In certi momenti accade al nostro cospetto qualcosa di cui si intuisce la forza, la rarità e l’intensità. Pure, rimaniamo apparentemente indifferenti, con poche o nessuna manifestazione appariscente, niente che faccia trapelare una particolare emozione. Ma l’esperienza ha avuto luogo, ha lasciato un segno – ovvero un seme – e dopo, ripensandoci, la sua forza inizia ad agire, una forma prende a dispiegarsi in noi, ci torniamo spesso, mentre diventa qualcosa di sempre più intenso e solido.
È come se in quelle occasioni fossimo diffidenti, o quantomeno guardinghi, attenti a non farci sopraffare da qualcosa di insolito e di cui intuiamo la forza, che pure vagamente temiamo. Perciò non ci lasciamo andare, rimaniamo ‘in posizione’, senza avvicinarci troppo, eludendo anche la tentazione di prorompere in affermazioni o atteggiamenti ammirati, che ci distrarrebbero (disturbando anche chi si trovasse con noi), facendoci perdere buona parte dell’effetto. Che invece ha bisogno di tempo, deve maturare dentro di noi, crescendo quasi per conto suo, fino a dare a quanto esperito una forma certa, con la quale confrontarsi.
Oppure: nel momento dell’esperienza guardiamo e ascoltiamo, ma come impassibili registriamo tutti i dati per conservarli nella memoria. Dopo, lentamente, attraverso un processo di cristallizzazione (vedi Stendhal in De l’amour, quando parla del ramoscello sfogliato dal gelo lasciato per diversi mesi nelle profondità abbandonate di una miniera di sale a Salisburgo) arriveremo a riconoscere il valore dell’esperienza, a darle piena forma e legittimità. Ma tutto ciò va differito, quasi mai è istantaneo, nel momento stesso dell’esperienza (soprattutto quando l’effetto è particolarmente forte e ci travolge) ma sopraggiunge bensì. Qualcosa di simile si può trovare esposto nel breve saggio di Kleist Sulla riflessione.
L’esperienza deposita in noi un seme che poi ci crescerà dentro, lentamente, prima di trovare la sua forma compiuta e venire finalmente alla luce.
Nei suoi film Victor Erice si sofferma spesso a lungo su un personaggio, la macchina da presa indugia su di lui, o su di lei, che generalmente tace; oppure si sente la sua voce fuori campo, mentre scrive o legge una lettera. In molti casi, mentre assistiamo a un’azione di chi viene ripreso, generalmente poco appariscente e svolta con lentezza, si capisce ben presto che a contare è soltanto in parte quell’azione, ma semmai ciò che passa nella mente di lei o lui. Erice non ci dice niente, non ci dà chiavi per decifrare questo mistero, anche se possiamo indovinare, vagamente, soprattutto quando ciò che è accaduto prima – e poi quel che accadrà dopo – può metterci sulla strada, o sulle strade possibili. In questo modo, attraverso l’insistenza nel riprendere un’azione silenziosa e lenta, diventa praticamente inevitabile chiedersi cosa starà pensando quella persona, soprattutto quando è sola, e quindi la sola ad essere ripresa. L’espressione di ognuna di queste persone è quasi sempre impassibile, imperscrutabile (come accade quasi sempre nella realtà – soltanto il cinema, e prima ancora il teatro ci hanno abituati a vedere espressioni artificiose e forzate sul volto degli attori in certe situazioni), soltanto gli occhi alludono a qualcosa che sta accadendo in silenzio, dietro di loro. E anche quando sono chiusi – altra situazione frequente nei film di Erice – essi sono comunque espressivi e ci attraggono con una silenziosa promessa: qualcosa sta succedendo, è certo, anche se non sapremo mai cosa, non ci verrà rivelato. Come si immagina che Ana mai rivelerà niente di quanto le è accaduto, né le uscite notturne, senza svegliare la sorella Isabel, né l’incontro col fuggiasco e neppure quello – immaginato ma altrettanto reale – con il “mostro” di Frankenstein sulla riva dello stagno, quella notte. Ma ancora prima che per noi spettatori, per forza di cose passivi e ininfluenti, da certe rivelazioni sono esclusi gli altri personaggi dei vari film. Che sono per lo più famigliari, vivono insieme nella stessa casa, mangiano e anche dormono insieme, ogni tanto si parlano, certamente, in qualche modo, si amano, ma rimangono fondamentalmente estranei fra loro, sempre di più con il passare del tempo. E quando ad esempio Estrella cresce, pur continuando ad amarli si estrania sempre più dai genitori, soprattutto dal padre, con il quale aveva, nell’infanzia, un legame silente e discreto ma molto intenso. È così sempre, in ogni famiglia, anche le più unite, più apparentemente serene, come quelle che vediamo nei due primi film, El espìritu de la colmena e El Sur: due, tre, quattro persone unite da vincoli di sangue vivono insieme ma sono diverse fra di loro, fondamentalmente estranee, sempre di più col passare del tempo. Anche se si amano, anche se si prendono cura uno dell’altra e degli altri, rimangono tali, estranei che vivono all’interno di mondi diversi, soltanto compresenti, seguendo percorsi paralleli che poi nel tempo divergeranno sempre più.
Nei film di Erice proprio quando sembra che non succeda niente in realtà stanno accadendo le cose più importanti. Anche se non le vedremo mai e non sapremo mai niente di preciso su di esse. Potremo soltanto provare a immaginarle, ovvero a intuirle, senza però avere mai una conferma delle nostre intuizioni, o congetture. Niente viene esplicitato, o rivelato, e quando qualcuno parla ciò che dice serve piuttosto a sviare che a far luce su quanto accade dietro quegli occhi, aperti o chiusi. Così Isabel mente alla sorellina Ana sul mostro di Frankenstein, e Agustìn, il padre di Estrella, ostenta durante il pranzo insieme a lei al ristorante del Grand Hotel, un’allegria fallace (?) proprio poche ore prima di togliersi la vita. La stessa Estrella elude l’ultima muta richiesta di soccorso del padre, frapponendo fra i due parole che non sono neppure insincere, però inette a stabilire un contatto fra i due, un ponte sul quale incontrarsi e stringersi in un abbraccio salvifico (per lui). Un altro aspetto peculiare di questi film, ciò che li rende così ‘naturali’ (nel senso di qualcosa che è proprio così, per tutti, nella realtà di tutti i giorni) sono i momenti in cui due o più personaggi comunicano fra loro senza parlarsi, senza neppure guardarsi, talvolta. In El Sur, Estrella manifesta il suo disagio e la sua contrarietà nei confronti della piega che hanno preso i rapporti all’interno della famiglia, nascondendosi per un giorno intero sotto il tetto, e il padre, che ha bene intuito il senso del gesto della figlia, batte ripetutamente – con una cadenza evidentemente ricercata e ‘pregnante’, un po’ come un telegrafista – con la punta del bastone sull’assito della mansarda che si trova sopra la stanza di lei. Così la figlia capisce che lui ha capito, anche se non può far niente per risolvere quel disagio, quelle problematiche, ma l’ha capita, e in questo modo anomalo essi comunicano i rispettivi stati d’animo. Nello stesso film la bellissima sequenza del sopralluogo di Agustìn come rabdomante sul campo in cerca dell’acqua: la figlia sta dietro al padre, non si vedono in faccia, ma comunicano attraverso il peso delle monete che lei gli posa in mano, fino a quando il pendolo che lui tiene sospeso si ferma, una volta raggiunta la falda sotterranea. O quando lui, prima di andarsene per sempre, saluta la figlia per l’ultima volta lasciando sotto il suo cuscino, mentre lei sta dormendo (emblematico che sia così, che abbia cioè gli occhi chiusi, mentre al ristorante erano bene aperti, ma in verità inetti a vedere cosa stava accadendo, a leggere nel suo animo turbato) quello stesso pendolo. In altri casi, ogni comunicazione è impossibile, non c’è neppure l’intenzione che si verifichi, e allora lo sguardo (di Ana) è fisso nel vuoto, rivolto per ore verso le fiamme del fuoco usato dalle più grandi per un gioco pericoloso che lei forse non capisce, ma teme, mentre ne è attratta irresistibilmente. In quello sguardo, sul quale la mdp indugia, si intuisce l’intensità di quanto sta accadendo in uno spazio interiore il cui accesso ci è precluso. E neppure è possibile per la bimba resistere all’espressione dura e autoritaria del padre quando la sorprende all’uscita dalla stalla dove lei non ha più ritrovato il ‘suo’ fuggiasco, ma soltanto tracce del suo sangue ancora fresco. Non le resta che fuggire, non sa neppure dove, lontano da tutti e da tutto, fino a cedere alla stanchezza al riparo di un’antica rovina, dove verrò ritrovata dal cane di famiglia (chissà, forse perché il suo modo di comunicare non è verbale, ‘civilizzato’, ma piuttosto sensoriale, quindi naturale). Si potrebbe allora dire che tutto il cinema di Erice si fondi sulla ricerca da parte della mdp – occhio nascosto e onnipresente – di un varco anche minimo per provare ad entrare in quegli spazi chiusi e inaccessibili (anche, forse, per lo stesso autore). Tentativo inevitabilmente destinato a fallire, che ci porta comunque molto vicino a quella soglia, indicata dal temporaneo prevalere di un prolungato profondo silenzio, o da due occhi, a volte aperti altre volte serrati.
Il treno nei due film è (come anche nella realtà) sempre fatale, inesorabile, un’entità maestosa e spietata che impaurisce, protagonista anche quando non appare come forma tangibile. Lascia cadere mentre è in piena corsa, come sputandolo, il fuggiasco (evidentemente un repubblicano anti-franchista); parte appena prima che Agustìn si svegli e possa salirci sopra per fuggire (in cerca di Irene Rios, forse); raccoglie le lettere della moglie dell’apicoltore a un amante, e lei deve sbrigarsi con la bicicletta per arrivare in stazione prima che parta (e in quei pochi minuti assistiamo agli sguardi insistiti e intensi che scambia con un ignoto soldato sul treno, silenzioso); corre fischiando verso Ana che indugia nei pressi del binario, affascinata, e si ridesta soltanto quando la sorella Isabel urla il suo nome, facendola arretrare appena in tempo; saluta da lontano con un fischio, non visto, la riapertura degli occhi di Ana mentre è in piedi sul balcone – fuori è notte – aspettando fiduciosa che riappaia lo spirito, il mostro, il fuggiasco che aveva amorevolmente accudito.
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