Nella primavera del 2017 mi capitò una volta di entrare nel Cimitero Monumentale di Torino, durante una delle mie passeggiate giornaliere, che avvengono sempre qui nei dintorni. Non ero partito da casa con l’intenzione di andarci, ma siccome ero lì nei pressi, e in quel momento il semaforo di corso Novara era verde, senza troppo pensarci sopra decisi di entrare. Stavo vivendo un periodo difficile della mia vita, soprattuto a causa di una certa questione che si stava trascinando ormai da quasi un anno, angustiandomi, e sentivo il bisogno di trovare un sollievo, anche soltanto momentaneo. Ciò che avvenne subito quando mi trovai là dentro camminando mentre guardavo intorno a me le tombe, i lunghi porticati, gli alberi che vi si trovano in gran numero, lo stesso cielo. Dopo pochi passi, si capisce di essere in un altro mondo, sia pure vicinissimo a quello dove viviamo abitualmente, la cui presenza è soltanto segnalata dai rumori delle auto che girano lì intorno, sempre più distanti, ovattati, man mano che ci si addentra nel cimitero. E un altro mondo significa anche un altro tempo, perché lì dentro il tempo è davvero diverso, non più influenzato e deformato dalla nostra volontà, dalle nostre abitudini, ma come sospeso. Tutto sembra immobile, come se non ci fosse, lì, alcun bisogno di affrettarsi per andare da qualche parte, nessun appuntamento preso in anticipo, nessuna scadenza da rispettare, e la presenza di tante statue in marmo, e di manufatti anche in marmo o in pietra, accentua questa impressione di stasi. Le piante, quelle sì, si muovono, se c’è un po’ di vento che scuote i rami e le foglie, e poi ci sono gli uccelli, e qualche insetto, quindi si può dire che il tempo in quel luogo è molto più vicino a quello ‘naturale’, ed è facile perdere la percezione di quello artificiale, fittizio, creato da noi stessi e scandito dagli orologi. Un’ora trascorsa camminando lì dentro è diversa da un’altra ‘fuori’, c’è una sorta di effetto di dilatazione, e se uno si lascia portare dal caso, seguendo tracce impreviste e attraenti, è facile anche perdersi, perdendo così, oltre al senso del tempo, anche l’orientamento. È un luogo di sperdimento e di oblio, in cui riesce più facile dimenticare, dimenticarsi, e ritrovare una certa leggerezza perduta.Tutto ciò ha un effetto rasserenante, che può durare anche una volta fuori, per qualche tempo.
Per tutti questi motivi, dopo quella prima volta ce ne furono altre, intervallate all’incirca da una settimana: tornavo volentieri dove mi ero trovato tanto a mio agio. E ogni volta che ci tornavo era sempre senza uno scopo preciso, o una qualsiasi meta sia pure all’interno del cimitero. Mi arrendevo quasi con voluttà a quel tempo particolare, diverso dal ‘nostro’, e come avrei potuto non lasciarmi andare, guidato soltanto dalle apparizioni che mi si presentavano, quindi alla fine, quasi sempre, perdendomi? No, lì entravo ogni volta senza alcuna premeditazione, anche se avevo bensì deciso di ritornarci, dopo quel primo giorno, quando ci entrai per caso e mi accorsi, una volta dentro, sull’isola, di trovarmici così bene. Perciò tornavo, intuendo vagamente che qualcosa avrei sicuramente trovato. E già subito il primo giorno iniziai a scrivere, ogni volta al mio rientro a casa, un resoconto della mia passeggiata nel cimitero, fino a raggiungere un discreto numero di pagine, quelle che avrebbero formato il librino Passeggiate sull’isola. Contrariamente al solito, quando correggo molto la prima stesura, stavolta lasciai tutto quasi intatto, con soltanto pochissimi interventi molto leggeri, e credo che si capisca leggendo il librino, che è molto scorrevole, mi pare, come se avesse lo stesso andamento, lento e un po’ distratto, di quelle passeggiate. E chi legge forse anche così può riuscire a riviverle, a ‘sentirle’, come se camminasse a sua volta, mentre sta leggendo.
Dopo l’ultima passeggiata, nell’aprile del 2017, interruppi le mie visite al cimitero, perché evidentemente stava cominciando a diventare un’abitudine e mi pareva che la freschezza delle prime volte si andasse sempre più perdendo. Ormai conoscevo bene quel luogo, e difficilmente avrei potuto imbattermi in qualcosa di sorprendente – coglierlo, soprattutto – che si imponesse alla mia attenzione con la stessa intensità, e naturalezza, di quei giorni.
Qualche giorno fa (era una domenica mattina) mi trovavo lì nei pressi e sono entrato per fare due passi. L’aria era piuttosto fresca, anche se c’era un bel sole: una bella giornata di fine estate, la prima. Mi sono accorto ben presto che tutto era come un anno fa, mi è parso di ritrovare quella particolare atmosfera praticamente intatta. Forse il fatto di non esserci più andato per parecchio tempo mi permetteva di riavere la stessa freschezza di quei giorni, e mi è parso perfino di scoprire cose nuove, pur percorrendo alcuni dei viali centrali, vicino all’ingresso, che ben conosco. Non mi sono fermato a lungo, forse una decina di minuti, e sono quindi uscito dirigendomi verso via Catania e imboccando la carreggiata centrale, quella che nell’ultimo tratto è riservata ai cortei funebri. Guardando il viale da questa prospettiva, dato che prima avevo fatto un’altra strada, mi è parso di vederlo in un modo completamente nuovo: lunghissimo, e diritto, fiancheggiato da due file parallele di grandi platani che gettavano ombra sulla strada, sembrava non dover finire mai, non se ne vedeva il fondo. Se invece fossi arrivato dalla direzione opposta, percorrendo tutto il viale, avrei invece visto, al fondo, il muro perimetrale del cimitero, con le porte d’ingresso, dove il mio sguardo si sarebbe fermato, trovando un ostacolo, e un limite al mio cammino.
[testo scritto nell’agosto 2018, rivisto nel febbraio 2019]

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