Perché questo libro


Ho scritto i testi (quasi tutti, con pochissime eccezioni) che compongono questo libro fra la prima metà del 2019 e la seconda metà del 2021, con qualche fisiologica interruzione, una, soprattutto, abbastanza lunga nella primavera del 2020. Dopo altre vicissitudini di varia natura – e ulteriori correzioni e modifiche ai testi – il lavoro ha preso la sua forma definitiva e sarà presto finalmente stampato diventando a tutti gli effetti un libro. Chiunque lo prenderà in mano per leggerlo potrà apprezzarlo o meno, trovandovi magari qualche difetto ed eventualmente esprimendo delle preferenze fra i vari testi che lo compongono. Come sempre, un’opera pubblicata non appartiene più soltanto al suo autore, ovvero non più completamente, anzi sempre meno, e questo è un bene, perché con ogni nuovo lettore aumentano le possibilità offerte dal libro stesso, che si potrebbe arricchire proprio durante la lettura che ne farà ognuno dal suo personale, unico e irripetibile, punto di vista. Ma questa è un’aspettativa molto positiva da parte mia, vorrebbe dire che il libro esiste realmente, è materia che può essere plasmata e riplasmata, se si vuole, crescendo in modo affatto nuovo nella testa di ogni lettore. Detto questo, se e quando mi capiterà di parlarne con qualcuno fra i lettori, potrebbe essere davvero eccitante per me conversare con loro di questi nuovi, imprevisti aspetti, che io, come autore, ho soltanto dato una mano a far nascere, scrivendo il libro e quindi pubblicandolo, ma si dovranno poi attribuire a chiunque lo leggerà, autore a sua volta. Forse, chi fra i lettori aveva avuto una personale esperienza di ciò che accadde in quegli anni, fra il 1999 e il 2018, potrebbe sentirsi più coinvolto, proprio per il fatto di avere esperito, dal suo personale punto di vista, qualcuna, tante o poche, magari soltanto una di quelle cose. Ma io spero che anche tutti gli altri, quelli che si avvicineranno al libro senza sapere nulla di e/static e di blank, non soltanto lo apprezzino, ma si sentano stimolati a elaborare una loro personale mitologia di tutto ciò che vi viene descritto o evocato.
Per me ritornare sulla lunga vicenda di e/static ha anche rappresentato un’occasione per parlare di molto altro, tutto ciò che vi riverberava allora, talvolta inavvertitamente; e anche quello, fra quanto si fece, che ha prodotto nel tempo un riverbero su altre cose – vicende, pensieri, discussioni – venute in seguito. E ovviamente tutte quelle che, io spero, ancora potrebbero venire come conseguenza della lettura di questo libro. Ciò che, se accadrà, lo renderebbe veramente vivo e vitale, qualcosa che aveva senso fare.

Carlo Fossati, 2023

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Quel che ci mostrano certi film

Accadono spesso, in certi film di Hong Sang-soo1, fatti ‘secondari’, o perfino irrilevanti, inconsistenti quasi, che forse non vengono ben compresi dagli stessi protagonisti e non paiono realmente incidere nello/sullo sviluppo narrativo, e la loro apparizione non sembra lasciare tracce evidenti. In Turning Gate il vassoio posato con noncuranza in bilico su un frigorifero dalla signora che gestisce il locale, prima di uscire, e che poi cade a terra facendo rompere in mille pezzi i bicchieri di vetro che vi erano appoggiati sopra, proprio quando il protagonista arriva lì vicino. Lui rimane attonito per qualche secondo guardando i cocci, poi li raccoglie uno ad uno, rischiando di tagliarsi (la voce fuori campo della giovane donna che è con lui lo esorta a stare molto attento). In Hotel by the River l’anziano poeta ripete più volte l’affermazione «ha bisogno di essere innaffiata», riferendosi a una pianta presente nella hall dell’albergo. Lo dice seriamente, non come diversivo durante una conversazione, almeno così pare. Nello stesso film i due figli adulti dell’uomo si addormentano allo stesso tavolo presso il quale, poche ore prima, si erano seduti incontrando il padre dopo molto tempo (avrebbero potuto chiedere una stanza, ma chissà, forse non avevano abbastanza soldi, oppure erano troppo ubriachi e sono stati colti dal sonno). In Introduction, che è molto simile, a sua volta girato in b/n e dove vediamo, seduto a un tavolo di ristorante accanto a una vetrata (in maniera quasi identica all’altro film) l’attore che impersonava il poeta – qui un attore teatrale –, i due ragazzi, uno figlio dell’amante dell’attore e l’altro un suo amico, si addormentano sull’auto di quest’ultimo, al freddo. Risvegliatisi e usciti per sgranchirsi, vedono da lontano affacciarsi la madre del primo al balcone dell’hotel. Non si salutano, anche se quasi sicuramente si sono visti, e ci si chiede come mai questo distacco, dopo la scena assai imbarazzante – quando erano tutti seduti al tavolo del ristorante – in cui l’attore aggredisce verbalmente, in modo brutale2, il figlio dell’amante con motivazioni apparentemente assurde3, a fronte della grande sincerità del ragazzo nell’esprimere i motivi della sua inadeguatezza a svolgere il ruolo dell’attore. Poi l’uomo si scuserà con la donna in lacrime, in un modo che appare assai poco convincente, anche perché i due ragazzi non ci sono più, sono frettolosamente usciti dal ristorante sottraendosi all’imbarazzo di quella scenata a cui non hanno neppure minimamente reagito. Ancora: in due film assistiamo a una sequenza onirica4, presentata bensì in modo atipico, con nessuna delle caratterizzazioni sempre viste al cinema (sonorità accentuate o distorte, deformazioni dell’immagine, eccetera), quasi come fossero fatti ‘reali’ che si inseriscono agevolmente nel corso della vicenda. Il trascorrere del sogno, senza soluzione di continuità, nel mondo reale fa venire in mente Luis Bunuel, il modo in cui trattava questa materia in alcuni dei suoi film più noti (Belle de jour, La via lattea, Il fantasma della libertà, ecc.). E questa smitizzazione dell’elemento sogno contribuisce, così come certi gesti compiuti nella realtà, a conferire al cinema di questo autore una valenza realistica particolare, molto fuori dagli schemi.

Sono soltanto alcuni esempi di fatti e fatterelli che accadono a tutti continuamente (v. Kafka, Una confusione che accade ogni giorno) e che il regista accoglie nei suoi film, quando invece, di norma, un’opera cinematografica è costituita da fatti strettamente inerenti la trama, il cosiddetto plot, che sono conseguenti ad altri fatti e dai quali nasceranno conseguenze rilevanti per il prosieguo del film. Questi fatterelli no, sono inconsequenziali, lasciano il tempo che trovano, anche se sono proprio gli stessi che succedono sempre a tutti, non soltanto ai personaggi di questo film (e non si possono quindi neppure definire come eccezionali). Che sono distratti, confusi, irresoluti, goffi, pronunciano magari gravemente discorsi nei quali forse non credono essi stessi, e che lasciano comunque perplessi e increduli chi li ascolta. Certi gesti sono tutti ‘in brutta copia’, malriusciti, non meditati e sfuggiti a chi li compie, e anche quando sembrerebbero avere un qualche fine più o meno positivo non vengono mai perfezionati, anzi neppure portati a termine, così da rimanere insignificanti (ma non necessariamente dimenticati, anzi spesso essi persistono nella memoria più a lungo degli altri, quelli ‘importanti’, accaduti alla luce del sole).
In questi film nessuno sembra aver realmente combinato qualcosa nella vita, e anche quando c’è qualche personaggio di successo, come si suol dire, noi lo vediamo negli altri momenti, quelli della normalità più ‘bassa’, della debolezza, della bassezza, perfino. Ne consegue, apparentemente, che certi successi – evocati o descritti da qualcuno ma ai quali mai assistiamo realmente – sono fallaci, non hanno realmente valore, e le miserie, piccole e grandi, della vita di tutti i giorni prevalgono massicciamente. E ciò accade forse perché quasi tutti fanno lavori artistici, quindi discontinui, pieni di tempi vuoti, durante i quali si è spesso del tutto soli con sé stessi. Oppure, se si tratta di lavori ‘normali’, essi sono alienanti, assolutamente non in grado di dare senso e valore alle vite di queste persone, che infatti, nei momenti di tempo libero, non fanno praticamente altro che fumare compulsivamente, ubriacarsi in modo sconsiderato e mischiarsi con prostitute di bassa lega, sprecando del tutto l’occasione di fare qualcosa di più elevato, di diverso, ‘uscendo realmente dal solco’. Gli amori poi sono sempre altrettanti fallimenti, già da subito, con approcci goffi e privi di autentico trasporto (il doppio bacio al tavolo dopo la cena a tre, in Turning Gate5), destinati a finire presto oppure a trascinarsi stancamente, soltanto perché reali alternative non ce ne sono. E quando sembra che davvero sia amore – come accade in Turning Gate fra l’attore e la giovane sposata con un insegnante più vecchio di lei – ecco che finisce subito dopo il suo sbocciare, perché non c’è alternativa, sarebbe stato un remare controcorrente continuo, ciò che lei capisce bene, sottraendosi all’ultimo, forse decisivo incontro con lui.

Hong Sang-soo ci propone quasi sempre il lato peggiore, o il meno piacevole, delle persone non per una forma di cattiveria, per fare, strumentalmente, una critica sociale (come ad esempio Germi) ma perché il suo realismo non può esprimersi che così, pessimisticamente, senza alcuna fiducia nella possibilità che le persone – per una lunga serie di motivi – riescano ad attingere al meglio di sé. Sono tutte intrappolate in una forma che una volta acquisita (ma se la sono in gran parte costruiti essi stessi da soli), prima nell’infanzia, poi a scuola, infine con l’ingresso in una società mediocre e insulsa, non si potranno mai più togliere di dosso. Peraltro, il regista sembra esprimere, oltre alla comprensione del disagio dei suoi personaggi, anche pietà per loro, come si vedrà.
Ecco, forse quegli accadimenti improvvisi, quegli incidenti che accadono al cospetto di qualcuna di queste persone, lasciandole per qualche secondo attonite, potrebbero essere altrettante occasioni per risvegliarsi, per sottrarsi alla prigionia della routine (vedi lo stupore del giovane dopo che il vassoio è caduto a terra facendo rompere i bicchieri), che però svaniscono quasi subito, senza che lui o lei ne approfitti per fuggire dal suo personaggio, da una forma mai realmente scelta ma imposta e quindi subita.

Ognuna delle tre parti di Introduction finisce con un momento di apparente serenità, o quantomeno di effimero oblio delle sventure che la ‘normalità imperfetta’ delle vite dei personaggi li costringe a subire. Ogni volta si vedono due che si abbracciano, nel primo caso il giovane e la segretaria del padre mentre sono fuori e sta cominciando a nevicare, ciò che procura loro un temporaneo senso di sperdimento sublimato in un gesto affettuoso (sia pure in senso puramente amichevole). Nel secondo la goffa e insicura ragazza finita insensatamente a Berlino «per studiare la moda, che mi è sempre piaciuta fin da bambina», abbraccia il suo fidanzato appena giunto dalla Corea, senza preavviso, rispondendo a un impulso assurdo (ma non sembrano convincenti le espressioni amorose di nessuno dei due, uno verso l’altra e viceversa); presso di loro, un ponte che sormonta un canale. Nel terzo vediamo i due giovani amici su una spiaggia desolata, mentre si stringono amichevolmente (il figlio si era anche appena buttato semisvestito in mare, prendendosi solo un gran freddo) e di fronte al loro sguardo attonito il mare vuoto e scuro continua minacciosamente a rumoreggiare. In ognuna di queste situazioni – uniche in tutto il film, altrimenti privo di una colonna sonora musicale – si odono le note sparse e delicate di una chitarra (suonata forse dallo stesso regista?).

A me quei momenti, in cui mi sembra emerga, grazie anche a quelle poche note musicali, la pietà e la compassione del regista nei confronti dei suoi personaggi, ne hanno fatto venire in menti altri, visti o vissuti nella mia vita tante volte, soprattutto nella mia infanzia. Quando la madre, al mattino prima di salutare il figlio o i figli che vanno a scuola, nel mondo là fuori, li trattiene per qualche attimo pettinandogli i capelli arruffati dopo il sonno: un gesto che lei sa essere inutile, ma pure intensamente amorevole e pietoso.
il cinema di Hong Sang-soo mi sembra sia fatto con le parti meno nobili delle nostre vite, le nostre debolezze, quello che si nasconde sempre e che quando emerge ci mette in imbarazzo, perché potenzialmente in grado di demolire la nostra immagine pubblica ‘positiva’ (quando c’é). Perciò li nascondiamo, ce ne vergogniamo, e li temiamo sapendo della loro carica distruttiva. In verità essi sono di gran lunga la maggior parte, proprio in termini quantitativi, delle nostre vite, e nasconderli o negarli, piuttosto che accettarli riconoscendoli come profondamente nostri, può esserci esiziale, alla lunga.

1 Ho visto, fino ad oggi, un numero assai limitato di film realizzati dal regista coreano, autore di ben 27 lungometraggi e anche di qualche corto. Baso perciò questo testo su di essi, intuitivamente ritenendoli rappresentativi di tutto il suo cinema. Anche perché fra di loro ci sono il suo primo film (The Day a Pig Fell into the Well), uscito nel 1996, e uno degli ultimi, Introduction, del 2021, più altri usciti nel frattempo.

2 Perdere le staffe è un comportamento ricorrente nei personaggi maschili del cinema di questo autore.

3 In verità, lui reagisce così alla sincera, disarmata confessione del ragazzo, che ammette la sua incapacità a fingere un abbraccio d’amore, perché questi, sia pure involontariamente, ha demolito la sua parte ‘buona’, quella pubblica di attore teatrale di successo. Il vecchio capisce immediatamente che il ragazzo ha ragione, che il suo lavoro è insulso e vacuo, privo di autenticità e di reale valore, e così perde le staffe, arrivando quasi al punto di aggredirlo fisicamente (ma c’è un largo tavolo fra i due, nonché la presenza dell’amante, madre del ragazzo).

4 In List è piuttosto lunga, mentre in Introduction (quando il ragazzo incontra la ex-fidanzata sulla spiaggia, e lei gli racconta della sua malattia agli occhi e di come le sia venuta dopo averlo lasciato per sposare un altro) dura assai meno, oltre ad essere meno apertamente dichiarata la sua natura onirica.

5 Una situazione simile ha luogo in un altro film di Hong Sang-soo, In another land, quando il regista, adducendo motivazioni piuttosto inconsistenti, prova a scroccare un bacio a Isabelle Huppert, suscitando l’ira della moglie incinta.