Ha ancora senso esporre1 un’opera d’arte, cosiddetta? E se sì, deve essere per forza in un luogo deputato, al chiuso, asettico e depurato? Un luogo dove si deve andare, lo si deve raggiungere sapendo che una volta arrivati ci troveremo delle opere d’arte, oppure una performance.
È stato così per lungo tempo, a partire da un certo periodo, ma prima non era proprio la stessa cosa, c’erano altri modi di proporre le opere d’arte visiva, ad esempio nelle chiese, oppure nelle piazze o in altri luoghi pubblici, e allora era anche possibile imbattersi in esse, senza averlo voluto fare e senza neppure averlo previsto (quindi senza aspettative, e sorpresi da esse, spesso). Ma ora, già da un paio di secoli (con i Salons parigini), esistono certi luoghi deputati, dove si mostrano le opere d’arte. Sappiamo bene cosa è successo in seguito, la nascita delle gallerie vere e proprie, con tutti i comportamenti, o riti – di natura prettamente borghese – che sono venuti come conseguenza (orari di apertura, inaugurazioni, ecc.). Poi, nel secondo dopoguerra, soprattutto negli Stati Uniti, l’utilizzo di certi spazi ex-industriali, quindi atipici rispetto alla norma, in termini di vastità e di volume degli spazi; un uso che si estese ben presto anche all’Europa e che favorì ovunque lo sviluppo di certe modalità realizzative, con opere bi o tridimensionali, e poi le prime installazioni, cosiddette. Ma questa tendenza, nella sua fase iniziale, essendo spontanea, aveva una sua freschezza e autenticità, qualità che si persero quando certi spazi vennero via via ‘normalizzati’, ripuliti e resi sempre più asettici, ad esempio con la consuetudine sempre più adottata del colore grigio dei pavimenti e del bianco delle pareti, fino ad arrivare allo stravolgimento (o aberrazione) del cosiddetto white cube, che operò il definitivo estraniamento – dopo l’esordio dei Salons – dell’arte dalla vita reale, che si svolge, imprevedibile e scarsamente controllabile, all’esterno di certi luoghi.
Ecco, io trovo che dare ora per scontato – come si fa da parte di quasi tutti– che l’arte visiva debba trovarsi lì dentro, ripetendo usi e clichè in atto ormai da decenni e quasi immutati, è qualcosa di pernicioso, perché si tratta di una non scelta, un comportamento acritico e oggettivamente passivo, che perpetua uno status quo ormai da tempo svuotato di senso. Anche perché nel frattempo, mentre si assisteva al progressivo imporsi, quasi incontrastato, del white cube, e al proliferare delle gallerie e dei musei (o non-musei, ovvero non più luoghi di conservazione ma molto spesso di intrattenimento) fino alla definitiva aberrazione delle fiere d’arte, si verificavano anche altri fenomeni, che avrebbero dovuto aprire gli occhi a molti sui rischi legati al prevalere del cosiddetto sistema dell’arte, proponendo alternative inusitate e soprattutto credibili. Dapprima le esperienze di artisti illuminati, e soprattutto coraggiosi, che presero a ignorare i luoghi deputati per dare forma ad ‘azioni estetiche’, molto spesso effimere, là fuori nel vasto paesaggio, lontano anche dalle città, non soltanto dalle gallerie e dai musei. E a partire dai primi anni ’70, gli happening e le performance, che potevano avere luogo ovunque, e soprattutto in maniera imprevedibile, spesso quasi di nascosto, imitando analoghi fenomeni attuati nel mondo naturale altro dall’uomo da parte di animali, piante o fenomeni atmosferici. Non era neppure raro che una performance non avesse spettatori, o ne avesse pochissimi, magari uno soltanto (vedi il caso di Tehching Hsieh e delle sue performance la cui esistenza era attestata da un solo testimone, che ne garantiva la veridicità2). Ma sempre esse avvenivano senza preavviso o quasi, ovunque, e spesso era perfino difficile capire che si era in presenza di un tale evento, che iniziava improvviso e finiva anche allo stesso modo, e il performer – generalmente, ma non sempre, lo stesso autore – poteva sparire alla fine, senza neppure aver stabilito alcun contatto con i presenti. Quella era una direzione giusta da seguire, sviluppandola, essendo materiata e attuata all’insegna dell’imprevedibilità, dell’incertezza, e soprattutto avendo una natura effimera e transeunte, dato che spesso non lasciava neppure alcuna traccia di quanto era appena accaduto. Come accade quando siamo testimoni – o compartecipi – di un evento naturale che ci coglie improvvisamente, inatteso, mentre siamo occupati a fare qualcosa, camminando, guardando fuori dalla finestra, mangiando o bevendo qualcosa stando seduti a un tavolo, o qualsiasi altra attività che ci tiene impegnati in una azione di routine. Certamente, il ‘difetto’ (rispetto alle regole del mercato, tutto fondato sulla commercializzazione di oggetti) di certe performance o azioni all’aperto o comunque al di fuori da musei o gallerie, stava proprio in quella che era la loro reale qualità precipua, la non oggettualità, che le rendeva, appunto, inadatte a uno sfruttamento commerciale, a differenza di quadri e sculture. Ma si capì ben presto come aggirare l’ostacolo, documentandole con foto o video, quindi oggetti commerciabili, che mantenevano sì un legame con l’azione da cui provenivano, ma erano bensì altro da quella, essendosi raffreddate e cristallizzate. Ancora peggio, in tempi più recenti, è stata l’omologazione, o normalizzazione, delle performance, che vengono annunciate spesso con largo anticipo, comunicandone il titolo, quindi l’ora di inizio, poi la durata, e infine, addirittura, una loro sinossi (come per un film), in grado di togliere loro ogni residuo di imprevedibilità e privandole della proprietà di sorprendere, di inquietare anche, e di operare un effettivo sovvertimento della routine che attanaglia quotidianamente, in modo pressoché ineluttabile, tutti. Tutto ciò che era programmatico, si può dire per definizione, in tutte quelle performance e quegli happening pionieristici, che spesso non venivano neppure documentati e il cui ricordo, spesso e volentieri, sopravviveva soltanto nella memoria dei presenti quel giorno mentre accadevano.
Baudelaire e altri suoi sodali Decadenti (cosiddetti), come si sa, coniarono l’espressione épater la bourgeoisie, per significare l’urgenza e la necessità ineludibile di sovvertire l’ordine borghese precostituito, scandalizzando i suoi rappresentanti. Che in effetti andavano su tutte le furie di fronte a certe provocazioni, almeno fino al primo dopoguerra, grazie all’azione delle avanguardie artistiche attive nei paesi europei preminenti. Poi qualcosa cambiò, i borghesi iniziarono a trovare aspetti eccitanti in certe manifestazioni, e smisero ben presto di scandalizzarsi, trovando in esse occasioni atte a distrarli dal trantran quotidiano, casa-ufficio-chiesa, interrotto da qualche rara occasione festiva. Contemporaneamente si capì che certe opere d’arte visiva, che pure nelle intenzioni degli autori dovevano provocare un effetto (blandamente) turbativo dell’ordine borghese, dopo essere state accettate e metabolizzate dalla borghesia stessa potevano anche acquisire un valore venale. Iniziò così a prendere piede il fenomeno del collezionismo, attività quasi esclusivamente esercitata da persone abbienti, con un surplus di denaro che poteva essere speso per generi voluttuari o per cose apparentemente del tutto inutili, come appunto le opere d’arte. Si sa come sono poi andate le cose, e ormai da decenni l’arte visiva, quella più fragrante, più ‘nuova’ (almeno apparentemente) si potrebbe dire venga realizzata proprio per arrivare a quei rappresentanti della borghesia abbiente, professionisti (medici, avvocati, notai, eccetera) che, siccome si annoiano, oppure svolgono professioni redditizie ma sgradevoli, dapprima possono distrarsi, e magari provare un piccolo brivido ammirando certe opere, e poi, dopo averle acquistate, le trasformano in capitali, spesso più sicuri di quelli tradizionali, come la cartamoneta o le azioni. Un circuito chiuso sempre più irrigidito ed esclusivo, un vero e proprio sistema di potere in grado di svalutare e sminuire sempre più le qualità spirituali (quando ci sono) delle opere d’arte mentre potenzia quelle mondane, prosaiche, come può essere appunto il loro valore economico, stabilito dal mercato – espressione identificativa e diretta di quel sistema. Il quale agisce di concerto con le istituzioni museali, strumentalizzandole, proprio per aumentare il valore delle opere, grazie al lavoro indefesso di una moltitudine di professionisti del campo, non soltanto i galleristi, ma anche e soprattutto, si direbbe, i curatori, i critici, i direttori di museo.
Con progetti come campo volo [v. qui], ad esempio, e poi La collera delle lumache [v. qui], si è cercato di restituire ad eventi generalmente consumati e devitalizzati dall’abitudine, certe caratteristiche di imprevedibilità, prima, e di volatilità, durante, atte a suscitare una curiosità preventiva, quindi a innescare un senso di attesa, infine stimolando la massima attenzione nel corso dell’evento. Quando chi è presente sa bene che esso non verrà ripetuto, che quella cosa, quelle cose, si vedranno soltanto quell’unica volta, per due ore, due e mezza al massimo, e poi mai più. Tentativo quasi sempre riuscito, anche se alcune volte volte meglio di altre. Non è moltissimo, forse, ma già qualcosa: il luogo espositivo – chiamiamolo così per semplificare – subiva in quelle occasioni un positivo effetto di rivitalizzazione, diventava meno sicuro e prevedibile, come un qualcosa di ignoto a cui avvicinarsi con cautela e una certa circospezione, quasi pericoloso, in un certo senso. Per una volta non ci si andava tanto per obbedire a una routine, aspettandosi le stesse cose di sempre, da esperire attraverso gli stessi, abusati meccanismi di fruizione e percezione. Non c’era più molto di scontato, si sapeva soltanto il nome dell’artista, o degli artisti, nient’altro, a parte l’indirizzo del luogo, il giorno e l’ora.
Perché è così, il mondo dell’arte non è diverso da tutto il resto, in questa società. Dove tutto deve essere regolato, controllato, scandito da orari e da comportamenti all’insegna della consuetudine, della ripetizione indefinita degli stessi riti, degli stessi gesti. Ciò che accade con il linguaggio stesso, parole che si sovrappongono alle cose, ovvero si frappongono fra noi e quelle, rendendole inaccessibili, incorporee anche quando sono davanti a noi, a pochi passi, ma irrigidite come cadaveri. L’arte occupa una casella all’interno di un sistema bloccato, immobilizzata lì per poter essere manipolata e strumentalizzata come si fa con le cose inanimate, o con certi animali domestici. E il suo compito parrebbe essere quello di indurre nelle persone che ne “fruiscono” (brutta parola ma rende l’idea, in un mondo in cui si dà per scontato che si facciano le cose sempre e soltanto per trarne un piacere – meglio se consolatorio –, strumentalmente quindi) la stessa condizione di immobilità, la stessa attitudine ad essere controllate, manipolate, sempre più private della propria indipendenza, della propria libertà di agire e di pensare in modo autonomo, svincolato da quella morsa. Si applica a tutto l’etichetta ‘arte contemporanea’ – un’espressione che non significa niente – e da lì in poi tutto va bene, si va lisci come l’olio: gli spazi espositivi tendono a somigliarsi tutti, le cose esposte sembrano essere state appena estratte da appositi scaffali, sono copie di prototipi creati decenni fa, nei casi migliori appena un po’ modificate, giusto per dare loro una parvenza di novità. Non accade mai niente di nuovo, e come potrebbe? Il contenitore è quello, le formule sono sempre le stesse, il linguaggio poi è l’aspetto peggiore, gestito com’è da professionisti3 che, con un comportamento ottuso e corrivo, utilizzano certi termini in modo pedissequo, acriticamente, soprattutto per guidare il pubblico, portandolo per mano lungo sentierini lastricati e accuratamente spazzati, come se ne vedono attorno a certe villette asettiche e fatte in serie. Si vuole soprattutto, sempre, omogeneizzare (come con i cibi per i neonati, per renderli più facilmente digeribili), normalizzare, togliere ogni asperità, ‘spiegare’ sempre tutto, quindi togliere mistero. Il risultato di tutto questo insano fervore è la chiusura mentale causata dall’assuefazione a praticare certi luoghi partecipando ai riti vacui e immutabili che vi vengono celebrati, diventando così, quasi sempre senza rendersene conto, oggettivamente conniventi.
Come è possibile perpetuare questo andazzo? Perché sentire il bisogno di andare all’ennesima inaugurazione, per vedere cose già viste e straviste, ascoltare sempre le stesse frasi insulse? Sì, certo, si vede gente, si possono combinare cose, allacciare relazioni, ma cosa c’entra l’arte con tutto questo4? Proprio niente, quasi sempre, e le eccezioni sono del tutto inconsistenti, non possono spostare i termini della questione.
(ho iniziato a scrivere questo testo lo scorso 29 aprile, chiudendolo infine, dopo alcuna integrazioni e mofifiche, oggi 13 ottobre)
1 Il dizionario online Oxford Language, come prima definizione del termine dà: Offrire alla vista o all’attenzione altrui, mettere in mostra. “esporre la merce in vetrina”. L’esempio indicato è altamente significativo, direi.
2 Fa eccezione quella, durata un anno come le altre, che vedeva Hsieh vivere costantemente all’aperto, fuori da qualsiasi spazio chiuso. In quel caso, molti, anzi moltissimi, avendo la performance avuto luogo a New York, lo videro, ma nessuno sapeva che lui stesse eseguendo una performance.
3 Un certo professionalismo (una stortura che Ivan Illich aveva ben individuato già diverse decine di anni fa, scrivendo sull’argomento pagine molto efficaci) è la vera piaga del mondo dell’arte attuale, o meglio, degli ultimi trent’anni almeno. Curatori, direttori di museo, galleristi, editori ‘specializzati’ (con i loro stolidi e perniciosi editors), fotografi, allestitori, e last but not least, gli stessi artisti, o presunti tali. Molti dei quali troppo spesso ‘si adeguano’, obbedendo a qualsiasi diktat, anche i più scomodi, e adattando il proprio lavoro in modo da conformarlo agli standard richiesti dal sistema, per non essere ‘cacciati dal tempio’ e avere anche loro almeno un piattino di minestra. Ovvero, la possibilità di partecipare a una collettiva di una certa risonanza, se non addirittura di fare una personale in galleria; ma anche per essere inseriti in una pubblicazione di settore, o perfino avere un’opera nello stand di una fiera. Insomma, tutto è possibile, tutto è lecito, pur di ottenere “visibilità”.
4 Domanda che ne provoca quasi in automatico un’altra: ma che cos’è l’arte?





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