Asteria

Girando fra i vicoletti del borgo, nella sua parte più vecchia, a naso in su per guardare il campanile che appare privo di chiesa, alzandosi fra le case in pietra. All’improvviso si sente il suono di una batteria, proveniente da non si sa dove. Così, camminando come se fossimo irresistibilmente attratti da quel suono (e da altri che si uniscono, compresa una voce) arriviamo dove c’è uno spiazzo quadrangolare, su tre lati del quale stanno altrettante vecchie case con molti balconi lignei. Sul quarto lato una tettoia, al di sotto di quella due tavoli con qualche stoviglia ancora sparsa sopra: devono averci pranzato da poco. Ci sediamo su una panca presso la porta d’ingresso della casa di fronte alla tettoia, che ha proprio sopra la porta una rozza targa in legno, “Aubergj d’la posta”. Dentro qualcuno sta suonando, oltre alla batteria una tastiera, forse un basso, o una chitarra, e la voce. Che sta cantando, anche piuttosto bene, variando a tratti la linea melodica, “E penso a te”, una vecchia canzone di Lucio Battisti (composta nel 1970), certamente non qualcosa che ci si sarebbe potuti aspettare. Dopo qualche minuto la musica finisce, dalla porta escono tre ragazzi, massimo 18 anni, i musicisti. Non posso fare a meno di rivolgermi a uno di loro, proprio a lui, perché ha qualcosa del leader (fra l’altro la sua capigliatura ricorda un po’ quella del primo Battisti), per dirgli che ci eravamo fermati ad ascoltare, stupendoci – piacevolmente – per la scelta di quella canzone. Poi una domanda sulla casa, anzi sulle case, che paiono collegate fra loro. Era stato un albergo, ai tempi del nonno, ma ora, già da tempo, serviva soltanto alla famiglia come casa di vacanza. Ci dice anche che alle 18 suoneranno nel piazzale davanti all’albergo dove abbiamo pranzato e ci invita ad assistere al concerto. Purtroppo l’orario non va molto bene per noi, soprattutto per chi sta con me e vorrebbe rientrare a casa prima di sera. Vorrei continuare a parlare con lui, la scelta di quella canzone mi ha talmente colpito, ma gli altri due gli mettono fretta, per qualche impegno pressante, e io non oso trattenerlo. Così ci salutiamo, i tre se ne vanno di buon passo verso la loro destinazione; sparendo per sempre fra le case. Dopo, tornando verso l’auto parcheggiata nei pressi dell’albergo, scorgiamo, attaccata al tronco di un albero, una piccola locandina che presenta il concerto delle 18. Il nome scelto dai tre ragazzi è quello di un personaggio dalla mitologia greca, significa ‘delle stelle’, o ‘stellato’.

Usseglio, il 3 agosto 2024

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Forse

Più di una volta nel corso degli anni mi è capitato di incontrare qualcuno convinto di riconoscermi e che vedendomi mentre camminavo nella sua direzione subito mi fissava con un lampo negli occhi, prima di sorridermi e dirmi «ciao!». Era davvero sicuro – o sicura – di rivedermi dopo molto tempo e questa sensazione lo, o la rallegrava molto (fortunatamente, per me). Dovevo, ogni volta, spendere qualche minuto per spiegare a quella persona che c’era un equivoco, non ero io quello, purtroppo si stava sbagliando. E mentre parlavo vedevo i segni della delusione apparire sul suo volto, alternandosi a quelli dello sconcerto e del dubbio. Perché forse non ero stato convincente, non del tutto, e avevo la sensazione che non mi credesse, pensando che per qualche motivo non volevo essere riconosciuto. Quindi al mio cortese saluto prima di allontanarmi rispondeva la sua espressione perplessa e incredula, che a sua volta instillava in me un sottile disagio. Mi spiaceva di averla delusa, forse avrei potuto stare al gioco, essere più accondiscendente, pur rimanendo sul vago («sì, avevo lavorato lì per un breve periodo molti anni fa, ma purtroppo non ricordo di averla conosciuta, mi spiace»): in fondo, non ci potevo perdere niente, dato che subito dopo avrei salutato allontanandomi in tutta fretta dal luogo dell’incontro.
Recentemente qualcosa di simile mi è successo con il cassiere di un supermercato, che dopo aver mostrato per qualche volta gentilezza e affabilità nei miei confronti si era infine deciso a dirmi che secondo lui io somiglio in maniera impressionante a un noto doppiatore cinematografico (a me ignoto, anche perché non mi piacciono i film doppiati in italiano). La cosa strana è che conoscesse così bene il suo volto e che la somiglianza fra me e quell’altro fosse appunto di sembianze facciali, e non semmai delle rispettive voci. Ma data la simpatia che mi ispira questo cassiere, e il suo modo molto diretto di rivolgersi a me per spiegarmi la cosa, stavolta non ho provato quel disagio, semmai un certo stupore per la stranezza del parallelo, fra me e un doppiatore cinematografico.
Ci fu poi una volta, molti anni fa, in cui mi trovai dall’altra parte e accadde a me di sbagliarmi, convincendomi che stavo rivedendo una persona ben nota dopo molto tempo. Anche se poi mi rimase un dubbio, mai del tutto risolto. Pur conservando dell’esperienza una traccia piuttosto vaga – non so dove accadde, forse su un tram o bus, oppure su un treno – ricordo invece molto bene che per qualche minuto rimasi convinto che fosse proprio lei, un po’ cambiata, ma neppure poi tanto. Mi fissò a sua volta, forse stupita accorgendosi della mia insistenza nel guardarla, chissà. Nessuno di noi due disse una sola parola, durante quei pochi minuti: io non osavo farlo per paura di trovarmi nella scomoda posizione di quello che si sbaglia, e anche perché, forse, qualcosa nella sua espressione, un’ombra amara, quasi di disprezzo (o era forse un’aria di sfida?), nello sguardo e sulla bocca, mi dissuase. Poi ci separammo, uno dei due si allontanò scendendo dal tram o treno che fosse, una volta e per sempre.
È passato molto tempo da allora, ripensandoci non sono così certo né di essermi sbagliato né che fosse proprio lei, e neppure saprei dire se mi avesse riconosciuto, rifiutando però di ammetterlo. Da molti anni non la rivedevo, sempre cercandola, sempre aspettandola, inutilmente. E forse quella volta il silenzio di entrambi sancì la fine irrevocabile di una storia che mi ero convinto fosse soltanto sospesa, o differita. Forse capimmo entrambi in quel momento che era ormai troppo tardi per riprenderla e il silenzio era l’unica scelta possibile.

dieci (piccoli) indiani

And Then There Were None, di René Clair, del 1945, si apre con una curiosa rassegna di primi piani di alcuni dei ‘dieci piccoli indiani’ mentre sono sulla barca che li porta verso l’isola fatidica. La lunga sciarpa di una di questi, mossa dal vento, ricopre a turno il volto di alcuni fra gli altri, conferendogli misteriose e inquietanti sembianze1, ma soltanto per lo spazio di pochissimi secondi, prima che ognuno, con un gesto della mano, se la tolga dalla faccia.
Girato quasi tutto in interni, è proprio in questa dimensione che accadono, cinematograficamente, le cose più interessanti. Uno o più personaggi sono in primo piano, ma sullo sfondo, nella grande sala, ne vediamo un altro che magari ha appena lasciato il gruppetto e si allontana verso una scala, la sale. Oppure ne discende, ma in entrambi in casa questa azione ci distrae da quella in primo piano, la alleggerisce, e questa leggerezza si diffonde per tutto il film (che altrimenti, siccome bene o male parla di molto delitti, poteva risultare greve). Ma spesso i personaggi sono distratti, mentre si trovano in una stanza, da qualcosa che accade altrove, udibile soltanto, in forma di urlo, fracasso, sparo, per cui subito si allontanano; oppure guardano lontano servendosi di un binocolo. In questo modo la storia – che bene o male è una pièce teatrale adattata per lo schermo – assume una vivacità, una mobilità e una instabilità che sarebbe alquanto difficile ottenere su un palcoscenico. Un altro espediente – davvero molto ingegnoso – viene utilizzato in una sequenza fra le più memorabili, quella in cui almeno quattro personaggi si spiano a vicenda, o dal buco di una serratura o da dietro un angolo, e seguendosi (ognuno di soppiatto, ovviamente, per non farsi notare) percorrono in cerchio una parte cospicua della casa, con un movimento vertiginoso che di nuovo, come negli altri casi, alleggerisce il film travalicando i limiti dell’unità aristotelica di tempo e luogo dell’azione.

Ma vediamo spesso nel film qualcuno mentre spia qualcun altro attraverso il buco della serratura, generalmente da una sala da bagno, in quanto esse sono sempre comuni a due stanze, inframmezzandole, e sono quindi frequentate, a turno, da due diversi personaggi. Così ognuno scopre dettagli dell’altro che questi nasconde in pubblico, perché la costante di tutto il film, ciò che accomuna i dieci ‘indiani’ (oltre al fatto di celare, quasi tutti, un delitto compiuto in passato) è la finzione, il fatto che tutti fingono e mentono, perciò, inevitabilmente, si spiano sperando di cogliere l’altro, gli altri, in fallo. Ed è questo un altro espediente (peraltro, in questo caso, mutuato dalle pièce) che conferisce al film le sue qualità precipue: imprevedibilità degli eventi, instabilità costante della situazione – anche se il luogo è sempre quello, per tutto il film – e mobilità continua della vicenda, che peraltro (altro espediente rilevante) non ha un solo vero protagonista, ma dieci bensì (undici col traghettatore), per altrettanti punti di vista, quindi nega la centralità e l’univocità.
In questo senso si può dire che And Then There Were None è un film realmente fondato sull’equivoco.

1 È quanto meno probabile che la cosa abbia un senso ben preciso, ovvero mettere in guardia chi guarda il film facendogli capire che tutti i personaggi potrebbero nascondere qualcosa dietro apparenze affatto ordinarie. Per cui, coprire le faccia di alcuni di loro è come dire che sarebbe bene non farsi condizionare, o fuorviare, da tali apparenze. Anche se fra i dieci ci sono diverse persone che occupano nella società ruoli per così dire rispettabili (medico, giudice, generale in pensione, ecc.), meglio diffidarne, ovvero andare oltre le apparenze, che ci vengono così sottratte alla vista per qualche secondo. Ciò nonostante, rimane il fatto che il giochetto della sciarpa mossa dal vento provoca nello spettatore, subito all’inizio del film, una sensazione disturbante.

La mano e gli occhi

In The Tin Star, un western degli anni ’50 di Anthony Mann, la lunga sequenza iniziale è dominata da una mano. Spunta, con parte del braccio, da sotto una coperta, messa addosso al corpo di un bandito ucciso trasportato da un cavallo. Il protagonista, un bounty-killer interpretato da Henry Fonda, entra nel villaggio, lentamente lo attraversa, suscitando la generale curiosità (tutti escono da case o negozi per seguirlo).
La scena ha luogo in silenzio – soltanto il rumore degli zoccoli dei cavalli sulla strada in terra battuta, e nessun commento musicale – e sarà l’unica in cui il morto (di cui vedremo soltanto quella minima parte del corpo) comparirà nel film. L’aspetto più interessante di questa sequenza è che quella parte di un corpo che non possiamo vedere appare nel film come un’intrusione vera e propria, perché non ha niente a che fare con tutto quello che seguirà. Ha i tratti inconfondibili del macabro e dell’orrifico, accentuati dal silenzio assoluto che si crea nel villaggio, anche se praticamente tutti i suoi abitanti, usciti dalle case, sono raccolti lì intorno, sorpresi e sgomenti. Potrebbe davvero sembrare un film dell’orrore, ma di una strana specie, mischiato con il western, e se continuasse così sarebbe tale, ma non succede, quel che segue è tutt’altro e non ha proprio nulla a che fare con quella mano che spunta dalla coperta e ciondola seguendo il movimento del cavallo che porta il cadavere. È un po’ come se un film iniziasse così, su quella nota lugubre e poi finisse ben presto, continuando con gli stessi personaggi ma in tutt’altro modo, diventando un altro film. Fra l’altro, il personaggio interpretato da Fonda si rivelerà in seguito come una figura positiva, niente a che fare con quella sinistra del cacciatore di taglie (del tutto inusitata per un attore dalla consolidata reputazione di ‘buono’ come lui) con cui si era così icasticamente presentato arrivando nel paese, in modo tale da allarmare gli abitanti e sconcertare noi spettatori del film.
Sempre in The Tin Star, piuttosto verso la fine, la parte in cui il villaggio in festa, con tanto di banda, accoglie l’arrivo del vecchio medico, nel giorno del suo 75° compleanno; ma poi si accorgono che il carro è trainato dal cavallo sbrigliato, e il dottore giace inanime al posto di guida, dopo essere stato ucciso dai banditi. Così la banda smette di suonare, per qualche secondo scende il silenzio, poi prevale lo sgomento. È una sequenza molto ben congegnata, non deve essere stato facile farla, con tutta quella gente, e la banda, soprattutto il rapido passaggio dalla gioia allo smarrimento e poi all’orrore.

In The Lady Eve, di Preston Sturges (un film dei primi anni ’40) si assiste per almeno tre volte a un fatto curioso. Mentre Henry Fonda si trova sul ponte della nave in attesa di Barbara Stanwick, improvvisamente nell’inquadratura appare un tipo – sembrerebbe un addetto alle pulizie, porta sulla spalla una specie di scopa, una volta forse una scala – in primissimo piano, attraversa la scena, da sinistra verso destra oppure da destra verso sinistra, sempre per pochissimi secondi, si vede appena. La prima volta Fonda è visibilmente sorpreso, per qualche motivo, e segue con lo sguardo il tizio anche dopo che è uscito dall’inquadratura. La seconda volta è già meno sorpreso, sembra abbozzare un sorriso, e forse la terza volta (o già nella seconda, non ricordo) il marinaio – ammesso che si tratti davvero di un marinaio – lo saluta brevemente. In una delle tre occasioni il personaggio è seguito – o preceduto? – da un uomo in divisa, forse un ufficiale della nave. Nessun commento da parte di Fonda, neppure con gli altri attori, così la perplessità di noi spettatori rimane insoluta.
Ho pensato che forse la cosa accadde una volta sul set per puro caso, un incidente come probabilmente è normale che ne succedano quando si gira un film (penso a The Party di Blake Edwards, le varie gaffe analoghe commesse dal personaggio interpretato da Peter Sellers). Così Sturges, regista noto per la sua eccentricità e per l’atmosfera caotica ed esuberante che regnava sul set nei suoi film, e favorevole a una certa improvvisazione dei suoi attori, deve averla trovata piuttosto divertente, rifacendola poi appositamente per alcune volte.

In The Border Incident, un film assai teso e duro di Anthony Mann del 1949, quasi tutto girato di notte, c’è una scena molto bella e anche diversa da tutte le altre. Ha luogo in una chiesa, durante il saluto del bracero Juan Garcia alla moglie, prima di avventurarsi in un espatrio irregolare dal Messico alla California, per guadagnare qualcosa lavorando clandestinamente nei campi. Inizialmente la si vede di profilo, a destra dell’inquadratura e in secondo piano (mentre lui è in primo piano a sinistra, piuttosto fuori fuoco). Ha un fazzoletto sulla testa, o piuttosto un mantello (insomma, una specie di chador), che le lascia scoperto il viso, così da farla subito sembrare (forse anche perché i due sono in chiesa) una madonna, come è sempre stata rappresentata nei quadri, soprattutto in quelli antichi. Dopo averlo ascoltato si gira lentamente verso di lui, ha uno sguardo luminoso e un lieve sorriso (sia pure triste) le increspa le labbra, mentre gli dice che lo capisce e non si oppone alla sua decisione, ma lo prega, dolcemente, di fare molta attenzione, in modo da poter tornare sano e salvo da lei e dai loro due bambini. Una sequenza molto breve ma particolarmente intensa, lei sembra davvero una madonna, ma con naturalezza, il suo viso è bellissimo, dolce e rasserenante.
L’attrice che impersona questa madonna messicana si chiamava Teresa Celli, nata negli Stati Uniti in una famiglia italiana. Quando era ancora una bimba venne in Italia con la famiglia, fermandosi a lungo anche per studiare canto alla Scala (già in famiglia c’era stata più di una cantante lirica, credo la nonna e la bisnonna). Tornò poi negli USA, lavorando molto raramente nel cinema (anche nel celebre Giungla d’asfalto) oltre a cantare nei teatri.

In Deadline – USA, un bel film di Richard Brooks del 1952, con Humphrey Bogart al suo meglio, già vedendo scorrere i titoli di testa noto casualmente, fra i comprimari, un nome che non conoscevo, Joe De Santis. Saprò che fa una parte di un certo rilievo, quella di un poco di buono, fratello della ragazza uccisa (o fatta uccidere) dal potente gangster Rienzi, un vile che pur trovandosi nel luogo del delitto non fa nulla per evitarlo. Poi per paura si nasconde, ma viene scovato da un cronista del giornale diretto da Bogart e convinto a testimoniare contro il gangster, sia pure dietro un lauto compenso. Bogart e gli altri del giornale lo disprezzano, anche se accettano le sue richieste, unico modo per incastrare il fellone. Che poi riesce a farlo uccidere prima che possa testimoniare davanti a un giudice, per cui tutto il ben congegnato piano di Bogart si sfalda. De Santis se la cava bene, è molto credibile: sudato, con il terrore negli occhi, ma comunque avido di arraffare la sua ricompensa, che pure ottiene, indirettamente, in virtù dell’assassinio della sorella, quando ritenne del tutto conveniente voltare le spalle senza alzare un dito per salvarla.
Dopo aver visto il film ho fatto una rapida ricerca: il suo nome completo era Joseph Vito Marcello De Santis, ovviamente un italiano, come era facile immaginare già dal cognome, e poi dai suoi gesti e dalle sue espressioni. Nato a New York, ma da un padre calabrese e da una madre lucchese, inizia presto a recitare e nello stesso tempo si dedica alla scultura; poi, ancora giovane, fa il conduttore in una radio in lingua italiana. Dopodiché ancora radio, televisione e cinema, oltre alla scultura, che molto probabilmente praticava per pura passione. E a questo proposito emerge un particolare curioso, forse il più interessante, qualcosa che, inopinatamente, lo lega addirittura a Frank Zappa. Infatti, nelle note al primo disco delle Mothers of Invention, Freak Out!, del 1966, dopo l’intestazione che recita “These people have contributed materially in many ways to make our music what it is. Please do not hold it against them”, compare, fra molti altri, anche il suo nome. Zappa frequentava a Los Angeles lo studio di tale Vito Paulekas (scultore e performer assai noto in quella città) e lì fece la conoscenza del nostro, che a sua volta ci andava per fare le sue sculture.
Su internet si trovano diverse foto di De Santis quando aveva già una certa età, sempre con i baffi, e si vede senza ombra di dubbio che era un italiano al 100%, pur avendo sempre vissuto negli USA. In almeno una ha gli occhi lucidi, molto luminosi, con un’espressione solare, benevola. Nella mia vita ho conosciuto diversi uomini così, soprattutto del Sud, ma non soltanto, con quello sguardo luminoso al disopra dei baffetti neri, i capelli imbrillantinati e pettinati indietro. A ben pensarci, almeno un paio erano miei parenti, persone che non vedo più da molto tempo, ormai scomparse.

Le mie passeggiate sull’isola

Nella primavera del 2017 mi capitò una volta di entrare nel Cimitero Monumentale di Torino, durante una delle mie passeggiate giornaliere, che avvengono sempre qui nei dintorni. Non ero partito da casa con l’intenzione di andarci, ma siccome ero lì nei pressi, e in quel momento il semaforo di corso Novara era verde, senza troppo pensarci sopra decisi di entrare. Stavo vivendo un periodo difficile della mia vita, soprattuto a causa di una certa questione che si stava trascinando ormai da quasi un anno, angustiandomi, e sentivo il bisogno di trovare un sollievo, anche soltanto momentaneo. Ciò che avvenne subito quando mi trovai là dentro camminando mentre guardavo intorno a me le tombe, i lunghi porticati, gli alberi che vi si trovano in gran numero, lo stesso cielo. Dopo pochi passi, si capisce di essere in un altro mondo, sia pure vicinissimo a quello dove viviamo abitualmente, la cui presenza è soltanto segnalata dai rumori delle auto che girano lì intorno, sempre più distanti, ovattati, man mano che ci si addentra nel cimitero. E un altro mondo significa anche un altro tempo, perché lì dentro il tempo è davvero diverso, non più influenzato e deformato dalla nostra volontà, dalle nostre abitudini, ma come sospeso. Tutto sembra immobile, come se non ci fosse, lì, alcun bisogno di affrettarsi per andare da qualche parte, nessun appuntamento preso in anticipo, nessuna scadenza da rispettare, e la presenza di tante statue in marmo, e di manufatti anche in marmo o in pietra, accentua questa impressione di stasi. Le piante, quelle sì, si muovono, se c’è un po’ di vento che scuote i rami e le foglie, e poi ci sono gli uccelli, e qualche insetto, quindi si può dire che il tempo in quel luogo è molto più vicino a quello ‘naturale’, ed è facile perdere la percezione di quello artificiale, fittizio, creato da noi stessi e scandito dagli orologi. Un’ora trascorsa camminando lì dentro è diversa da un’altra ‘fuori’, c’è una sorta di effetto di dilatazione, e se uno si lascia portare dal caso, seguendo tracce impreviste e attraenti, è facile anche perdersi, perdendo così, oltre al senso del tempo, anche l’orientamento. È un luogo di sperdimento e di oblio, in cui riesce più facile dimenticare, dimenticarsi, e ritrovare una certa leggerezza perduta.Tutto ciò ha un effetto rasserenante, che può durare anche una volta fuori, per qualche tempo.
Per tutti questi motivi, dopo quella prima volta ce ne furono altre, intervallate all’incirca da una settimana: tornavo volentieri dove mi ero trovato tanto a mio agio. E ogni volta che ci tornavo era sempre senza uno scopo preciso, o una qualsiasi meta sia pure all’interno del cimitero. Mi arrendevo quasi con voluttà a quel tempo particolare, diverso dal ‘nostro’, e come avrei potuto non lasciarmi andare, guidato soltanto dalle apparizioni che mi si presentavano, quindi alla fine, quasi sempre, perdendomi? No, lì entravo ogni volta senza alcuna premeditazione, anche se avevo bensì deciso di ritornarci, dopo quel primo giorno, quando ci entrai per caso e mi accorsi, una volta dentro, sull’isola, di trovarmici così bene. Perciò tornavo, intuendo vagamente che qualcosa avrei sicuramente trovato. E già subito il primo giorno iniziai a scrivere, ogni volta al mio rientro a casa, un resoconto della mia passeggiata nel cimitero, fino a raggiungere un discreto numero di pagine, quelle che avrebbero formato il librino Passeggiate sull’isola. Contrariamente al solito, quando correggo molto la prima stesura, stavolta lasciai tutto quasi intatto, con soltanto pochissimi interventi molto leggeri, e credo che si capisca leggendo il librino, che è molto scorrevole, mi pare, come se avesse lo stesso andamento, lento e un po’ distratto, di quelle passeggiate. E chi legge forse anche così può riuscire a riviverle, a ‘sentirle’, come se camminasse a sua volta, mentre sta leggendo.
Dopo l’ultima passeggiata, nell’aprile del 2017, interruppi le mie visite al cimitero, perché evidentemente stava cominciando a diventare un’abitudine e mi pareva che la freschezza delle prime volte si andasse sempre più perdendo. Ormai conoscevo bene quel luogo, e difficilmente avrei potuto imbattermi in qualcosa di sorprendente – coglierlo, soprattutto – che si imponesse alla mia attenzione con la stessa intensità, e naturalezza, di quei giorni.

Qualche giorno fa (era una domenica mattina) mi trovavo lì nei pressi e sono entrato per fare due passi. L’aria era piuttosto fresca, anche se c’era un bel sole: una bella giornata di fine estate, la prima. Mi sono accorto ben presto che tutto era come un anno fa, mi è parso di ritrovare quella particolare atmosfera praticamente intatta. Forse il fatto di non esserci più andato per parecchio tempo mi permetteva di riavere la stessa freschezza di quei giorni, e mi è parso perfino di scoprire cose nuove, pur percorrendo alcuni dei viali centrali, vicino all’ingresso, che ben conosco. Non mi sono fermato a lungo, forse una decina di minuti, e sono quindi uscito dirigendomi verso via Catania e imboccando la carreggiata centrale, quella che nell’ultimo tratto è riservata ai cortei funebri. Guardando il viale da questa prospettiva, dato che prima avevo fatto un’altra strada, mi è parso di vederlo in un modo completamente nuovo: lunghissimo, e diritto, fiancheggiato da due file parallele di grandi platani che gettavano ombra sulla strada, sembrava non dover finire mai, non se ne vedeva il fondo. Se invece fossi arrivato dalla direzione opposta, percorrendo tutto il viale, avrei invece visto, al fondo, il muro perimetrale del cimitero, con le porte d’ingresso, dove il mio sguardo si sarebbe fermato, trovando un ostacolo, e un limite al mio cammino.

[testo scritto nell’agosto 2018, rivisto nel febbraio 2019]

Ore blu

Il primo episodio di Quattro avventure di Reinette e Mirabelle, di Rohmer, L’Heure bleue, è anche, decisamente, il più bello. Nel senso che se si interrompesse la visione del film alla fine dell’episodio il suo ricordo rimarrebbe intenso e profondo, mentre per quanto riguarda gli altri – pur piacevoli e talvolta anche divertenti – essi rimangono nell’ambito della normalità (quanto meno se si parla di Rohmer). L’ho rivisto ieri sera, scegliendo quasi distrattamente il dvd, più che altro per pigrizia (era stata una giornata molto faticosa per me), perché non avevo voglia di cercare altro. È pieno di situazione ‘normali’, dalla vita di tutti i giorni in un borgo di campagna, dove però la casuale apparizione di Mirabelle, una studentessa parigina in vacanza (siamo in estate), crea una situazione anomala, sia per i contadini – e i loro animali: capre, oche galline, perfino un cavallo – sia, soprattutto, per Reinette, l’eccentrica pittrice autodidatta che vive sola in un granaio riattato. Casualmente fa conoscenza della prima, che aveva bucato una gomma della bicicletta, dopodiché la ospita a casa sua, dove cenano, sempre chiacchierando moltissimo (sono talmente diverse, a tutti i livelli) e poi vanno a dormire. Prima però Reinette ammalia Mirabelle raccontandole della mitica «ora blu», l’unica in cui si può ascoltare il silenzio assoluto, un’esperienza che lei ha vissuto più volte, soprattutto nella stagione estiva. Così si accordano per alzarsi prestissimo il mattino dopo, prima dell’alba, e uscire di casa per aspettare all’aperto il fatidico momento, che durerà «soltanto un minuto», parole di Reinette. Questo primo tentativo fallisce a causa di un imprevisto, Reinette la prende malissimo, addirittura piange, così Mirabelle decide di fermarsi ancora un giorno per ritentare la notte successiva. Venuto il momento, la ragazza di campagna si alza, e non vedendo l’altra nel letto, esce di casa per andare verso il bosco. Ha una camicia da notte bianca, sembra un fantasma, e mentre si muove nel buio quel candore rivela la sua presenza e i suoi movimenti. Dopo qualche secondo si vede un’altra macchia bianca muoversi nel buio (siamo in campagna, tutte le luci artificiali sono spente), andando verso Reinette: è Mirabelle che, silenziosamente, si avvicina all’amica, le vediamo affiancate, quasi spalla contro spalla, guardando il cielo, là dove fra un po’ sorgerà il sole. Stavolta tutto procede nel modo giusto, nessun rumore esterno giunge inaspettatamente a rovinare la situazione (come era invece avvenuto la notte precedente). Si sente ancora qualche isolato verso, uccelli o rane, poi niente, il silenzio assoluto, immane, che dura soltanto per un minuto. Abbiamo assistito, anche noi spettatori, al miracolo dell’ora blu (come era già avvenuto con quello del raggio verde nel film omonimo di Rohmer dell’anno prima) e siamo, quasi come le due ragazze, soverchiati dall’emozione – per tutto quel minuto nessuno ha più aperto bocca, si poteva quasi udire il battito del proprio cuore. Reinette e Mirabelle, poco dopo che si sono uditi i primi versi di qualche uccello mattutino, si abbracciano, travolte dalla commozione e dall’entusiasmo, e questo abbraccio noi lo indoviniamo, rivelato appena dal candore delle camicie da notte che emerge a malapena dal buio. Che solo ora sta iniziando a indebolirsi per cedere il posto alla luce del giorno.

Stamattina mi è venuto in mente che forse anche in Un condannato a morte è fuggito, di Bresson, quando i due evasi finalmente agiscono, dopo aver atteso per ore immobili sul tetto il momento propizio, verso l’alba, ha luogo lo stesso fenomeno. Hanno deliberatamente atteso quel momento fra la notte e il giorno, quando tutto il mondo sembra fermarsi, per compiere la parte decisiva del loro tentativo di fuga dal carcere. E quel momento – come avevo scritto in un testo di pochi anni fa dedicato al film di Bresson – è forse lo stesso in cui si verificano molte morti di persone in agonia, nonché molte nascite, la mia stessa, incidentalmente. E come dice Reinette, quel momento fa paura a chiunque lo viva – al punto di temere che sia giunta la fine del mondo – proprio perché mentre avviene sembra che «tutta la natura smetta di respirare».
Ma non è così, l’ora blu dura pochissimo tempo e poi passa, e così, come ogni giorno, il sole tornerà a sorgere e «domani sarà un altro giorno».

Sprezzatura

In certi momenti accade al nostro cospetto qualcosa di cui si intuisce la forza, la rarità e l’intensità. Pure, rimaniamo apparentemente indifferenti, con poche o nessuna manifestazione appariscente, niente che faccia trapelare una particolare emozione. Ma l’esperienza ha avuto luogo, ha lasciato un segno – ovvero un seme – e dopo, ripensandoci, la sua forza inizia ad agire, una forma prende a dispiegarsi in noi, ci torniamo spesso, mentre diventa qualcosa di sempre più intenso e solido.

È come se in quelle occasioni fossimo diffidenti, o quantomeno guardinghi, attenti a non farci sopraffare da qualcosa di insolito e di cui intuiamo la forza, che pure vagamente temiamo. Perciò non ci lasciamo andare, rimaniamo ‘in posizione’, senza avvicinarci troppo, eludendo anche la tentazione di prorompere in affermazioni o atteggiamenti ammirati, che ci distrarrebbero (disturbando anche chi si trovasse con noi), facendoci perdere buona parte dell’effetto. Che invece ha bisogno di tempo, deve maturare dentro di noi, crescendo quasi per conto suo, fino a dare a quanto esperito una forma certa, con la quale confrontarsi.

Oppure: nel momento dell’esperienza guardiamo e ascoltiamo, ma come impassibili registriamo tutti i dati per conservarli nella memoria. Dopo, lentamente, attraverso un processo di cristallizzazione (vedi Stendhal in De l’amour, quando parla del ramoscello sfogliato dal gelo lasciato per diversi mesi nelle profondità abbandonate di una miniera di sale a Salisburgo) arriveremo a riconoscere il valore dell’esperienza, a darle piena forma e legittimità.
Ma tutto ciò va differito, quasi mai è istantaneo, nel momento stesso dell’esperienza (soprattutto quando l’effetto è particolarmente forte e ci travolge) ma sopraggiunge bensì.
Qualcosa di simile si può trovare esposto nel breve saggio di Kleist Sulla riflessione.

L’esperienza deposita in noi un seme che poi ci crescerà dentro, lentamente, prima di trovare la sua forma compiuta e venire finalmente alla luce.

Perlustrazioni dell’invisibile


Nei suoi film Victor Erice si sofferma spesso a lungo su un personaggio, la macchina da presa indugia su di lui, o su di lei, che generalmente tace; oppure si sente la sua voce fuori campo, mentre scrive o legge una lettera. In molti casi, mentre assistiamo a un’azione di chi viene ripreso, generalmente poco appariscente e svolta con lentezza, si capisce ben presto che a contare è soltanto in parte quell’azione, ma semmai ciò che passa nella mente di lei o lui. Erice non ci dice niente, non ci dà chiavi per decifrare questo mistero, anche se possiamo indovinare, vagamente, soprattutto quando ciò che è accaduto prima – e poi quel che accadrà dopo – può metterci sulla strada, o sulle strade possibili. In questo modo, attraverso l’insistenza nel riprendere un’azione silenziosa e lenta, diventa praticamente inevitabile chiedersi cosa starà pensando quella persona, soprattutto quando è sola, e quindi la sola ad essere ripresa. L’espressione di ognuna di queste persone è quasi sempre impassibile, imperscrutabile (come accade quasi sempre nella realtà – soltanto il cinema, e prima ancora il teatro ci hanno abituati a vedere espressioni artificiose e forzate sul volto degli attori in certe situazioni), soltanto gli occhi alludono a qualcosa che sta accadendo in silenzio, dietro di loro. E anche quando sono chiusi – altra situazione frequente nei film di Erice – essi sono comunque espressivi e ci attraggono con una silenziosa promessa: qualcosa sta succedendo, è certo, anche se non sapremo mai cosa, non ci verrà rivelato. Come si immagina che Ana mai rivelerà niente di quanto le è accaduto, né le uscite notturne, senza svegliare la sorella Isabel, né l’incontro col fuggiasco e neppure quello – immaginato ma altrettanto reale – con il “mostro” di Frankenstein sulla riva dello stagno, quella notte.
Ma ancora prima che per noi spettatori, per forza di cose passivi e ininfluenti, da certe rivelazioni sono esclusi gli altri personaggi dei vari film. Che sono per lo più famigliari, vivono insieme nella stessa casa, mangiano e anche dormono insieme, ogni tanto si parlano, certamente, in qualche modo, si amano, ma rimangono fondamentalmente estranei fra loro, sempre di più con il passare del tempo. E quando ad esempio Estrella cresce, pur continuando ad amarli si estrania sempre più dai genitori, soprattutto dal padre, con il quale aveva, nell’infanzia, un legame silente e discreto ma molto intenso. È così sempre, in ogni famiglia, anche le più unite, più apparentemente serene, come quelle che vediamo nei due primi film, El espìritu de la colmena e El Sur: due, tre, quattro persone unite da vincoli di sangue vivono insieme ma sono diverse fra di loro, fondamentalmente estranee, sempre di più col passare del tempo. Anche se si amano, anche se si prendono cura uno dell’altra e degli altri, rimangono tali, estranei che vivono all’interno di mondi diversi, soltanto compresenti, seguendo percorsi paralleli che poi nel tempo divergeranno sempre più.


Nei film di Erice proprio quando sembra che non succeda niente in realtà stanno accadendo le cose più importanti. Anche se non le vedremo mai e non sapremo mai niente di preciso su di esse. Potremo soltanto provare a immaginarle, ovvero a intuirle, senza però avere mai una conferma delle nostre intuizioni, o congetture. Niente viene esplicitato, o rivelato, e quando qualcuno parla ciò che dice serve piuttosto a sviare che a far luce su quanto accade dietro quegli occhi, aperti o chiusi. Così Isabel mente alla sorellina Ana sul mostro di Frankenstein, e Agustìn, il padre di Estrella, ostenta durante il pranzo insieme a lei al ristorante del Grand Hotel, un’allegria fallace (?) proprio poche ore prima di togliersi la vita. La stessa Estrella elude l’ultima muta richiesta di soccorso del padre, frapponendo fra i due parole che non sono neppure insincere, però inette a stabilire un contatto fra i due, un ponte sul quale incontrarsi e stringersi in un abbraccio salvifico (per lui).
Un altro aspetto peculiare di questi film, ciò che li rende così ‘naturali’ (nel senso di qualcosa che è proprio così, per tutti, nella realtà di tutti i giorni) sono i momenti in cui due o più personaggi comunicano fra loro senza parlarsi, senza neppure guardarsi, talvolta. In El Sur, Estrella manifesta il suo disagio e la sua contrarietà nei confronti della piega che hanno preso i rapporti all’interno della famiglia, nascondendosi per un giorno intero sotto il tetto, e il padre, che ha bene intuito il senso del gesto della figlia, batte ripetutamente – con una cadenza evidentemente ricercata e ‘pregnante’, un po’ come un telegrafista – con la punta del bastone sull’assito della mansarda che si trova sopra la stanza di lei. Così la figlia capisce che lui ha capito, anche se non può far niente per risolvere quel disagio, quelle problematiche, ma l’ha capita, e in questo modo anomalo essi comunicano i rispettivi stati d’animo. Nello stesso film la bellissima sequenza del sopralluogo di Agustìn come rabdomante sul campo in cerca dell’acqua: la figlia sta dietro al padre, non si vedono in faccia, ma comunicano attraverso il peso delle monete che lei gli posa in mano, fino a quando il pendolo che lui tiene sospeso si ferma, una volta raggiunta la falda sotterranea. O quando lui, prima di andarsene per sempre, saluta la figlia per l’ultima volta lasciando sotto il suo cuscino, mentre lei sta dormendo (emblematico che sia così, che abbia cioè gli occhi chiusi, mentre al ristorante erano bene aperti, ma in verità inetti a vedere cosa stava accadendo, a leggere nel suo animo turbato) quello stesso pendolo.
In altri casi, ogni comunicazione è impossibile, non c’è neppure l’intenzione che si verifichi, e allora lo sguardo (di Ana) è fisso nel vuoto, rivolto per ore verso le fiamme del fuoco usato dalle più grandi per un gioco pericoloso che lei forse non capisce, ma teme, mentre ne è attratta irresistibilmente. In quello sguardo, sul quale la mdp indugia, si intuisce l’intensità di quanto sta accadendo in uno spazio interiore il cui accesso ci è precluso.
E neppure è possibile per la bimba resistere all’espressione dura e autoritaria del padre quando la sorprende all’uscita dalla stalla dove lei non ha più ritrovato il ‘suo’ fuggiasco, ma soltanto tracce del suo sangue ancora fresco. Non le resta che fuggire, non sa neppure dove, lontano da tutti e da tutto, fino a cedere alla stanchezza al riparo di un’antica rovina, dove verrò ritrovata dal cane di famiglia (chissà, forse perché il suo modo di comunicare non è verbale, ‘civilizzato’, ma piuttosto sensoriale, quindi naturale).
Si potrebbe allora dire che tutto il cinema di Erice si fondi sulla ricerca da parte della mdp – occhio nascosto e onnipresente – di un varco anche minimo per provare ad entrare in quegli spazi chiusi e inaccessibili (anche, forse, per lo stesso autore). Tentativo inevitabilmente destinato a fallire, che ci porta comunque molto vicino a quella soglia, indicata dal temporaneo prevalere di un prolungato profondo silenzio, o da due occhi, a volte aperti altre volte serrati.


Il treno nei due film è (come anche nella realtà) sempre fatale, inesorabile, un’entità maestosa e spietata che impaurisce, protagonista anche quando non appare come forma tangibile. Lascia cadere mentre è in piena corsa, come sputandolo, il fuggiasco (evidentemente un repubblicano anti-franchista); parte appena prima che Agustìn si svegli e possa salirci sopra per fuggire (in cerca di Irene Rios, forse); raccoglie le lettere della moglie dell’apicoltore a un amante, e lei deve sbrigarsi con la bicicletta per arrivare in stazione prima che parta (e in quei pochi minuti assistiamo agli sguardi insistiti e intensi che scambia con un ignoto soldato sul treno, silenzioso); corre fischiando verso Ana che indugia nei pressi del binario, affascinata, e si ridesta soltanto quando la sorella Isabel urla il suo nome, facendola arretrare appena in tempo; saluta da lontano con un fischio, non visto, la riapertura degli occhi di Ana mentre è in piedi sul balcone – fuori è notte – aspettando fiduciosa che riappaia lo spirito, il mostro, il fuggiasco che aveva amorevolmente accudito.

comunicare

La comunicazione ora è intesa come la trasmissione di qualcosa, un pensiero, un messaggio, un editto, un ordine eccetera. Un processo distanziato da chi vi partecipa, che non ci mette niente di suo, semplicemente trasmette, ecco, comunicare è diventato sinonimo di trasmettere. Quando ero molto giovane, ricordo come in certi ambienti che frequentavo, che avevo scelto di frequentare, spostandomi dal luogo in cui abitavo e vivevo, comunicare era tutt’altro, significava stabilire un contatto con qualcuno, incontrarlo, dirgli qualcosa in prima persona, soprattutto qualcosa che sgorgava dall’interno di una persona, parlando con un’altra persona. Ora invece la comunicazione avviene sempre più asetticamente, senza coinvolgimento personale: si passa la parola, che arriva da chissà dove, una parola che non ci appartiene – e ce ne liberiamo subito, trasmettendola –, perché non è sgorgata da noi, in un certo momento, trovandosi a parlare con qualcuno in grado di ascoltarci. In quei fortunati casi invece, il flusso è talmente favorito da questa situazione, da non interrompersi mai per molto tempo, anche ore, durante il quale due persone comunicano, ovvero creano insieme un sistema effimero e transeunte, assolutamente non preparato, che a malapena potrebbe essere trascritto, semplificandolo e quindi impoverendolo.
Ora pare che le fonti siano prosciugate, non sgorga più acqua, non zampilla improvvisa nella conversazione, soprattutto ora, quando è diventato arduo stare insieme tranquillamente, senza sottostare ad obblighi sine qua non, che irrigidiscono le situazioni, le cristallizzano, soffocando la nostra voce e il nostro pensare, il pensare creativo che alla parola detta è strettamente connesso, stabilendosi fra i due termini un rapporto osmotico (v. Kleist, Sulla graduale produzione dei pensieri durante il discorso).

[scritto il 12 giugno 2020]

William Bendix fan club

Nel cinema americano degli anni ’40 e ’50, soprattutto in quello cosiddetto noir, non raramente ci si può imbattere nel faccione inconfondibile di William Bendix, quasi sempre in ruoli di gangster duro e brutale1, talvolta con manifestazioni sadiche, come in The Glass Key – quando ostenta il suo selvaggio compiacimento nel torturare Alan Ladd, anche con qualche sfumatura omo-erotica – o come quando, in The Dark Corner, per vendicarsi schiaccia la mano di Mark Stevens a terra privo di sensi, dopo che lo aveva cloroformizzato. Eppure, questi atteggiamenti non lo rendono antipatico, e neppure troppo sgradevole, anche se la sua presenza non ha niente di attraente, e soprattutto non traspare in lui nessuna intenzione di apparire tale. Lui è così, grosso, sgraziato, sopra le righe, e non lo nasconde proprio, se ne frega dell’opinione degli altri, anzi, sembra fregarsene perfino del pubblico in questo suo mostrarsi così com’è, privo del minimo infingimento. Proprio perciò, probabilmente, piace, più è cattivo e scorretto e più piace, perché si capisce che lui deve essere così, quindi che non recita, non sembra nemmeno un vero ‘attore’, tale è il suo realismo nelle mosse e nelle battute di dialogo. Quando appare al centro dell’azione, grosso e tozzo com’è, riempie lo schermo, come si dice, calamita l’attenzione dello spettatore, che ne percepisce la presenza proprio fisica, quasi ne sente l’odore – certamente forte, umano, e si vede che sta realmente sudando – e istintivamente sta in guardia, intuendo che da un momento all’altro lui può fare qualcosa di particolarmente eclatante e pericoloso, oltre i limiti. Certi particolari poi rafforzano questa impressione, ad esempio la sua capigliatura, ricciuta e folta: quando si batte con qualcuno, oppure dopo aver fatto qualcosa di veramente eccessivo, un omicidio ad esempio, c’è sempre un momento in cui si rialza e subito sistema di nuovo al suo posto un lungo ciuffo che si era scomposto nell’azione. È qualcosa di stridente rispetto alla maggioranza degli altri attori, sempre ben pettinati, sempre vestiti nel modo giusto, composti anche quando si picchiano con qualcuno. Anche i suoi vestiti sono un po’ così, eccessivi e smodati, ad esempio il completo bianco che indossa – deliberatamente, per essere notato – quando pedina Bradford Galt / Mark Stevens. Dopo l’involontario rovesciamento del calamaio, questi, stizzito, con un gesto volgare e arrogante si pulisce la mano sporca d’inchiostro sulla giacca bianca di Bendix, che pure non reagisce, limitandosi a osservare, interdetto. Ma un breve lampo nel suo sguardo incredulo ci fa capire che il gesto, così come tutto il comportamento aggressivo del rivale, non gli sono proprio piaciuti e prima o poi si vendicherà. Ciò che succederà infatti quando schiaccia, con visibile compiacimento, la mano di Stevens svenuto a terra, prima di eclissarsi dal luogo del delitto2.
Pare che più di una volta Bendix abbia dichiarato il suo scarso coinvolgimento nella professione dell’attore, qualcosa da fare giusto per intascare il compenso, e poi subito pronto a calarsi con noncuranza in un nuovo ruolo, con un atteggiamento da proletario, da manovale senza fisime. Un blue collar come dicono gli americani: gente che si sporca le mani, l’opposto dei white collar, gli impiegati sempre vestiti in modo formale, che guadagnano di più e non si sporcano mai le mani lavorando. Bendix sembra veramente uno di loro, un blue collar – e non mi risulta abbia mai impersonato un ‘colletto bianco’, gli sarebbe stato impossibile –, ciò che induce nell’errore di credere a quelle sue parole, di credere cioè che non sia un vero attore. In realtà si tratta di un eccellente attore, sempre privo di smancerie, inetto al birignao, perfino misurato nella sua smisuratezza. Infatti, non atteggia mai o quasi mai il volto a smorfie o atteggiamenti ‘attoriali’, usando soprattutto gli sguardi e le movenze del suo corpaccione, e quella voce inconfondibile, tutto meno che coltivata e artefatta, che è indispensabile ascoltare com’è, quindi non doppiata, per apprezzare completamente la maestria sprezzata, noncurante, di questo grande, inimitabile attore.

1 L’eccezione che viene subito in mente è quella di Lifeboat, il film di Hitchcock ambientato su una lancia piena di naufraghi dopo l’affondamento di una nave da parte di un sommergibile tedesco. Qui peraltro, nella parte di un brav’uomo molto sfortunato e altrettanto altruista, vien fuori meglio la vera natura dell’uomo Bendix, descritto da tutti come una persona positiva e gradevole, alieno rispetto a certi canoni hollywoodiani al punto di rimanere per tutta la vita sposato, dall’età di 21 anni, con un’amica d’infanzia.

2 La scena, una delle due del film in cui i due si confrontano, apparendo insieme per alcuni minuti, è molto eloquente nel farci vedere come tra i due il più bravo sia senza dubbio Bendix, che si muove pochissimo quasi limitandosi ad osservare, perfino con un certo distacco, le mosse di Stevens. Che è – qui come in tutto il film – artificioso, affettato, già a partire dalla voce, che sono sicuro abbia contraffatto, malamente, per sembrare più duro e più amaro. Invece Bendix è Bendix, e senza apparentemente impegnarsi esce vincitore dal confronto attoriale; e noi – per me almeno è stato così – sotto sotto stiamo più con lui, dalla parte del cattivo, piuttosto che da quella del presunto buono (in verità alquanto antipatico, e ben poco plausibile) Stevens. Lo stesso regista Hathaway dichiarò la sua delusione per la scelta di questo attore, a suo parere il punto debole del film.