Come si è arrivati a questo punto

Ha ancora senso esporre1 un’opera d’arte, cosiddetta? E se sì, deve essere per forza in un luogo deputato, al chiuso, asettico e depurato? Un luogo dove si deve andare, lo si deve raggiungere sapendo che una volta arrivati ci troveremo delle opere d’arte, oppure una performance.
È stato così per lungo tempo, a partire da un certo periodo, ma prima non era proprio la stessa cosa, c’erano altri modi di proporre le opere d’arte visiva, ad esempio nelle chiese, oppure nelle piazze o in altri luoghi pubblici, e allora era anche possibile imbattersi in esse, senza averlo voluto fare e senza neppure averlo previsto (quindi senza aspettative, e sorpresi da esse, spesso). Ma ora, già da un paio di secoli (con i Salons parigini), esistono certi luoghi deputati, dove si mostrano le opere d’arte. Sappiamo bene cosa è successo in seguito, la nascita delle gallerie vere e proprie, con tutti i comportamenti, o riti – di natura prettamente borghese – che sono venuti come conseguenza (orari di apertura, inaugurazioni, ecc.). Poi, nel secondo dopoguerra, soprattutto negli Stati Uniti, l’utilizzo di certi spazi ex-industriali, quindi atipici rispetto alla norma, in termini di vastità e di volume degli spazi; un uso che si estese ben presto anche all’Europa e che favorì ovunque lo sviluppo di certe modalità realizzative, con opere bi o tridimensionali, e poi le prime installazioni, cosiddette. Ma questa tendenza, nella sua fase iniziale, essendo spontanea, aveva una sua freschezza e autenticità, qualità che si persero quando certi spazi vennero via via ‘normalizzati’, ripuliti e resi sempre più asettici, ad esempio con la consuetudine sempre più adottata del colore grigio dei pavimenti e del bianco delle pareti, fino ad arrivare allo stravolgimento (o aberrazione) del cosiddetto white cube, che operò il definitivo estraniamento – dopo l’esordio dei Salons – dell’arte dalla vita reale, che si svolge, imprevedibile e scarsamente controllabile, all’esterno di certi luoghi.
Ecco, io trovo che dare ora per scontato – come si fa da parte di quasi tutti– che l’arte visiva debba trovarsi lì dentro, ripetendo usi e clichè in atto ormai da decenni e quasi immutati, è qualcosa di pernicioso, perché si tratta di una non scelta, un comportamento acritico e oggettivamente passivo, che perpetua uno status quo ormai da tempo svuotato di senso. Anche perché nel frattempo, mentre si assisteva al progressivo imporsi, quasi incontrastato, del white cube, e al proliferare delle gallerie e dei musei (o non-musei, ovvero non più luoghi di conservazione ma molto spesso di intrattenimento) fino alla definitiva aberrazione delle fiere d’arte, si verificavano anche altri fenomeni, che avrebbero dovuto aprire gli occhi a molti sui rischi legati al prevalere del cosiddetto sistema dell’arte, proponendo alternative inusitate e soprattutto credibili. Dapprima le esperienze di artisti illuminati, e soprattutto coraggiosi, che presero a ignorare i luoghi deputati per dare forma ad ‘azioni estetiche’, molto spesso effimere, là fuori nel vasto paesaggio, lontano anche dalle città, non soltanto dalle gallerie e dai musei. E a partire dai primi anni ’70, gli happening e le performance, che potevano avere luogo ovunque, e soprattutto in maniera imprevedibile, spesso quasi di nascosto, imitando analoghi fenomeni attuati nel mondo naturale altro dall’uomo da parte di animali, piante o fenomeni atmosferici. Non era neppure raro che una performance non avesse spettatori, o ne avesse pochissimi, magari uno soltanto (vedi il caso di Tehching Hsieh e delle sue performance la cui esistenza era attestata da un solo testimone, che ne garantiva la veridicità2). Ma sempre esse avvenivano senza preavviso o quasi, ovunque, e spesso era perfino difficile capire che si era in presenza di un tale evento, che iniziava improvviso e finiva anche allo stesso modo, e il performer – generalmente, ma non sempre, lo stesso autore – poteva sparire alla fine, senza neppure aver stabilito alcun contatto con i presenti. Quella era una direzione giusta da seguire, sviluppandola, essendo materiata e attuata all’insegna dell’imprevedibilità, dell’incertezza, e soprattutto avendo una natura effimera e transeunte, dato che spesso non lasciava neppure alcuna traccia di quanto era appena accaduto. Come accade quando siamo testimoni – o compartecipi – di un evento naturale che ci coglie improvvisamente, inatteso, mentre siamo occupati a fare qualcosa, camminando, guardando fuori dalla finestra, mangiando o bevendo qualcosa stando seduti a un tavolo, o qualsiasi altra attività che ci tiene impegnati in una azione di routine. Certamente, il ‘difetto’ (rispetto alle regole del mercato, tutto fondato sulla commercializzazione di oggetti) di certe performance o azioni all’aperto o comunque al di fuori da musei o gallerie, stava proprio in quella che era la loro reale qualità precipua, la non oggettualità, che le rendeva, appunto, inadatte a uno sfruttamento commerciale, a differenza di quadri e sculture. Ma si capì ben presto come aggirare l’ostacolo, documentandole con foto o video, quindi oggetti commerciabili, che mantenevano sì un legame con l’azione da cui provenivano, ma erano bensì altro da quella, essendosi raffreddate e cristallizzate. Ancora peggio, in tempi più recenti, è stata l’omologazione, o normalizzazione, delle performance, che vengono annunciate spesso con largo anticipo, comunicandone il titolo, quindi l’ora di inizio, poi la durata, e infine, addirittura, una loro sinossi (come per un film), in grado di togliere loro ogni residuo di imprevedibilità e privandole della proprietà di sorprendere, di inquietare anche, e di operare un effettivo sovvertimento della routine che attanaglia quotidianamente, in modo pressoché ineluttabile, tutti. Tutto ciò che era programmatico, si può dire per definizione, in tutte quelle performance e quegli happening pionieristici, che spesso non venivano neppure documentati e il cui ricordo, spesso e volentieri, sopravviveva soltanto nella memoria dei presenti quel giorno mentre accadevano.

Baudelaire e altri suoi sodali Decadenti (cosiddetti), come si sa, coniarono l’espressione épater la bourgeoisie, per significare l’urgenza e la necessità ineludibile di sovvertire l’ordine borghese precostituito, scandalizzando i suoi rappresentanti. Che in effetti andavano su tutte le furie di fronte a certe provocazioni, almeno fino al primo dopoguerra, grazie all’azione delle avanguardie artistiche attive nei paesi europei preminenti. Poi qualcosa cambiò, i borghesi iniziarono a trovare aspetti eccitanti in certe manifestazioni, e smisero ben presto di scandalizzarsi, trovando in esse occasioni atte a distrarli dal trantran quotidiano, casa-ufficio-chiesa, interrotto da qualche rara occasione festiva. Contemporaneamente si capì che certe opere d’arte visiva, che pure nelle intenzioni degli autori dovevano provocare un effetto (blandamente) turbativo dell’ordine borghese, dopo essere state accettate e metabolizzate dalla borghesia stessa potevano anche acquisire un valore venale. Iniziò così a prendere piede il fenomeno del collezionismo, attività quasi esclusivamente esercitata da persone abbienti, con un surplus di denaro che poteva essere speso per generi voluttuari o per cose apparentemente del tutto inutili, come appunto le opere d’arte. Si sa come sono poi andate le cose, e ormai da decenni l’arte visiva, quella più fragrante, più ‘nuova’ (almeno apparentemente) si potrebbe dire venga realizzata proprio per arrivare a quei rappresentanti della borghesia abbiente, professionisti (medici, avvocati, notai, eccetera) che, siccome si annoiano, oppure svolgono professioni redditizie ma sgradevoli, dapprima possono distrarsi, e magari provare un piccolo brivido ammirando certe opere, e poi, dopo averle acquistate, le trasformano in capitali, spesso più sicuri di quelli tradizionali, come la cartamoneta o le azioni. Un circuito chiuso sempre più irrigidito ed esclusivo, un vero e proprio sistema di potere in grado di svalutare e sminuire sempre più le qualità spirituali (quando ci sono) delle opere d’arte mentre potenzia quelle mondane, prosaiche, come può essere appunto il loro valore economico, stabilito dal mercato – espressione identificativa e diretta di quel sistema. Il quale agisce di concerto con le istituzioni museali, strumentalizzandole, proprio per aumentare il valore delle opere, grazie al lavoro indefesso di una moltitudine di professionisti del campo, non soltanto i galleristi, ma anche e soprattutto, si direbbe, i curatori, i critici, i direttori di museo.

Con progetti come campo volo [v. qui], ad esempio, e poi La collera delle lumache [v. qui], si è cercato di restituire ad eventi generalmente consumati e devitalizzati dall’abitudine, certe caratteristiche di imprevedibilità, prima, e di volatilità, durante, atte a suscitare una curiosità preventiva, quindi a innescare un senso di attesa, infine stimolando la massima attenzione nel corso dell’evento. Quando chi è presente sa bene che esso non verrà ripetuto, che quella cosa, quelle cose, si vedranno soltanto quell’unica volta, per due ore, due e mezza al massimo, e poi mai più. Tentativo quasi sempre riuscito, anche se alcune volte volte meglio di altre. Non è moltissimo, forse, ma già qualcosa: il luogo espositivo – chiamiamolo così per semplificare – subiva in quelle occasioni un positivo effetto di rivitalizzazione, diventava meno sicuro e prevedibile, come un qualcosa di ignoto a cui avvicinarsi con cautela e una certa circospezione, quasi pericoloso, in un certo senso. Per una volta non ci si andava tanto per obbedire a una routine, aspettandosi le stesse cose di sempre, da esperire attraverso gli stessi, abusati meccanismi di fruizione e percezione. Non c’era più molto di scontato, si sapeva soltanto il nome dell’artista, o degli artisti, nient’altro, a parte l’indirizzo del luogo, il giorno e l’ora.
Perché è così, il mondo dell’arte non è diverso da tutto il resto, in questa società. Dove tutto deve essere regolato, controllato, scandito da orari e da comportamenti all’insegna della consuetudine, della ripetizione indefinita degli stessi riti, degli stessi gesti. Ciò che accade con il linguaggio stesso, parole che si sovrappongono alle cose, ovvero si frappongono fra noi e quelle, rendendole inaccessibili, incorporee anche quando sono davanti a noi, a pochi passi, ma irrigidite come cadaveri. L’arte occupa una casella all’interno di un sistema bloccato, immobilizzata lì per poter essere manipolata e strumentalizzata come si fa con le cose inanimate, o con certi animali domestici. E il suo compito parrebbe essere quello di indurre nelle persone che ne “fruiscono” (brutta parola ma rende l’idea, in un mondo in cui si dà per scontato che si facciano le cose sempre e soltanto per trarne un piacere – meglio se consolatorio –, strumentalmente quindi) la stessa condizione di immobilità, la stessa attitudine ad essere controllate, manipolate, sempre più private della propria indipendenza, della propria libertà di agire e di pensare in modo autonomo, svincolato da quella morsa. Si applica a tutto l’etichetta ‘arte contemporanea’ – un’espressione che non significa niente – e da lì in poi tutto va bene, si va lisci come l’olio: gli spazi espositivi tendono a somigliarsi tutti, le cose esposte sembrano essere state appena estratte da appositi scaffali, sono copie di prototipi creati decenni fa, nei casi migliori appena un po’ modificate, giusto per dare loro una parvenza di novità. Non accade mai niente di nuovo, e come potrebbe? Il contenitore è quello, le formule sono sempre le stesse, il linguaggio poi è l’aspetto peggiore, gestito com’è da professionisti3 che, con un comportamento ottuso e corrivo, utilizzano certi termini in modo pedissequo, acriticamente, soprattutto per guidare il pubblico, portandolo per mano lungo sentierini lastricati e accuratamente spazzati, come se ne vedono attorno a certe villette asettiche e fatte in serie. Si vuole soprattutto, sempre, omogeneizzare (come con i cibi per i neonati, per renderli più facilmente digeribili), normalizzare, togliere ogni asperità, ‘spiegare’ sempre tutto, quindi togliere mistero. Il risultato di tutto questo insano fervore è la chiusura mentale causata dall’assuefazione a praticare certi luoghi partecipando ai riti vacui e immutabili che vi vengono celebrati, diventando così, quasi sempre senza rendersene conto, oggettivamente conniventi.
Come è possibile perpetuare questo andazzo? Perché sentire il bisogno di andare all’ennesima inaugurazione, per vedere cose già viste e straviste, ascoltare sempre le stesse frasi insulse? Sì, certo, si vede gente, si possono combinare cose, allacciare relazioni, ma cosa c’entra l’arte con tutto questo4? Proprio niente, quasi sempre, e le eccezioni sono del tutto inconsistenti, non possono spostare i termini della questione.

(ho iniziato a scrivere questo testo lo scorso 29 aprile, chiudendolo infine, dopo alcuna integrazioni e mofifiche, oggi 13 ottobre)

1 Il dizionario online Oxford Language, come prima definizione del termine dà: Offrire alla vista o all’attenzione altrui, mettere in mostra. “esporre la merce in vetrina”. L’esempio indicato è altamente significativo, direi.

2 Fa eccezione quella, durata un anno come le altre, che vedeva Hsieh vivere costantemente all’aperto, fuori da qualsiasi spazio chiuso. In quel caso, molti, anzi moltissimi, avendo la performance avuto luogo a New York, lo videro, ma nessuno sapeva che lui stesse eseguendo una performance.

3 Un certo professionalismo (una stortura che Ivan Illich aveva ben individuato già diverse decine di anni fa, scrivendo sull’argomento pagine molto efficaci) è la vera piaga del mondo dell’arte attuale, o meglio, degli ultimi trent’anni almeno. Curatori, direttori di museo, galleristi, editori ‘specializzati’ (con i loro stolidi e perniciosi editors), fotografi, allestitori, e last but not least, gli stessi artisti, o presunti tali. Molti dei quali troppo spesso ‘si adeguano’, obbedendo a qualsiasi diktat, anche i più scomodi, e adattando il proprio lavoro in modo da conformarlo agli standard richiesti dal sistema, per non essere ‘cacciati dal tempio’ e avere anche loro almeno un piattino di minestra. Ovvero, la possibilità di partecipare a una collettiva di una certa risonanza, se non addirittura di fare una personale in galleria; ma anche per essere inseriti in una pubblicazione di settore, o perfino avere un’opera nello stand di una fiera. Insomma, tutto è possibile, tutto è lecito, pur di ottenere “visibilità”.

4 Domanda che ne provoca quasi in automatico un’altra: ma che cos’è l’arte?

Terra in cielo


Nel taoismo il Cielo (天 Tiān) è considerato il luogo del continuo, incessante mutamento delle cose. Quando nel 2009 Alndrea Caretto e Raffaella Spagna allestirono Soil Practice sul terrazzo di blank si poterono concretamente vedere, durante i cinque mesi di durata dell’installazione, gli effetti dell’azione celeste. Data la posizione del sito, aperto su tre lati ed esposto all’azione di sole, vento e pioggia, un numero incalcolabile di semi, provenienti soprattutto dai due viali alberati nelle vicinanze, trasportati dal vento lo sorvolavano, e una parte si posò sulle varie aiuole e sulle zolle inserite nel pavimento. Dove crebbero senza posa, giorno e notte – la stagione, da aprile a settembre, è la più propizia – e infine, divenute ormai piante rigogliose che non potevano più stare nelle vasche metalliche, vennero tolte da Andrea e Raffaella per essere portate in aperta campagna, dove avrebbero continuato a crescere liberamente, ancora mutando, incessantemente, secondo la regola del cielo.
In quei cinque mesi, ogni volta che salivo i due scalini per uscire sul terrazzo dove Soil Practice stava vivendo la sua breve intensa vita, subito dopo avervi messo piede era già cielo.

(ho scritto questo testo a novembre del 2023 rispondendo a una richiesta degli amici Raffaella Spagna e Andrea Caretto, che stavano allora preparando il loro libro Bright Ecologies, recentemente pubblicato; sul quale libro il testo compare in una forma parzialmente – e arbitrariamente, senza il mio consenso – modificata da chi ha curato la pubblicazione)


POSTILLA

Era stato uno dei miei pochi dubbi: ciò che dovevo mettere dopo il punto in fondo al terzo periodo, quello chiuso da “…nel pavimento”. Inizialmente avevo messo “Lì”, ovviamente per ‘scavalcare’ “nel pavimento” e collegarmi alle “aiuole” e alle “zolle”. Ma non ne ero molto convinto, perciò optai, definitivamente, per l’avverbio “Dove”, che secondo me assolveva ottimamente tale funzione. Fra l’altro, a mio parere, con quel “Dove” in qualche modo riuscivo ad agganciarmi a tutto, ovvero a zolle, aiuole e pavimento, perché quello era il luogo di Soil Practice, un tutto organico, un sistema creato a organizzato proprio lì, che prendeva lo spazio occupato da ogni piastrella come modulo per le parti che vennero inserite nel pavimento: due zolle, un’aiuola di terra sterile, una vasca piena d’acqua e un grande mucchio di terra arata.
Questa è la motivazione che mi spinse a fare certe scelte, in accordo col mio modo peculiare di organizzare i testi che scrivo, quasi sempre molto brevi: scegliere con cura le parole e la punteggiatura per fare in modo che il testo risulti una sorta di luogo unico, dove tutto ha un suo preciso senso. Un po’ allo stesso modo si costruisce una casa: le fondamenta prima, poi i muri maestri con porte e finestre, quindi il pavimento, o i pavimenti, e i muri divisori, infine il tetto. Ogni elemento nel suo posto, a svolgere la sua funzione essenziale, coordinata con quelle svolte da tutti gli altri.
Per chi ha letto i miei testi, anche soltanto una parte di essi, ciò dovrebbe risultare chiaro, per gli altri può essere più difficile. Ma è purtroppo impossibile che chi si muove da sempre all’interno di un sistema chiuso e ripetitivo come quello della cosiddetta arte contemporanea, abituato a utilizzare un proprio gergo ‘professionale’ e a servirsi di schemi mentali e linguistici rigidi, possa entrare in sintonia con il mio modo di scrivere e quindi con questo testo in particolare. Ci vorrebbero umiltà, sensibilità, apertura mentale, elasticità, e quando queste qualità vengono tutte a mancare la possibilità di entrare in sintonia con il mio testo non può verificarsi.
Ma ritorniamo alla questione cruciale: perché “Dove” e non un altro avverbio, come “Qui”. C’è anche un altro aspetto molto importante per me, almeno quanto quelli appena esposti. Bisogna considerare la natura particolare del testo Terra in cielo, scritto di getto e sorretto da un tono in bilico fra prosa e poesia, vagamente arcaico, ma anche gestuale, selvatico, che troverebbe la sua dimensione naturale in una lettura ad alta voce. Così, dopo aver accertato che sul piano semantico “Dove” funziona mentre “Qui” non funzionerebbe, si deve tener conto di un altro elemento in gioco: il suono. La ‘d’ di “Dove” è dura e forte, la si sente infrangersi contro la dentatura anteriore, soprattutto quella posta in alto, come se volesse scappar fuori dalla bocca a tutti i costi. All’opposto, la ‘q’ di “Qui” è molle, liquida, esce con facilità dalla bocca che la pronuncia perché non la forza ma la accarezza bensì. “Dove” si deve dire ad alta voce, “Qui” si sussurra, quasi lascivamente. Perciò, considerando che il punto in chiusura del terzo periodo doveva stabilire una micro-pausa (ma nell’estetica giapponese) fra quello e il quarto, la mia scelta, sicura e inderogabile, in favore di una consonante invece che di qualsiasi altra. Perché, insomma, il “Qui” ad inizio periodo indebolisce il testo, gli toglie gran parte della vitalità, appunto, selvatica, che gli volevo dare, che aveva fino a quel punto e che avrebbe mantenuto con il mio “Dove”.

18 ottobre 2024

Pubblicato in post

L’inganno

Apparentemente, grazie all’arte – quella visiva tanto quanto il cinema, la musica e la letteratura – possiamo ancora esperire dimensioni altre rispetto a quella dominante, razionale, scientista, tecnologica. Pare così possibile avere visioni o vivere esperienze straordinarie, vitali, vivere insomma come si viveva secoli fa, rischiando spesso la vita ma traendone la massima intensità.
Attenzione, si tratta di un inganno, peraltro evidente: sono surrogati di tali esperienze quelle che crediamo di vivere ora guardando un film, assistendo a un concerto o leggendo un libro, visitando un museo o una galleria. Così facendo ci allontaniamo sempre più dalla vera vita, là fuori, dove tutto continua ad accadere secondo antichissime e implacabili regole, perciò fa freddo o caldo, piove, grandina o nevica, si fa fatica, anche molta, si soffre, e proprio perciò, di quando in quando, si va in estasi.

(28 settembre 2024)

Pubblicato in post

Ho sempre saputo

ついに行く道とはかねて聞きしかど
昨日今日とは思わざりしを

I have always known
That at last I would
Take this road, but yesterday
I did not know that it would be today.


(Traduzione di Kenneth Rexroth)

Ho sempre saputo
che alla fine avrei
preso questa strada, ma ieri
non sapevo che sarebbe stato oggi.

Ho scoperto questa poesia di Ariwara no Narihira, peraltro molto famosa, grazie a Junko Wada. Si dice che sia l’ultima scritta dal poeta prima di morire, per cui egli qui alluderebbe alla sua stessa morte, ormai imminente e inevitabile. È tipica, ed esemplare, dell’approccio buddista alla vita, improntato alla consapevolezza dell’impermanenza di tutte le cose.

Pubblicato in post

Tre volte Ana

Spesso si dice o si scrive a proposito del capire un’opera d’arte – pittura o scultura, letteratura o cinema – o perfino una persona o un luogo. Capire deriva dal latino càpere, e più indietro da una parola greca, kàptein che significa ‘prendere’ o anche, dopo un tortuoso percorso fra vari idiomi nel corso di molti secoli, ‘afferrare’, quindi anche ‘contenere’ (da cui la ‘capienza’ di un contenitore).
Insomma, si cerca di prendere, afferrare, bloccare qualcosa che si muove, o che tende naturalmente a farlo, per imprigionarlo in una forma che si vorrebbe perpetua, immutabile. In verità, possiamo soltanto entrare temporaneamente in contatto – anche per un attimo – con un’opera, una persona, un luogo, in un determinato momento della sua vita e della sua storia. Rivedendoli, ritornandoci, dopo qualche tempo, non sono più quell’opera, persona, luogo, ci accorgiamo che sono qualcos’altro e non possiamo pretendere di capirli, ovvero di farli coincidere con la forma in cui ci apparvero la prima volta, e poi le volte successive. Non capire, non afferrare, non bloccare, bensì stabilire una relazione che determina in noi un’impressione, ogni volta una del tutto nuova, che aggiungendosi a tutti le precedenti contribuisce a creare un’idea, affatto multiforme e contraddittoria, di quell’opera, persona o luogo.


Verso la metà di Cerrar los ojos, un film (uscito nel 2023) di Victor Erice vediamo apparire un volto che ha qualcosa di familiare, anche se ci vuole qualche secondo per rendersi conto che appartiene ad Ana Torrent. Quegli occhi, che lasciarono un segno indelebile in chi vide il primo film di Erice, El espíritu de la colmena, non sono più così spalancati, cinquant’anni sono trascorsi, un tempo molto lungo e all’epoca lei aveva soltanto sette anni. Allora ogni loro sguardo esprimeva stupore, audacia, inquietudine e tristezza, spesso tutte queste cose insieme, mentre ora si sono stretti, come se gli fosse ormai impedito, per sempre, di spalancarsi.
Questa apparizione è uno dei primi segnali che ci mettono, io credo, sulla strada giusta per individuare il senso dell’ultima opera (finora) di Erice, che tratta del tempo, della sua azione costante e implacabile sulle persone, che cambiano esteriormente ma rimangono sempre avvinte a tutte le esperienze vissute, a tutti coloro con cui le hanno condivise, ai luoghi in cui sono avvenute. È un’opera sui legami invisibili fra presente e passato.
Anche il personaggio della Torrent si chiama Ana, come nello stesso primo film, quando aveva sette anni, e dove pure inizialmente ne aveva un altro. Ma a un certo punto durante la lavorazione Erice decise che i quattro protagonisti (Ana, la sorella maggiore e i loro genitori) si dovessero chiamare ognuno con il proprio vero nome, dopo essersi accorto che la bimba era sconcertata e confusa non riuscendo a capire per quale motivo tutti avessero un altro nome1. E così, «Yo soy Ana», dirà nella seconda parte di questo film incontrando il padre (che non la riconosce) per la prima volta dopo vent’anni. E «Yo soy Ana» aveva già detto cinquant’anni prima, nel primo film di Erice. Due volte Ana, anzi tre, perché la prima è lei, Ana Torrent, che contiene e rappresenta le altre due: come cucire insieme, con lentezza, accuratamente, tre vite – una reale e due immaginarie – nell’arco di mezzo secolo. Ma cos’è mezzo secolo? Un soffio davanti a uno specchio, che si appanna per pochi secondi. Durante i quali tutto viene ricordato, anzi rivissuto.
La Torrent stabilisce un altro legame forte fra i due film, il primo e l’ultimo di Erice, perché in entrambi chiude gli occhi – attivando un’altra vista, più profonda e più pura, soprattutto più libera, che va oltre le apparenze – e sempre in un momento cruciale. La prima volta alla fine, gli occhi della bimba chiudendosi creano una separazione fra lei e noi che la guardiamo, chiudendo di fatto anche il film. La seconda, Ana li chiude dopo aver rivisto il padre (quasi sempre assente nella sua vita anche prima) ricomparso dall’oblio dopo vent’anni, durante i quali era stato dato per morto. Perciò il titolo del film, che pure ci mostra questo gesto fatto da un’altra persona, la giovanissima figlia del vecchio ebreo nel film incompiuto di vent’anni prima (La mirada del adiós, ovvero Lo sguardo dell’addio) che apre e chiude Cerrar lo ojos, parrebbe piuttosto riferirsi ai due momenti di Ana Torrent, separati da cinquant’anni della sua vita reale e apparsi in due film di finzione.
Sembra proprio essere, Cerrar los ojos, un film su Ana Torrent, anche. Ma si deve aver visto prima di questo (o anche dopo) il primo di Erice, El espiritu de la colmena, per rendersene conto. Il cinema come registrazione del mutamento in cui incorre una persona in cinquant’anni della sua vita, dall’infanzia alla mezza età. Quindi non soltanto finzione ma anche realtà, e i due livelli – ciò che accade in questo film – si intersecano, lavorando in osmosi.

Infine, ancora una volta, ed è la terza su tre film di Victor Erice, assistiamo a una vicenda di relazione fra una figlia e suo padre. In questo caso sono addirittura due figlie e due padri, idivisi fra Cerrar los ojos e La mirada del adiós. È quanto meno possibile che questo aspetto riguardi da vicino proprio lo stesso autore, della cui vita privata, peraltro, io non so niente.

1 Qualcosa di simile accade, ad esempio, in Sotto gli ulivi di Kiarostami (incidentalmente, un autore che credo Erice apprezzi molto) e in Pane e fiore di Makhmalbaf. In entrambi, gli attori, non-professionisti che nel primo caso devono interpretare sé stessi, non riescono a fingere e si rifiutano di compiere, sia pure all’interno di un film, gesti che non compirebbero mai nella vita, e vogliono essere chiamati con il loro vero nome.

ps: ho scoperto pochi minuti fa, mentre mi accingevo a pubblicare questo testo, che nel 2011 Erice realizzò, all’interno di un progetto collettivo dedicato alla tragedia di Fukushima, 3.11, A Sense of Home, un corto di 3′ intitolato Ana, tres minutos. Ovviamente, con Ana Torrent.

Ritorno a Paris, Texas


Credo di aver visto Paris, Texas quando era uscito nei cinema, nel 1984, o forse nel 1985, dipende da quando uscì in Italia, perché credo che andai subito a vederlo. Era quello un momento topico della mia vita, quando tutto stava cambiando per me e fu come ripartire da zero. Infatti da lì in poi, proprio a partire da quell’anno, dopo la grave crisi del 1983, la mia vita fu diversa, quasi completamente (nel senso che non cambiai lavoro – anche se fui trasferito fuori Torino, in una piccola città). Vedere quel film fu un’esperienza scioccante, già a partire dall’inizio, ma soprattutto la parte finale, quella nel peep-show. Ricordo ancora bene che non riuscii a fermare le lacrime, là da solo nel cinema (non credo ci fosse molta gente, doveva essere di pomeriggio): evidentemente mi immedesimavo nella vicenda di Travis, era come se vedessi me stesso rappresentato da quel personaggio. In ogni caso, si trattò di un’esperienza così intensa, quasi devastante, psicologicamente, che decisi di non rivederlo mai più, unico fra tutti i grandi film di Wenders, diciamo fino a Il cielo sopra Berlino (tutti gli altri venuti dopo per me contano poco, molti non li ho neppure mai visti).
Questo finché qualche giorno fa, trovando su internet una versione di ottima qualità, ho deciso di scaricarla: prima o poi l’avrei rivisto. È successo ieri e mentre lo guardavo ho avuto la strana sensazione, da un certo punto in poi, che non fosse lo stesso film e soprattutto la mia percezione era molto diversa da quella di allora, per quel che mi ricordavo. In particolare, avevo completamente rimosso la figura di Hunter, il figlio di Travis e Jane, in verità fondamentale, perché senza di lui non sarebbe successo niente: ritrovandolo dopo quasi quattro anni, quasi per caso, il padre capisce, sia pure non subito, cosa dovrà fare, per il bene del figlio più che per il suo. Questa mia dimenticanza non me la so spiegare, è davvero strana, anche perché Hunter stabilisce un nesso molto importante con Alice, la protagonista (quando credo avesse la stessa età) di Alice nelle città, sicuramente uno dei film di Wenders che amo di più. Forse, chissà, me ne ero reso ben conto già allora e la cosa non mi piacque, come se ci fosse una sovrapposizione fra i due personaggi che non approvavo, per qualche motivo. Fatto sta che ieri sera mi sono dapprima stupito vedendo apparire Hunter, poco dopo l’inizio del film, e soprattutto mi sono stupito dopo accorgendomi della sua importanza nello sviluppo della vicenda (mentre da subito avevo pensato che non l’avremmo più visto, una presenza episodica e marginale, senza conseguenze). Quindi, quando ho capito che sarebbe stato al centro di tutto ciò che sarebbe seguito alla sua prima apparizione, per me è stato come vedere un altro Paris, Texas, del tutto nuovo, come se Hunter fosse stato, chissà come, infilato nel film dopo il 1984.
Perciò si è creata una strana situazione dentro di me, tornato dopo circa quarant’anni a guardare un film che mi aveva davvero sconvolto quella volta, ma che non riconoscevo, non del tutto, soprattutto a causa del bambino, che allora non c’era. E questo fatto ha determinato in me una sorta di scompenso, la presenza di una mancanza, ovvero l’assenza di qualcosa che ho perduto e non potrò mai più ritrovare.
Peraltro, non potrò mai più rivedere il film come quella prima volta, mai più provare le stesse intense emozioni (ma altre certamente sì, come ieri sera), perché non sono più quello, è passato troppo tempo e in quegli anni l’intensità delle mie esperienze era tale da non potersi realmente ricordare, o meglio rivivere, anche perché non mi è mai più capitato niente del genere, e soprattutto non potrebbe capitarmi mai più.
Ma la mia impossibilità di capire, di provare le stesse emozioni di allora, io credo vada soprattutto attribuita all’apparizione (per me è stata tale, ieri sera) di Hunter, per la sua centralità nella storia: non ho mai vissuto la sua esperienza, non posso quindi immedesimarmi in lui, come invece mi fu facile, allora, farlo con quella dei suoi genitori, soprattutto con Travis, per ovvi motivi.
Forse soltanto alla fine, quando, dopo qualche minuto di studio, di naturale esitazione, il bimbo si avvicina alla madre e finalmente la abbraccia (liberando anche lei dalla tensione e dalla paura di essere rifiutata, come castigo per la sua fuga) mi sono realmente, per qualche attimo, commosso. Ma, io credo, in un modo del tutto nuovo, ben diverso da quella prima volta.
In verità ci potrebbe essere un’altra spiegazione della mia rimozione del personaggio Hunter, e forse capisco perché non mi sia venuta in mente prima. È perché mi fa sentire molto a disagio, mettendo a nudo un senso di colpa che avevo inconsapevolmente sepolto in me per tutti questi anni.

14 settembre 2024

Parole allo sbando

Vorrei parlare di una tendenza attuale, molto diffusa, all’uso e soprattutto all’abuso di certi termini. Ad esempio, il verbo ‘declinare’, in cui mi sono imbattuto recentemente mentre leggevo la presentazione di un libro di Peter Handke: “(i suoi lavori) lo impongono prepotentemente nel panorama internazionale, declinando in una maniera particolarissima la svolta performativa e post-drammatica che segna il teatro di quegli anni.”
È l’ennesima volta che mi succede, sia leggendo sia ascoltando, e ogni volta mi blocco, perplesso. Ho fatto pochissimo latino (e anche male…) moltissimi anni fa, ma ricordo ancora bene che ‘declinare’ si usava sempre in relazione a un termine, “declinare la parola tale, o la talaltra”. In tempi assai recenti, si è iniziato a usarlo spesso e volentieri, secondo me a sproposito, come se fosse giusto e necessario farlo. Perché questo impulso così pressante? È chiaro che si tratta di una moda, ogni epoca ha i suoi termini e le sue espressioni ricorrenti. Ma consideriamo quel passaggio dalla presentazione di un libro di H.: dove sta il senso? A me sembra che questo vezzo di usare il termine in questione arrivi al punto di forzare la realtà delle cose, che infatti viene alterata dalla sua presenza. A scuola il professore ci diceva: «Declinami questa parola», ci dava un compito, e stava a noi eseguirlo, dopodiché si veniva giudicati, a seconda che lo avessimo svolto bene o male. In questo caso potrebbe sembrare (è un paradosso il mio) che qualcuno avesse assegnato a Handke un preciso compito, «Declinami, per favore, la svolta performativa e post-drammatica che segna il teatro di questi anni». O magari se lo era dato egli stesso… Ma certamente non è andata così, questa è bensì l’opinione di chi ha scritto quella nota, che forse voleva assolutamente utilizzare il verbo ‘declinare’. Io insomma dubito che Handke intendesse, programmaticamente, declinare la svolta performativa e post-drammatica che segna il teatro di quegli anni (ma sarà poi vero che ci fu questa svolta? non sono in grado di dirlo, ahimè, perciò do per vera l’affermazione): semplicemente, voleva fare qualcosa nel teatro (lui narratore) e gli venne fuori così, secondo le sue attitudini. Mentre invece quel “declinando …”, sembra attestare un’intenzione precisa e una presa di posizione deliberata. Trovo che certe affermazioni siano discutibili perché fatte a posteriori basandosi su dei documenti – dato che chi le fa non c’era allora, molto tempo fa – cercando quindi di stabilire delle linee di condotta e mettendo così in essere un’operazione assai poco convincente, perché arbitraria. “Ecco, facciamo un po’ d’ordine”, sembra pensare colui o colei, mettiamo tutto e tutti a posto, nel rispettivi cassetti, o scaffali.
Quel che voglio dire è che un termine come ‘declinare’, nelle varie forme verbali, usato in questo modo inevitabilmente stravolge il senso del contesto in cui viene applicato, che perciò in qualche modo si adatta ad esso. Ovvero, siamo noi che leggendo o ascoltando, involontariamente, a causa della presenza ingombrante e perentoria di tale termine, stravolgiamo il senso delle cose, perché altrimenti, se diamo a ‘declinare’ il suo senso appropriato, che lo riterrebbe adatto soltanto a certe situazioni (in numero assai limitato) la frase collassa, insomma perde senso.
Ma cosa realmente significa ‘declinare?

Declinare: intr. e tr. [dal lat. declinare, comp. di de– e clinare «chinare, piegare»; in alcune accezioni (v. oltre), dal fr. décliner]. – 1. intr. (aus. averea. Piegare, volgersi verso il basso; […] In grammatica, enunciare ordinatamente le forme che un sostantivo, un aggettivo, un pronome assumono nella declinazione… (Treccani)
gramm. flettere un sostantivo, un aggettivo, un pronome o un articolo secondo lo schema della sua declinazione. (De Mauro)
ma anche: rifiutare, spec. con cortese diniego: declinare un invitoun’offertadeclinare ogni responsabilità, evitare di assumerne. (De Mauro)
Declinazione: In morfologia, per declinazione si intende la flessione di un nome, aggettivo, pronome o articolo secondo il genere, il numero e il caso. Il concetto di declinazione è dunque simile a quello di coniugazione, che riguarda però i verbi. La declinazione riguarda, nella lingua italiana, solo genere (maschile e femminile) e numero (singolare e plurale); il caso viene sostituito dall’uso delle preposizioni. Vengono declinati sostantivi, aggettivi, articoli e pronomi. (Wikipedia)1.

Peraltro, ci sono tanti altri esempi analoghi, come quello di ‘resilienza’, ultimamente, a torto o a ragione, usatissimo, mentre fino a pochi anni fa appariva molto raramente. Vuol dire che determinate azioni o situazioni che definirebbe non esistevano? non si resisteva prima? non si agiva o reagiva con pazienza e tenacia trovandosi in situazioni molto difficili? Oppure ‘ricerca’, a sua volta utilizzato spesso impropriamente, come evidenziò, magistralmente, Giorgio Agamben in un suo intervento di qualche anno fa.
È il caso, questo di ‘declinare’, di un termine che da un certo momento in poi viene usato impropriamente, da un numero consistente di persone, in un modo che richiama da vicino un altro uso del tutto improprio, e frequentissimo, quello di ‘piuttosto’ («piuttosto che…»). Tendenze che nascono non si sa bene come e poi proliferano per emulazione, forse perché emanano il fascino perverso di tutto ciò che pare nuovo e inusitato, e pazienza se è privo di senso.
In verità, questa è una di quelle parole il cui senso originario è stato stravolto e sostituito da un altro, vago, che viene legittimato, attraverso un uso intensivo e diffuso, dagli appartenenti a una determinata cerchia. Chi non vi appartiene e legge correttamente il vero senso del termine non capisce, e viene perciò escluso dalla cerchia, finché non deciderà di stare al gioco e fingerà a sua volta di capire. È insomma un caso emblematico di come si possa formare una ideosfera2, ovvero un ambito esclusivo all’interno del quale una comunità di persone si esprime e comunica utilizzando un gergo che non ha cittadinanza al di fuori di tale ambito. Ma il fatto di parlarlo e usarlo nella scrittura determina di fatto una divisione netta fra chi sta dentro e chi sta fuori. È una cosa che aveva bene intuito decenni fa Ivan Illich quando parlava del potere già allora sempre più soverchiante dei professionisti, ovvero degli specialisti che si organizzano in cerchie esclusive in cui ci si esprime, appunto, con un gergo comprensibile soltanto a loro, e che diventa così uno strumento di potere utilizzato per stabilire delle gerarchie fra loro, i professionisti, e gli altri, gli esclusi, spesso anche subordinati, in vari modi.
Lui parlava soprattutto di medici, insegnanti, ingegneri, esperti dell’assistenza istituzionalizzata; in questo caso si tratta di ambiti inerenti a un sapere specialistico, come la critica letteraria e artistica, quest’ultima relativa alla cosiddetta arte contemporanea, dove fra le altre cose ormai si parla quasi esclusivamente la lingua inglese, quella del potere politico-economico globale. A cui peraltro effettivamente pertiene tale ambito professionale.

1 Riporto soltanto alcuni esempi, ma in realtà non sono riuscito a ritrovare neppure un’affinità con il senso di uso corrente del termine in alcun dizionario consultato, anche fra quelli ‘tradizionali’, cartacei, indisponibili online.

2 Ho trovato il termine all’interno di un libro che raccoglie gli atti di un corso di Roland Barthes sul cosiddetto ‘neutro’ (Le neutre). Spero di averlo usato in questo testo con sufficiente proprietà.

Pubblicato in post

Il primo suono

Verrà il tempo in cui tutti si comporteranno come folli e vedendo qualcuno non comportarsi allo stesso modo gli daranno contro dicendo: «Sei matto!», – perché lui non è come loro. (Sant’Antonio del Deserto)

Subito dopo la rovinosa caduta dell’aerostato, un cavallo a terra si gira sulla schiena e scuote le zampe in aria, come esultando.
Sui due lati del fiume: da una parte, in primo piano, i tre monaci, dall’altra i soldati-sgherri che procedono lentamente a cavallo nella stessa direzione; su un cavallo, appoggiato come un sacco, braccia e gambe distese, sta il buffone, appena picchiato.
Mentre Andrej (Rublev) e Danil discutono stando su una strada che si estende a perdita d’occhio nella pianura, circondata da campi fioriti, si vede in lontananza arrivare un cavaliere. Loro continuano a discutere, piuttosto animatamente, e a un certo punto il cavaliere gli passa accanto, galoppando di gran carriera. Nonostante le nostre aspettative, lui sembra non avere niente a che fare con loro, come passando di lì per puro caso (e loro stessi non lo degnano di un’occhiata).
Nel fiume, la donna nuda nuota verso una possibile libertà, passando vicino, quasi incrociandola, alla barca con sopra Rublev, che non si gira a guardarla. La mdp la segue ancora per un po’, tralasciando la barca, lei continua a nuotare, finché esce dall’inquadratura una volta per sempre.
Andrej e Foma sono nel bosco, discutendo, e d’un tratto vediamo una biscia entrare nell’acqua. Poco dopo Andrej, che l’ha vista, chiama l’altro per mostrargliela, parla sottovoce e sorride.
Ruscello inquadrato subito dopo la morte di Foma, colpito da una freccia quando si credeva in salvo, dopo essere fuggito da Vladimir; una carrellata lenta da destra verso sinistra.
Ma già prima, alla fine dell’aggressione nel bosco (accecati degli artigiani che avevano lavorato nella casa del Duca lasciandolo insoddisfatto) si vede una sequenza simile, inquadrato il ruscello mentre qualcosa di bianco – forse latte, o piuttosto colore? – si diffonde lentamente nell’acqua.
Il viso di Duročka inquadrato col teleobiettivo mentre la campana oscilla; lei sorride dolcemente subito dopo il primo rintocco.
Quando la campana finalmente suona, e poi continua a farlo, nel generale tripudio, Boriska e tutti i lavoranti rimangono silenziosi, sfiniti, con un’espressione grave nello sguardo: se non avesse suonato ci avrebbero rimesso la testa, questione di un attimo, bastava che il primo rintocco non si verificasse, che non si udisse alcun suono.
Infine, subito dopo la rassegna di icone, i quattro cavalli sulla riva del fiume, visti da lontano, sfocati, mentre riposano, liberi. Intanto la pioggia cade su di loro, noncuranti.

Credo che la parte della campana (ottava e ultima del film, introdotto da un prologo e chiuso da un epilogo) sia la più intensa, la più commovente e travolgente che abbia mai visto al cinema. Ovviamente anche ciò che la precede è di alto livello, nonché essenziale per apprezzarla compiutamente; ma questi quaranta minuti circa rasentano la perfezione1, raggiunta nei pochi attimi prima del primo rintocco e poi immediatamente dopo (il sorriso di Duročka colto con una zoomata che si infila fra i tralicci e le corde della struttura che sostiene la campana). Ma il vero culmine, per me, il momento in cui mi arrendo completamente – si potrebbe dire che mi inchini, ciò che in verità ho fatto l’altra sera, spontaneamente, rimanendo in ginocchio davanti allo schermo per quasi tutta la durata dell’episodio – travolto dalla commozione e dall’entusiasmo insieme, è quando Boriska, accasciato a terra in lacrime, confessa ad Andrej, che lo ha preso fra le braccia per consolarlo, di avere agito completamente ‘senza rete’, millantando di conoscere il segreto della fusione appreso dalle labbra del padre morente. «Quel bastardo non me l’ha voluto dire, se l’è portato nella tomba!», dice fra i singhiozzi. Improvvisamente tutto ci appare in una luce nuova, una luce fortissima che cade su tutto quanto ha preceduto quel momento, capiamo così che il ragazzo aveva deliberatamente intrapreso un’impresa disperata, sapendo bene che il probabile fallimento avrebbe voluto dire farsi tagliare la testa, a lui e a tutti i suoi collaboratori. Ne fui fortemente colpito la prima volta che vidi il film, conservando sempre dell’esperienza un ricordo intensissimo, indelebile. E ogni volta che lo rivedevo (almeno quattro contando l’ultima) rivivevo la stessa emozione, più o meno come la prima volta: un miracolo che si ripeteva ogni volta identico, un po’ come il sangue di San Gennaro a Napoli.
Ciò che non ricordavo, in verità, è proprio l’inizio dell’episodio, quando vediamo per la prima volta Boriska seduto contro il muro diroccato della sua casa, solo, del tutto sfiduciato, apparentemente privo di emozioni e di speranza nel futuro. Parla con un cavaliere, che non vediamo, gli dice che è rimasto solo al mondo, la pestilenza ha ucciso tutta la sua famiglia, compreso il padre fonditore di campane.
Si riscuote, subitamente, quando apprende che il cavaliere è un messo del Principe e sta cercando un fonditore per costruire una nuova grande campana per la cattedrale. Decide in un batter d’occhi di giocare la sua carta, con un coraggio e una determinazione folli, affermando quasi con veemenza di conoscere il segreto della fusione trasmessogli dal padre. Ora mi rendo conto che questa decisione improvvisa si può anche spiegare con il fatto che il ragazzo non aveva più nulla da perdere, e se mai avesse vinto quella folle sfida sarebbe rinato, piuttosto che rimanere una nullità, un reietto solo al mondo, abbandonato da tutti.

Ma l’artista, il creatore di opere molto belle e create dal nulla, che infondono benessere ed energia positiva nella gente, deve sempre faticare, penare e addirittura, come in questo caso, rischiare la vita. La sua soddisfazione per aver adempiuto al proprio compito è fugace, quando c’è, spesso neppure c’è, perché manca sempre la certezza, ovvero c’è ma è talmente esile e fugace rispetto alla mole immane del lavoro, della fatica. Ma questo è il compito, dare forza e gioia di vivere agli altri, attraverso le proprie pene, il lavoro sfiancante, la fatica. Perciò Andrej e Boriska continueranno insieme per adempiere la propria missione di artisti, di creatori di bellezza che verrà apprezzata da altre persone.

1 Grande la mia sorpresa quando ho sentito qualcuno fuori dall’inquadratura parlare in italiano. Inizialmente non capivo, ho pensato a uno strano difetto del file (?), e il mio sconcerto è perfino aumentato quando subito dopo ho ripreso a udire le voci parlanti in russo (sottotitolato in inglese) come in tutto il resto del film. Ciò che ha un pochino interrotto il crescendo delle mie emozioni, arrivando nei pressi del primo rintocco, che poi mi è quasi sfuggito, parendomi non così sonoro. Evidentemente mi era rimasta impressa la prima visione del film, doppiata in italiano, quando non potevano certamente sorprendermi delle voci fuori campo in italiano. E quella volta, per questo motivo, vissi l’ascolto del primo rintocco della campana con un’intensità ineguagliabile, e irripetibile.

Contro le immagini

L’attitudine sempre più radicata, soprattutto nell’ambito della comunicazione, cosiddetta, a dare la prevalenza alle immagini ha portato a una visione bi-dimensionale della realtà, tutto viene posto su un unico piano, che, per quanto vasto possa essere, manca sempre della terza dimensione: la profondità. Sia spazialmente sia temporalmente, non ce n’è alcuna, non emerge quel che è stato e non si vede più, ma ancora c’è, ovvero agisce sul presente, sulla situazione attuale, quella che si vede facilmente, anche da molto lontano, grazie ai mezzi di comunicazione di massa, sempre più potenti e invasivi. Che, appunto, lavorano soprattutto – anzi, quasi esclusivamente – sulle immagini1, le quali sono impotenti a fornire un accesso alla profondità, la terza dimensione. Ciò che invece sarebbe possibile, in linea teorica, alla scrittura testuale, sia pure a prezzo di un grande sforzo. Perché lo stesso linguaggio assume spesso apparenze ingannevoli, si usano con noncuranza, irriflessivamente, termini di cui non si sa, o non si ricorda (comunque non si tiene presente) l’origine, il perché iniziale, originario appunto. Quindi, per poterlo usare efficacemente si deve avere la massima cautela, evitando le scorciatoie e l’uso automatico, non consapevole, di termini che sono stati nel tempo sempre più distorti e piegati alle esigenze dei poteri e portano quindi a una visione o percezione distorta della realtà2.
Attualmente fra le immagini e il linguaggio testuale è spesso in atto un rapporto di servilismo reciproco, che priva entrambi gli strumenti della propria autonomia. Ma mentre le prime continuano a invadere, occupandolo, lo spazio della comunicazione, cosiddetta – e l’obiettivo finale pare essere quello del dominio assoluto – il secondo si riduce sempre più, si auto-mutila, e a forza di semplificazioni e abuso di acronimi e di frasi fatte svuotate di senso è ormai diventato una specie di rovina, un simulacro dell’antica ricchezza e complessità. A rappresentare egregiamente questo stato di cose, nei notiziari video, la riga di testo, in caratteri minuscoli, che corre, da destra verso sinistra, sotto immagini in movimento molto più vaste, enormi a paragone – come i sottotitoli in un film in lingua originale – che attirano tutta l’attenzione dell’osservatore. Probabilmente, quasi nessuno la legge più, e ben presto sparirà, come un residuo inutile, un costo di produzione aggiuntivo, da tagliare senza pietà né rimorso alcuno.
Io credo che l’unico modo per eludere il potere delle immagini – ma anche il nostro potere su di esse – sia di non dare loro alcun significato, di non assegnare loro alcuna valenza simbolica. Un’immagine andrebbe considerata alla stregua di un animale o di una pianta, protagonista di una vita propria senza alcun nesso con la nostra e di cui poco sappiamo. Un’immagine insomma non ci deve rappresentare, e sarebbe bene che non rappresentasse mai alcunché. E nel caso di inserimento in un testo, di qualsiasi natura e su qualsiasi medium, l’ideale, per la libertà e l’indipendenza di entrambi, è una certa reciproca incongruenza.

1 Una definizione fra le tante di immagine potrebbe essere questa: la cristallizzazione di un istante di tempo, qualcosa a cui qualcuno (fotografo o pittore) ha assistito, in taluni casi partecipato. È stato un fenomeno transeunte, in continua modificazione, fino alla sua scomparsa; ora rimane la sua rappresentazione – supportata dal ricordo – in forma, appunto, di immagine. Che non ha molto a che fare con quello, perché è morta, raggelata per sempre, mentre quello era vivo – nato dal nulla, si è sviluppato ed è quindi scomparso, divenendo invisibile. Perciò esso può essere soltanto ricordato, da chi era lì. In definitiva: l’immagine e il fenomeno (in senso ampio, l’oggetto) che essa rappresenta, cristallizzandolo, sono due mondi separati, nella migliore delle ipotesi paralleli. Bisogna stare molto attenti a non confonderli. Soprattutto a non sovrapporli, ciò che peraltro è impossibile (vedi El sol del membrillo, un film del 1992 di Victor Erice).

2 Ciò che vale, ovviamente, anche per le immagini, facilmente riducibili a luoghi comuni da consumare nel breve tempo della loro apparizione di fronte al nostro sguardo. Su tali luoghi comuni si regge tutto l’impianto di stravolgimento della realtà, un sistema di schermi che tende a sottrarla alla nostra pura percezione.

(scritto lo scorso 12 luglio)

Pubblicato in post

Osservazioni improprie

Stampato da Inchiostro Puro (Grugliasco, TO) nel mese di luglio 2024 in 60 copie numerate, il libro consta di 64 pagine nel formato 13 x 19 su carta Fedrigoni Arena Natural Rough da gr. 120, copertina stessa carta gr. 200; all’interno 3 immagini a colori e 1 in b/n, tutte fuori testo.

Il libro contiene tredici testi scritti fra il 2009 e il 2019, più uno in Appendice, scritto nel 2017.

A un certo punto, nel mucchio di terra proveniente da un campo arato, uno dei due, non ricordo più se lei o lui, trovò una moneta da cento lire che doveva esservi caduta, smarrita da qualcuno, chissà quanto tempo prima, considerando anche che ormai da diversi anni la lira aveva cessato di avere corso legale.
[da Centolire, ciottolo, mosca]

Era come se si vedesse tutto, in quel luogo, per la prima volta. Ma non c’erano più ombre, e nello stesso tempo si creò improvvisamente una sorta di strano silenzio, anche se molte persone lì in spiaggia continuavano a parlare, però a bassa voce.
[da La seconda eclisse]

L’elemento forse più disturbante dell’immagine è la figura di una donna che si trova in piedi nei pressi della teleferica, in corrispondenza dell’angolo in basso sulla destra dell’immagine, a una distanza di circa sei o sette metri dalla stazione di partenza, mentre ci guarda. La donna indossa un paio di pantaloni neri, una canottiera azzurra (doveva sicuramente essere estate) e porta in testa un copricapo che potrebbe essere un casco, ciò che ne farebbe un’addetta al funzionamento della teleferica.
[da La donna di Kaprun]

chi volesse avere una copia di questo libro scriva all’indirizzo presente in Contatti