora quasi sempre a mano, oppure, molto raramente, usando una macchina per scrivere.
Credo che mi fossi convinto trattarsi di testi di un certo tipo, appartenenti a un certo periodo della mia vita, cose che, se non ho dimenticato, certamente ho superato. Proprio in quell’epoca avevo deciso di uscire da una certa situazione, diventata ormai invivibile per me, per la quale avevo perso interesse, reputandola qualcosa di irrimediabilmente concluso, una volta per sempre.
Ma mi sbagliavo, in parte, nel senso che, leggendo quella che dovrebbe essere una data, scritta su un pezzo di nastro adesivo appiccicato al coperchio del barattolo, in quel periodo io stavo effettivamente allontanandomi da una certa situazione, cambiando, ancora una volta, la mia vita [ciò che mi sta accadendo di nuovo ora, sia pure in un altro modo]. Però i testi non sono, come credevo, miei, non ne sono l’autore, ciò che ho finalmente appurato l’altro giorno, leggendoli dopo averli tolti dal barattolo dove erano rinchiusi da poco meno di venticinque anni.
Quasi ogni testo (in effetti, un estratto da un libro) porta in calce la firma del suo autore, indicato però – chissà perché – soltanto dalle sue iniziali. M.A., B.P., Y. K., N., eccetera, ovvero, come ho presto capito, Marco Aurelio, Blaise Pascal, Yasunari Kawabata, Novalis…
Come talvolta capita, soprattutto in una situazione molto particolare come è quella di un trasloco, certe apparizioni non sembrano avere molto di casuale e leggendo i testi era come se essi (non tutti ma la maggior parte) si riferissero, sia pure obliquamente, a quello che proprio ora sto vivendo. Anche se in verità, mentre li trascrivevo, nel mese di ottobre dell’anno 2000, dovevo avere in mente ciò che allora stavo vivendo, e quindi il fatto di sceglierli era molto probabilmente motivato e condizionato da quello.

Di seguito, alcune delle citazioni trascritte sui foglietti contenuti nel barattolo di vetro:

L’uomo non sa quale grado attribuirsi. È evidentemente smarrito, e caduto da dal suo vero luogo senza poterlo ritrovare; e lo cerca in ogni dove con inquietudine e senza esito fra tenebre impenetrabili.

Nonostante la vista di tutte le nostre miserie, che ci premono, che ci stringono alla gola, abbiamo un istinto, che non possiamo reprimere, che ci eleva.
(B. P.)

Considera [sovente] la rapidità con la quale passano e dileguano tutte le cose che esistono e che nascono. La materia è simile al fluire continuo d’un fiume; le forze naturali subiscono trasformazioni ininterrotte, le cause mutamenti innumerevoli, quasi niente è stabile. E questa a te così vicina immensità infinita del passato e dell’avvenire è una voragine nella quale ogni cosa dilegua.
(M. A.)

Il non essere contraddetto non è un segno sicuro della verità: molte cose certe son contraddette, molte cose false vengono accolte senza contrasto. Né la contraddizione è segno di errore, né la sua mancanza segno di verità.
(? forse Blaise Pascal)

Lo spirito si manifesta sempre soltanto in una forma sconosciuta, aerea.

Noi non ci comprenderemo mai completamente, ma potremo fare ben più che comprenderci.
(N.)

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