All’andata, sul motoscafo, l’attenzione di tutti è rivolta verso l’isola, il lago, le colline digradanti tutto intorno nell’aria limpida e luminosa. Poi la breve passeggiata sull’isola, con una lunga sosta nell’antica cattedrale, dove campeggia, grossomodo al centro, un pulpito tutto scolpito in marmo scuro, istoriato di figure umane e di animali per lo più fantastici. Questi ultimi, ormai da mille anni sono intenti a volgere lo sguardo minaccioso verso un punto imprecisabile a mezz’altezza, noncuranti, apparentemente, delle persone presenti nella chiesa.
Al ritorno, sullo stesso motoscafo, l’uomo è seduto al centro, sul lato sinistro, e guarda ogni tanto verso prua, oltre una parete trasparente, là dove si vede la schiena del pilota intento a guidare la barca. D’un tratto si accorge di qualcosa che soltanto stando seduti in quel punto si può vedere, mentre accade all’insaputa di tutti gli altri sulla barca. La stretta parete (di vetro o altro materiale trasparente) riflette la scia lasciata dalla barca a poppa, dove l’acqua del lago si apre a forbice partendo dalla barca. Per effetto dell’inclinazione del motoscafo in movimento, con la prua più alta della poppa, egli, come se guardasse indietro stando a prua, vede la barca inabissarsi nelle acque del lago. Per alcuni minuti, silenziosamente, del tutto inavvertita – perché nessuno oltre a lui se ne può accorgere – una tragedia sembra sul punto di consumarsi, rimanendo però incompiuta, come se la barca restasse sospesa fra il cielo e le profondità del lago, sul liminare fra i due opposti mondi.
Ma tutto ciò rapidamente svanisce quando la barca, arrivando nei pressi dell’attracco, perde sempre più velocità fino a fermarsi, e la consueta, ipnotica calma del luogo, ora quasi irreale, riprende a dominare.
Archivio mensile:settembre 2023
come e perché Nel bosco
Nel bosco nacque da un’esigenza sorta all’epoca di Before and after sound, una mostra collettiva del 2003, e dall’esperienza che ne seguì. L’idea era quella di fare un invito non banale, e trattandosi appunto di una collettiva volevo evitare un’immagine troppo legata a uno soltanto degli autori presentati. Non sapevo cosa fare, finché mi venne in mente l’immagine dei cerchi nell’acqua, spesso rappresentativa delle onde sonore che si propagano a partire da un fenomeno acustico. Ricordo anche che ho sempre in qualche modo associato questa immagine ad Akio Suzuki, e questo nesso non è mai venuto meno nel tempo, pur rimanendo in buona parte oscuro il motivo che vi è sotteso. Decisi che sarei andato fuori città in cerca di un corso d’acqua, oppure un laghetto, dove avrei fotografato i cerchi provocati da me stesso sulla superficie dell’acqua gettandovi dei sassi. La Val Pellice era, per una specie di automatismo mentale (la conoscevo bene, ci andavo da anni), il luogo adatto, e proprio là sarei andato per fare le foto. Arrivato in valle mi diressi subito verso un’altra, laterale, più stretta e più corta, la valle d’Angrogna, che pure conoscevo piuttosto bene, ed essendo più piccola e meno frequentata mi avrebbe permesso di muovermi più agevolmente alla ricerca del luogo giusto. Subito mi resi conto che il torrente che dà il nome alla valle non andava bene per quel che volevo fare: la corrente è sempre troppo forte, impossibile creare dei cerchi, si perderebbero immediatamente, trascinati via senza neppure potersi formare compiutamente. Ero piuttosto deluso, mi sentii uno sciocco, finché non mi venne in mente di cercare uno dei ruscelli che si buttano nell’Angrogna, alla ricerca di qualche specchio d’acqua calma. Ne trovai ben presto uno addentrandomi nella boscaglia, dove mi sentivo nascosto e protetto – per come sono, farmi notare mentre faccio una cosa anomala per i più, è una cosa che cerco sempre di evitare. C’era anche una bella luce, i raggi del sole penetravano fra i rami, rompendosi, e l’acqua risplendeva di un bel colore caldo, fra il giallo e l’arancio (credo che si fosse vicini al tramonto, era aprile): tutte queste cose, impreviste, avrebbero contribuito alla qualità delle fotografie. Ne feci tante, tutte diapositive, e tornai infine a casa, in città, piuttosto soddisfatto. Dopo, vedendo le diapositive sviluppate, ebbi la prova che tutto era andato bene, così scelsi un’immagine che, dopo essere stata scansionata, finì sull’invito, parzialmente coperta dai nomi di tutti gli artisti partecipanti alla mostra.
Dopo qualche tempo, non so quanto, ma credo dopo l’inaugurazione della mostra, rivedendo più volte tutte le immagini, in un qualche modo che ormai non ricordo più iniziai ad associarle a frammenti di Ise monogatari, che stavo rileggendo (ce l’avevo da molto tempo e l’avevo già letto forse anche più di una volta) proprio in quel periodo, fra aprile e maggio 2003. Così ebbe avvio il progetto del libro, che pubblicai, dopo ripetute prove – soprattutto sui testi, che non erano tutti semplici estratti dal libro, ma avevo bensì spesso rielaborato, inventando anche qualche passaggio – soltanto nel 2008, in pochissime copie.

C’erano in quell’esperienza aspetti molto personali, emergevano dai testi e dalle stesse immagini, soprattutto il modo in cui le avevo fatte, durante quella spedizione in val d’Angrogna. La fuga dalla città dove vivevo già da trent’anni e più, nella quale non mi ero mai completamente ambientato (situazione ancora immutata, dopo altri vent’anni…) e poi certe vicende vissute in prima persona o forse evocate – oppure immaginate – dall’autore dell’antico testo giapponese, alle quali era facile sovrapporre le stesse mie vicende, storie che mi avevano molto segnato e dalle quali non ero ancora veramente uscito, non del tutto. È poi facile notare la forte somiglianza del fenomeno (un sasso gettato nell’acqua di uno stagno) con quello evocato da Bashō nel suo celeberrimo haiku, quello della rana, anche se me ne sono reso conto soltanto in seguito, recentemente. E qualche tempo dopo – sempre in anni recenti, direi, all’epoca mi era sfuggita – la somiglianza di certi aspetti dell’esperienza (soprattutto i raggi di luce che penetravano fra i rami illuminando lo specchio d’acqua) con un evento analogo che ricorre in un’altra celebre opera, il film Rashomon di Kurosawa: quel raggio di sole furtivo che colpisce Tajōmaru proprio mentre guarda la bella moglie del samurai, eccitandolo, lui che stava sonnecchiando nel bosco sfinito dal caldo. Proprio Nel bosco, infatti, è il titolo del racconto di Akutagawa da cui Kurosawa trasse il film. Ma questo non lo sapevo, allora, dato che lessi il racconto soltanto parecchi anni dopo1.
Infine, la scelta che feci all’epoca di reiterare l’attacco «Tempo fa un uomo…», mutuato dal libro, ottenendo quella ripetizione ossessiva, e l’ultimo testo che non chiude la vicenda ma la riapre bensì, innescando un loop che potrebbe non avere mai fine… Questi sono aspetti della mia personalità che emergono spesso in ciò che faccio, soprattutto nel modo in cui scrivo: la mia ossessività, il mio ripartire sempre dalla fine, che è poi un nuovo inizio, instancabilmente, e ossessivamente, appunto. Poi la mia inestinguibile attitudine verso la fuga2 da tutto ciò che mi fa male, da cui mi sento schiacciato e soffocato, che limita la mia libertà (e sono tanto cose quanto persone). E la tendenza a nascondermi, ad allontanarmi dal centro dalla scena, andando là dove nessuno mi vede e posso finalmente sentirmi a mio agio, proprio perché ignorato e inosservato.
Tutti questo aspetti sono presenti in Nel bosco, che quindi mi rappresenta, io credo, come forse nessuna altra cosa che ho fatto.
1 Nel film di Kurosawa è un raggio di sole, nel racconto di Akutagawa invece, una folata di vento scopre il bel volto della donna proprio mentre il bandito la sta guardando. Ma la vicenda della bella rapita dal bandito sicuramente si può trovare in almeno due dei frammenti di Ise monogatari che ho usato nel libro. Possibile che Akutagawa, scrivendo il suo racconto, avesse in mente queste parti di quel libro antichissimo (per lo più attribuito a Ariwara no Narihira), uno dei classici della letteratura giapponese più celebri e più amati in quel paese.
2 In Ise monogatari si fa spesso riferimento a un gentiluomo che si allontana (forse fuggendo) dalla capitale e va verso la campagna, muovendo da un contesto civilizzato e mondano a uno naturale, dove vivere piuttosto in solitudine. Anche questo aspetto, che si ritrova nella mia personale vicenda – soprattutto in quegli anni, ma non soltanto – stabilisce con quel testo un preciso legame.
Nei dintorni del testo
In quello che scrivo ciò che è veramente importante rimane fuori, eludendo la descrizione. È comunque presente, da qualche parte lì nei pressi, e di quando in quando sfiora il testo, gli passa accanto senza fermarsi, senza che lo si possa mai vedere completamente, Come qualcosa che si intravede appena, con la coda dell’occhio, un attimo prima che scompaia.
In quei momenti, il testo si illumina, risonando, e sembra prendere realmente vita.
Fermata a richiesta

Ce qui m’a poussé à faire ce film, c’est le gâchis qu’on a fait de tout. C’est cette civilisation de masse où bientôt l’individu n’existera plus. Cette agitation folle. Cette immense entreprise de démolition où nous périrons par où nous avons cru vivre. C’est aussi la stupéfiante indifférence des gens, sauf de certains jeunes actuels, plus lucides.
R. BRESSON
Le Diable, probablement… potrebbe essere il film di Bresson che mi è piaciuto meno, quando lo vidi la prima volta. Rivedendolo ora, dopo circa 46 anni dalla sua uscita, salta finalmente agli occhi la sua importanza: continua a piacermi meno degli altri, ma la sua forza è intatta, anzi, il film è talmente assonante a questo momento storico (che iniziava allora, o era appena iniziato) da sembrare fatto proprio ora. Non è cambiato praticamente nulla, anzi, tutto è peggiorato esponenzialmente, ad esempio l’ipocrisia e l’insensatezza nelle dichiarazioni degli ‘esperti’, che minimizzano qualsiasi prospettiva allarmante, smontando le giuste domande di chi ha visto con chiarezza e sgomento l’enorme pericolo incombente su tutti (proprio a causa loro, i tecnocrati, sempre calmi, sorridenti, rassicuranti) con sufficienza e superficialità, come quando si parla a un bambino che ha paura del buio. Certo, l’uso che il regista francese fa dei suoi ‘modelli’ (così chiamava i suoi attori, da un certo momento in poi tutti non-professionisti) è tale da farli spesso apparire quasi degli automi (Kaurismaki una volta disse che in questo film B. vuol controllarli a tal punto che non sembrano neppure più capaci a camminare con naturalezza). Perciò forse uno – io ad esempio – si sente meno coinvolto, ad esempio rispetto a Pickpocket, a Balthazar o a Mouchette. Ma la materia è talmente forte, scotta talmente, che certe (presunte) manchevolezze risultano di secondaria importanza, e non arrivano a indebolire il film.
Charles potrebbe dire e fare certe cose ora, non ci sarebbe in questo nessuna stonatura, perfino il suo abbigliamento, e il suo taglio di capelli, non appaiono troppo datati, ovvero: erano differenti rispetto alla norma allora, lo sarebbero – sia pure forse in misura assai maggiore – anche adesso. Quando, parlando con lo psichiatra che cerca inutilmente di metterlo in difficoltà con le sue domande, enumera una serie di comportamenti ‘normali’ (o normati) a cui aderiscono tutti, essi sono grossomodo gli stessi – con l’aggiunta di molti altri, nuovi – messi in pratica ai nostri tempi (“Perdendo la vita, ecco che cosa perderei: il piano famiglia, le vacanze organizzate, culturali, sportive, linguistiche, la biblioteca dell’uomo colto, tutti gli sport, come adottare un bambino, le associazioni dei genitori, degli insegnanti e degli alunni, l’insegnamento, educazione da 0 a 7 anni, da 7 a 14 anni, da 14 a 17 anni, educazione propedeutica al matrimonio, gli obblighi militari, l’Europa, le decorazioni, i distintivi, onorificenze, la donna sola, le malattie per assistiti, le malattie dei non assistiti, l’uomo di successo, esoneri fiscali per persone anziane, le tasse comunali, la cessione del quinto, i canoni radiotelevisivi, credito concesso al consumo, riparazione a domicilio, indicizzazione dei contratti, IVA e ritenuta d’acconto“.), lo fa con una specie di sorriso sarcastico (sarcasmo che informa di sé anche il tono di voce), amaramente, in un crescendo che quasi gli toglie il fiato, talmente è incalzante. E noi sappiamo – io per lo meno so – che è proprio così: è tutto falso, sfinente, demoralizzante, annichilente. Allora perché continuare su quella strada, perché non sottrarvisi il più possibile, attuando l’unica arma di difesa in nostro (teorico) possesso: la rinuncia, attuata con l’uscita dal gregge che procede con occhi e orecchie coperti verso il nulla, la catastrofe che si materializzerà proprio così, grazie alla complicità inconsapevole e incessante della massa delle persone che compongono la società. Charles compie l’atto di rinuncia estremo dopo aver capito che ogni altro comportamento sarebbe inane e del tutto inutile, come sparare colpi di pistola nella Senna, e dopo aver constatato che nessuno può fare più alcunché di efficace per invertire la tendenza, né con nessuno è più possibile conversare (dal latino, ‘trovarsi insieme’) e rimarrebbe quindi, dopo l’apatia, soltanto il mutismo e infine il silenzio. Così si suicida con l’aiuto, a pagamento, del tossicomane Valentin, che gli spara alle spalle mentre sta finendo di pronunciare l’ultima frase, «Credevo che in un momento così grave avrei avuto dei pensieri sublimi… Vuoi sapere cosa penso?».
Ora – questa potrebbe essere la differenza sostanziale, dopo 46 anni – si è meno prostrati dalla disillusione, ci si trova molto più avanti (forse troppo?) di Charles sulla strada della vita, si sono fatte delle cose nel tempo, ci sono stati anche momenti di luce e di forza ai quali appoggiarsi, per tenersi in equilibrio. Si può provare a resistere, ostinatamente, mantenendo nel contempo un’espressione imperturbabile mentre si continua a guardare tutto, ad ascoltare tutto, senza farsene contaminare né indebolire, anzi, fortificandosi. Senza cedere, né concedere mai.
Come finiscono le civiltà


da Le Diable probablement, di Robert Bresson, 1977
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