L’arte che mi interessa

Quando ero bambino andavo spesso dai miei zii. Avevano una bella casa con l’orto, il pozzo, galline e conigli. Una volta mio zio prese una coppia di anatre selvatiche, e la femmina ben presto rilasciò molte uova fecondate, da cui spuntarono altrettanti bellissimi anatroccoli. Li adoravo guardandoli sguazzare in una specie di tinozza, o camminare in fila dietro la madre. Finché un giorno di fine estate, quando erano ormai cresciuti, si alzarono tutti insieme in volo, con i genitori, per migrare verso sud. Credo di aver imparato, da quell’esperienza che mi rattristò molto, che la bellezza è effimera, e soprattutto non ci appartiene, mai.

La sola arte che mi potrebbe interessare ormai è una che si mischia con me, mi sta vicino, o a cui posso avvicinarmi, per osservarla, ascoltarla, annusarla, talvolta perfino toccarla. Come per qualsiasi altra cosa: oggetti, animali, persone, fenomeni naturali come la pioggia il vento la neve. Un’arte in cui mi imbatto, che non mi aspettavo, qualcosa che in un dato momento mi attrae particolarmente, ma che non mi appartiene, e nello stesso tempo non conta più di me, non mi impone di stare sottomesso, mentre la guardo o ascolto. Conta come tutte quelle cose, animali, persone, pietre, gocce di pioggia, raggi di luce che si spostano lentamente sui muri: niente di più niente di meno.
Ovviamente, come per tutte quelle cose, anche per quest’arte il massimo rispetto, niente di più niente di meno.
Ma non voglio più avere a che fare con un’arte che se la tira, che si mette in posa e cerca di mettermi in soggezione, di incutermi un certo timore reverenziale. Mi è ormai del tutto estranea.

(una meditazione dei giorni neri; 3 luglio 2022)