comunicare

La comunicazione ora è intesa come la trasmissione di qualcosa, un pensiero, un messaggio, un editto, un ordine eccetera. Un processo distanziato da chi vi partecipa, che non ci mette niente di suo, semplicemente trasmette, ecco, comunicare è diventato sinonimo di trasmettere. Quando ero molto giovane, ricordo come in certi ambienti che frequentavo, che avevo scelto di frequentare, spostandomi dal luogo in cui abitavo e vivevo, comunicare era tutt’altro, significava stabilire un contatto con qualcuno, incontrarlo, dirgli qualcosa in prima persona, soprattutto qualcosa che sgorgava dall’interno di una persona, parlando con un’altra persona. Ora invece la comunicazione avviene sempre più asetticamente, senza coinvolgimento personale: si passa la parola, che arriva da chissà dove, una parola che non ci appartiene – e ce ne liberiamo subito, trasmettendola –, perché non è sgorgata da noi, in un certo momento, trovandosi a parlare con qualcuno in grado di ascoltarci. In quei fortunati casi invece, il flusso è talmente favorito da questa situazione, da non interrompersi mai per molto tempo, anche ore, durante il quale due persone comunicano, ovvero creano insieme un sistema effimero e transeunte, assolutamente non preparato, che a malapena potrebbe essere trascritto, semplificandolo e quindi impoverendolo.
Ora pare che le fonti siano prosciugate, non sgorga più acqua, non zampilla improvvisa nella conversazione, soprattutto ora, quando è diventato arduo stare insieme tranquillamente, senza sottostare ad obblighi sine qua non, che irrigidiscono le situazioni, le cristallizzano, soffocando la nostra voce e il nostro pensare, il pensare creativo che alla parola detta è strettamente connesso, stabilendosi fra i due termini un rapporto osmotico (v. Kleist, Sulla graduale produzione dei pensieri durante il discorso).

[scritto il 12 giugno 2020]

William Bendix fan club

Nel cinema americano degli anni ’40 e ’50, soprattutto in quello cosiddetto noir, non raramente ci si può imbattere nel faccione inconfondibile di William Bendix, quasi sempre in ruoli di gangster duro e brutale1, talvolta con manifestazioni sadiche, come in The Glass Key – quando ostenta il suo selvaggio compiacimento nel torturare Alan Ladd, anche con qualche sfumatura omo-erotica – o come quando, in The Dark Corner, per vendicarsi schiaccia la mano di Mark Stevens a terra privo di sensi, dopo che lo aveva cloroformizzato. Eppure, questi atteggiamenti non lo rendono antipatico, e neppure troppo sgradevole, anche se la sua presenza non ha niente di attraente, e soprattutto non traspare in lui nessuna intenzione di apparire tale. Lui è così, grosso, sgraziato, sopra le righe, e non lo nasconde proprio, se ne frega dell’opinione degli altri, anzi, sembra fregarsene perfino del pubblico in questo suo mostrarsi così com’è, privo del minimo infingimento. Proprio perciò, probabilmente, piace, più è cattivo e scorretto e più piace, perché si capisce che lui deve essere così, quindi che non recita, non sembra nemmeno un vero ‘attore’, tale è il suo realismo nelle mosse e nelle battute di dialogo. Quando appare al centro dell’azione, grosso e tozzo com’è, riempie lo schermo, come si dice, calamita l’attenzione dello spettatore, che ne percepisce la presenza proprio fisica, quasi ne sente l’odore – certamente forte, umano, e si vede che sta realmente sudando – e istintivamente sta in guardia, intuendo che da un momento all’altro lui può fare qualcosa di particolarmente eclatante e pericoloso, oltre i limiti. Certi particolari poi rafforzano questa impressione, ad esempio la sua capigliatura, ricciuta e folta: quando si batte con qualcuno, oppure dopo aver fatto qualcosa di veramente eccessivo, un omicidio ad esempio, c’è sempre un momento in cui si rialza e subito sistema di nuovo al suo posto un lungo ciuffo che si era scomposto nell’azione. È qualcosa di stridente rispetto alla maggioranza degli altri attori, sempre ben pettinati, sempre vestiti nel modo giusto, composti anche quando si picchiano con qualcuno. Anche i suoi vestiti sono un po’ così, eccessivi e smodati, ad esempio il completo bianco che indossa – deliberatamente, per essere notato – quando pedina Bradford Galt / Mark Stevens. Dopo l’involontario rovesciamento del calamaio, questi, stizzito, con un gesto volgare e arrogante si pulisce la mano sporca d’inchiostro sulla giacca bianca di Bendix, che pure non reagisce, limitandosi a osservare, interdetto. Ma un breve lampo nel suo sguardo incredulo ci fa capire che il gesto, così come tutto il comportamento aggressivo del rivale, non gli sono proprio piaciuti e prima o poi si vendicherà. Ciò che succederà infatti quando schiaccia, con visibile compiacimento, la mano di Stevens svenuto a terra, prima di eclissarsi dal luogo del delitto2.
Pare che più di una volta Bendix abbia dichiarato il suo scarso coinvolgimento nella professione dell’attore, qualcosa da fare giusto per intascare il compenso, e poi subito pronto a calarsi con noncuranza in un nuovo ruolo, con un atteggiamento da proletario, da manovale senza fisime. Un blue collar come dicono gli americani: gente che si sporca le mani, l’opposto dei white collar, gli impiegati sempre vestiti in modo formale, che guadagnano di più e non si sporcano mai le mani lavorando. Bendix sembra veramente uno di loro, un blue collar – e non mi risulta abbia mai impersonato un ‘colletto bianco’, gli sarebbe stato impossibile –, ciò che induce nell’errore di credere a quelle sue parole, di credere cioè che non sia un vero attore. In realtà si tratta di un eccellente attore, sempre privo di smancerie, inetto al birignao, perfino misurato nella sua smisuratezza. Infatti, non atteggia mai o quasi mai il volto a smorfie o atteggiamenti ‘attoriali’, usando soprattutto gli sguardi e le movenze del suo corpaccione, e quella voce inconfondibile, tutto meno che coltivata e artefatta, che è indispensabile ascoltare com’è, quindi non doppiata, per apprezzare completamente la maestria sprezzata, noncurante, di questo grande, inimitabile attore.

1 L’eccezione che viene subito in mente è quella di Lifeboat, il film di Hitchcock ambientato su una lancia piena di naufraghi dopo l’affondamento di una nave da parte di un sommergibile tedesco. Qui peraltro, nella parte di un brav’uomo molto sfortunato e altrettanto altruista, vien fuori meglio la vera natura dell’uomo Bendix, descritto da tutti come una persona positiva e gradevole, alieno rispetto a certi canoni hollywoodiani al punto di rimanere per tutta la vita sposato, dall’età di 21 anni, con un’amica d’infanzia.

2 La scena, una delle due del film in cui i due si confrontano, apparendo insieme per alcuni minuti, è molto eloquente nel farci vedere come tra i due il più bravo sia senza dubbio Bendix, che si muove pochissimo quasi limitandosi ad osservare, perfino con un certo distacco, le mosse di Stevens. Che è – qui come in tutto il film – artificioso, affettato, già a partire dalla voce, che sono sicuro abbia contraffatto, malamente, per sembrare più duro e più amaro. Invece Bendix è Bendix, e senza apparentemente impegnarsi esce vincitore dal confronto attoriale; e noi – per me almeno è stato così – sotto sotto stiamo più con lui, dalla parte del cattivo, piuttosto che da quella del presunto buono (in verità alquanto antipatico, e ben poco plausibile) Stevens. Lo stesso regista Hathaway dichiarò la sua delusione per la scelta di questo attore, a suo parere il punto debole del film.

Allestire una mostra

Stampato da Inchiostro Puro (Grugliasco, TO) fra marzo e aprile 2024 in 250 copie, il libro consta di 256 pagine nel formato 13 x 19 su carta Fedrigoni Arena Natural Rough da gr. 90, copertina stessa carta gr. 300 raddoppiata con Fedrigoni Materica Cobalt da gr. 250; sul dorso tela (serigrafata) Savanna 5930; all’interno 23 immagini in b/n e 27 a colori, tutte fuori testo.
Nei 35 capitoli che lo compongono – oltre al testo che li precede e a quello che chiude il libro, a un Album di immagini e a un’Appendice – vengono trattati molteplici aspetti della vicenda di e/static, sviluppatasi fra il 1999 e il 2018 nei due luoghi espositivi torinesi (quello omonimo, in via Parma 31, e poi blank, in via Reggio 27) e in altri esterni, in Italia e all’estero.
In chiusura del libro la ricostruzione completa di tutte le iniziative realizzate, insieme a un elenco delle pubblicazioni.

in copertina, immagine scattata a Hong Kong il 30 settembre 2014
Patrice Carré, sport de l’année, 2011; dall’invito per Suoni in formazione (e altro ancora), 2012

Le memorie, in buona parte immaginate, talvolta sognate, di un gallerista per caso (o un non-gallerista, forse). Le sue esperienze in certi luoghi, con la complicità di molti amici, per lungo tempo. Quando a farla da protagonisti sono stati anche quei luoghi, e chi venne a vedere cosa vi succedeva. [dalla quarta di copertina]


commenti di lettori:

Ho cominciato a leggere con lentezza il tuo libro e devo dire che ancora prima di immergermi, prendendolo in mano e osservando tutto ciò che hai raccolto nella busta, mi sono sentita privilegiata e contenta. La cura che metti nelle cose che fai è qualcosa che colpisce sempre. Tutto è estremamente scelto e ponderato, in radicale controtendenza con ciò che esperiamo quotidianamente. I primi capitoli consegnano già un distillato del pensiero e dell’approccio dei tuoi progetti. Ho vissuto solo gli ultimi anni di blank, quindi ora riesco a seguire il percorso dal suo inizio, un tempo in cui vivevo ancora lontana da Torino. Continuerò a leggere con lentezza, anche per la ricchezza dei vari riferimenti che hai inserito nel testo. Grazie

Manuela Savioli

“… sto quasi finendo di leggere il tuo Allestire una mostra e ne sono soddisfatto. Voglio dire che la lettura, oltre che a scorrere piacevolmente, mi ha fornito diversi punti di vista, diversi nodi di riflessione. Gli scritti sono un continuo ritornare su alcuni punti ed allargarsi di altri, dimodoché si ha tempo per cogliere alcuni meccanismi essenziali nel tuo operare a favore dell’arte, della logica di una galleria, la tua logica ovviamente ( … ). Il tuo continuo riguardo nei confronti delle opere è, e non per un banale gioco di parole, costantemente una attenzione ed un doppio, o triplo o multiplo sguardo nei confronti delle medesime. Vi è attenzione agli autori, ma gli autori non sono, giustamente, l’unico nucleo di un’opera d’arte. Ed anche laddove certe cose credo non avrebbero suscitato il mio intero interesse, per impostazioni, per logiche etc. tu sei riuscito a dar loro un senso, anche un significato che non è quello della loro “traduzione” in parole, ma della loro configurazione sensoriale e percettiva ed elaborativa etc.

Giancarlo Toniutti

“Il libro non è una documentazione del lavoro svolto nei due spazi espositivi, ma un’estensione narrativa e fotografica di ciò che è accaduto, un terzo luogo dopo e/static e blank, e anche una scultura portatile di cui possiamo saggiare il peso e le dimensioni, studiate accuratamente da Fossati in rapporto al gesto di prensione.”

Aurelio Andrighetto

chi volesse avere una copia di questo libro scriva all’indirizzo presente in Contatti