Come è dolce commuoversi. Non si sceglie di farlo, spesso non si vorrebbe neppure, ma niente, ci si commuove. E poi è bello proprio per questo, perché non si sceglie di farlo, neppure si vorrebbe, ma poi è dolce farsi vincere dalla commozione.
Le lacrime tentano di fuoruscire, noi resistiamo, ma non sempre, a volte non è proprio possibile. Oppure è proprio che non vogliamo resistere, così le lasciamo scorrere, e ci bagnano le guance.
È davvero strano che quando ci si commuove venga fuori questo liquido, che poi ci scorre sulla pelle. Ed è sempre piacevole sentirlo scorrere, forse perfino quando si piange di dolore.
In questo caso è difficile apprezzarla, quella sensazione, che pure veramente proviamo, come un sollievo.
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Un immane non-luogo
Diversi anni fa un sociologo-antropologo francese coniò l’espressione “non-luogo” riferendosi a posti come i terminal degli aeroporti, i centri commerciali o i corridoi di spostamento nelle stazioni ferroviarie o della metropolitana1. Luoghi neutri, di passaggio, ai quelli è quasi impossibile assegnare un valore di durata e di affettività, o di affettività nella durata, insomma un legame fra noi e quelli. Così, a partire da qualche lustro fa, si è iniziato a fare uso di certi dispositivi portatili in grado di stabilire legami, sia pure effimeri e in buona parte virtuali, con altre persone in altri luoghi, proprio per compensare le mancanze di cui sopra. Nel tempo, e molto rapidamente, c’è stato un effettivo capovolgimento (verrebbe quasi di citare la nota espressione di Illich, corruptio optimi pexima, che definisce la situazione in cui una cosa buona, positiva, da un certo momento in poi si trasforma in male, in qualcosa di negativo), per cui l’uso intensivo e totalizzante, per moltissimi, di quei dispositivi, ovunque e sempre, ha di fatto reso qualsiasi luogo, anche quelli con i quali tutti, sia individui sia collettività, avevano stabilito, da lungo tempo, un legame molto forte e radicato, altrettanti non-luoghi, a tutti gli effetti. Ciò accade perché si verifica uno stravolgimento, o sradicamento, insomma una rottura del legame fra le persone e quei luoghi, e chi usa certi dispositivi sempre e ovunque non è più, non è mai dove fisicamente si trova, ma è trasportato altrove, in un ambito virtuale frequentato da altri suoi simili, persone che stanno fisicamente lontano da lui/lei (oppure anche molto vicino, affiancati). In questo modo, attraverso questo venir meno di certi legami, e con la trasformazione da luogo a non-luogo, tutto può succedere a certi luoghi, ovvero alle città e al paesaggio in cui si vive. Si abbattono antiche costruzioni, si tagliano alberi, spesso di interi viali o di boschi, si aprono strade – spesso del tutto inutili alla collettività, ma soltanto a certi potenti realtà economico-industriali – dove prima c’erano boschi o campi: nessuno ci fa caso, al massimo uno sguardo distratto o un pensiero fugace prima di re-immergersi nel mare del nulla digitale, dove tutti sono (ovvero credono di essere) insieme, ma da nessuna parte, in un nuovo immane non-luogo.
Perché è questo, io credo, il punto: la differenza fra luogo e non-luogo può essere assai labile, trattandosi di situazioni impermanenti e relative. Un luogo è tale perché una comunità, oppure un individuo, ha sviluppato nel tempo legami affettivi con esso, e allora anche un terminal di aeroporto, oppure una scala mobile in un centro commerciale, prototipi del non-luogo secondo Augé, possono assurgere alla condizione di luogo. Analogamente, un’antica piazza, un bosco, una casa in cui si è vissuti a lungo, possono perdere la qualità di luogo se una comunità o un individuo se ne distanzia sempre più, al punto di trovarvisi senza rendersene conto, oppure passivamente, insensibilmente, quando la sua attenzione e quindi i suoi legami affettivi con tali realtà saranno venuti meno.
1 Ammetto di non avere mai letto uno di quei libri ma di essermi fatto un’idea attraverso l’uso che dell’espressione si è fatto e ancora si fa, anche da parte di persone sicuramente autorevoli. È una mia lacuna, dovrei forse colmarla, per evitare di essere impreciso o ripetitivo. Insomma, per evitare di affermare cose che già potrebbero trovarsi nei libri di Marc Augé.
L’apoteosi di Billie Dawn

Nata ieri (Born Yesterday) è un vecchio film, l’avevo visto da bambino in televisione. Tutto quel poco che mi ricordavo era legato alla protagonista, Judy Holliday, i suoi atteggiamenti da svampita e quella inconfondibile parlata (nel doppiaggio di Rina Morelli, che pare imitasse bene la voce dell’attrice americana, anche se non ho mai visto quella versione). Il film – rivisto ieri sera – in gran parte regge ancora bene, anche se crollerebbe, o poco meno, senza la protagonista, che è certamente perfetta per la parte (già interpretata in teatro, a Broadway). Lei, Holliday, apparentemente non fa nessuno sforzo, sembra proprio così, svampita e spontanea sempre, tanto è vero che il personaggio le si appiccicò addosso per tutto il resto della carriera. Anzi, due anni dopo l’uscita del film, convocata da una commissione senatoriale (istigata dal famigerato documento Red Channels, pubblicato dal periodico di estrema destra Counterattack) perché sospettata – insieme a, fra gli altri, i più famosi: Orson Welles, Leonard Bernstein, Harry Belafonte, Aaron Copland, John Garfield, Lisa Sergio, Dashiell Hammet, Alan Lomax, Charlie Chaplin… – di “attività anti-americane”, vale a dire di essere comunista1, scelse, con grande intelligenza e spregiudicatezza, di recitare come se fosse davvero Billie Dawn (la nata ieri del film), parlando con lo stesso particolare tono di voce squeaky (stridulo), sgranando frequentemente gli occhi e sorridendo ammiccante spesso e volentieri. Non ho mai potuto vedere una registrazione di quella audizione – ammesso che esista, penso di sì – ma da quanto ho letto lei se la cavò alla grande. Negò di essere mai stata una commie e di aver neppure mai sostenuto certe organizzazioni ritenute, a torto a ragione, comuniste, ma non esitò a dichiarare (un po’ come nel film, quando finalmente apre gli occhi, capisce che razza di uomo è Broderick Crawford e osa fargli una lezione su cosa siano la democrazia e i diritti inalienabili della gente comune e quanto lui sia spregevole) che, pur non avendo niente a che fare con loro, ritiene che gli si debba riconoscere il diritto di pensarla diversamente da altri, riconosciuto dalla Costituzione americana. Insomma, ebbe molto coraggio, dissimulato dietro la maschera dell’oca, la ‘nata ieri’ incolta e superficiale, provocando così spesso simpatia e ilarità fra i presenti all’audizione, compresi i membri della commissione. Tutt’altro che stupida, però, come il film stesso alla fine rivelerà, trionfalmente, quando lei e Paul Verral (William Holden) si libereranno del bieco Harry Brook / Broderick Crawford neutralizzandolo e correndo quindi verso l’agognato matrimonio. Judy Holliday, insomma, uscì vincitrice dalla temuta audizione e pare che dopo non ebbe più fastidi, a differenza di tanti blacklisted da Hollywood, che ebbero la carriera stroncata, oppure dovettero emigrare verso il Regno Unito o l’Europa. Ovviamente l’esperienza le costò in termini di sforzo nervoso, perché dovette essere molto brava per non insospettire coloro che la interrogavano, e soprattutto non irritandoli sentendosi presi in giro.
Dopo, parlandone con un amico, un attivista dei diritti civili se ben ricordo, affermò di non essersi affatto vergognata di assumere quella parte; semmai, fu sempre molto fiera del fatto che evitò accuratamente di rivelare i nomi di sospettati di comunismo (“I didn’t name names”), obiettivo precipuo di certe audizioni. Una trappola in cui caddero, per viltà o perfino per canaglieria, non pochi suoi colleghi, o altri esponenti dell’ambiente hollywoodiano (casi emblematici quelli dei registi Elia Kazan e Edward Dmytryk).
C’è un momento nel film, verso la fine, quando Billie ha ormai aperto gli occhi e deciso di rompere con il suo ingombrante fidanzato, che già era arrivato al punto di picchiarla per costringerla a firmare certi documenti compromettenti. Finalmente liberatasi di ogni paura e di ogni ritegno, gli grida in faccia “Nazista!”, provocando la sua reazione sgomenta, dato che non riesce a rendersi conto del significato del termine e se si tratti di un insulto. In verità Billie, nella versione originale grida bensì “Fascista!”, epiteto ben più adatto al personaggio, un prepotente e un prevaricatore abituato a soverchiare il prossimo senza disdegnare l’uso della violenza. Eravamo nel 1950, in Italia il fascismo era caduto da sette anni, da cinque si era in una repubblica fondata, anche, sull’antifascismo; eppure, la potente censura italiana, piena di ex-fascisti ricondizionati (per usare un termine molto in uso attualmente), sempre pronta a intervenire per tagliare e, appunto, censurare, spietatamente, non si fece alcuno scrupolo di alterare il dialogo del film. Perché non era ammissibile, già nell’Italia del dopoguerra, nominalmente antifascista, che in un film, sia pure americano, qualcuno usasse il termine per quello che effettivamente è, o era: un giudizio molto severo, anzi un insulto.
Ho scoperto questa cosa soltanto dopo aver visto il film, mentre facevo una ricerca su internet per approfondirne la conoscenza. Una scoperta spiacevole, che lascia l’amaro in bocca, ma anche molto istruttiva.
1 In verità erano quasi tutti semmai anti-razzisti, pacifisti, oppositori della Spagna franchista e della bomba atomica, ecc
L’altro James Stewart

Chiamate Nord 777 di Henry Hathaway è un film veramente bello. Si può dire che ogni sua immagine – non soltanto ogni sequenza – seppure mostrata sempre con asciuttezza, quasi con understatement, sia intensa e arrestante. Non si indugia nell’effetto, quasi mai, è tutto reale, schietto, diretto. Pur essendo il film abbastanza lungo il suo ritmo è teso, ci sono molte ellissi, di cui il regista (con il montatore) fa un uso eccellente, evitando di perdere tempo mostrando parti della storia che pure sono decisive per il suo svolgimento. Appare al centro dello schermo un’insegna, o una frase scritta sulla macchina per scrivere, a sintetizzare una svolta della vicenda, oppure una fase cruciale, senza far uso di troppe immagini o parole. Ogni oggetto inquadrato, non soltanto le facce degli attori, è pregnante e carico anche di pathos, al punto da inquietare, spesso, chi guarda il film, catalizzando la sua attenzione: un cartello nel parlatorio del carcere, un orologio a muro, il numero sulla porta della falsa testimone, per non parlare dei molti particolari della macchina della verità all’opera sul corpo del recluso (il sempre bravo Richard Conte) mentre viene sottoposto a un difficile e delicato esame della sua affidabilità e sincerità. Per quanto riguarda gli attori, le loro espressioni facciali sono misurate, non si vedono smorfie o strabuzzamenti, proprio perché è piuttosto, e soltanto, il film a contare, il suo ritmo, la sua forza trainante tenuta sempre viva con un serrato e preciso montaggio. Quella di Hathaway è una lezione di regia essenziale, sobria, senza però mai diventare arida, tutt’altro – nonostante il taglio semi-documentaristico, piuttosto in voga in quegli anni. Il film è bensì ricco e vario, pieno di soluzioni intriganti e mai banali, come già i titoli di testa, che scorrono sulle pagine di una specie di block-notes (trattandosi di un film del 1948, è un’idea interessante e innovativa). Ma anche subito dopo, con le strane immagini della Chicago del XIX secolo in fiamme, evidentemente realizzate con dei modelli, ma molto bene, con la città vista dall’alto. Senza soluzione di continuità – mentre una voce fuori campo rievoca i fatti essenziali del film (presentato all’inizio come “Una storia vera”) – si passa a immagini, sempre dall’alto e da una certa distanza, della Chicago attuale, e sono anche queste non banali, semmai misteriose e inquietanti, e rendono bene l’idea dell’estrema durezza della vita lì, come verrà chiaramente fuori durante il film.
Poi appare James Stewart, che nella prima parte del film – anche questo è un aspetto insolito del film, e probabilmente avrà preso alla sprovvista i primi spettatori – è davvero piuttosto antipatico, realista fino al cinismo, e si decide ad occuparsi della vicenda di una madre che offre un ricco premio a chi fornirà prove utili a scagionare il figlio e a farlo uscire dalla galera dove langue da undici anni, soltanto dopo molte insistenze da parte del suo direttore. L’evoluzione dell’atteggiamento del personaggio interpretato da Stewart, attraverso un travaglio interiore crescente, che lo porta a mutare radicalmente la sua opinione, è certamente uno dei punti di forza del film. Immagino che vedendo la prima parte del film il pubblico americano fosse rimasto spiazzato e deluso scoprendo nell’attore tanto amato aspetti negativi a cui non era abituato. Poi, piano piano, è come se Stewart tornasse ad essere sé stesso, la persona ben nota, con le sue proverbiali qualità, tanto apprezzate dai suoi affezionati sostenitori. Si potrebbe dire che da un certo punto in poi l’attore esageri perfino un po’, indulgendo nelle ben note mosse ed espressioni, per ridiventare a tutti gli effetti il solito James Stewart – e soprattutto per farlo vedere. Ma sono sfumature tutto sommato trascurabili, è comprensibile che l’attore ci tenesse a riuscire convincente, a farsi riconoscere insomma. Bisogna considerare il fatto che nell’America di quegli anni (fino almeno a tutti i ’50) certi attori, come lui, Henry Fonda, John Wayne e altri, erano in verità delle maschere, nel senso che proponevano sempre la stessa persona, con le stesse movenze ed espressioni e soprattutto le stesse qualità morali. Erano convinti – e con loro gli studios – che fosse di estrema importanza il fatto che il pubblico li riconoscesse sempre, riconoscendosi in loro, nelle loro qualità, ed era un fatto che andava oltre il cinema, sconfinando nella vita reale. Erano infatti personaggi pubblici e in quella società così fondamentalmente puritana dovevano proporsi sempre come eroi, o comunque come figure positive, paladini del bene, pur con qualche trascurabile difetto caratteriale, che gli si perdonava perché faceva parte del personaggio. Per quanto ne so, James Stewart impersonò una sola volta in carriera un personaggio negativo, in un film della serie dell’Uomo Ombra, dove era addirittura l’assassino, smascherato alla fine del film. Ma era ancora molto giovane, doveva ancora forgiare la sua maschera, e credo che quell’occasione sia rimasta l’unica eccezione di tutta una lunga carriera1.

La parte finale è veramente molto coinvolgente, perfino elettrizzante, grazie al lavoro del regista e a quello degli attori, Stewart ma non soltanto lui. Quello che accade davanti ai nostri occhi sfida quasi la verosimiglianza, l’idea di Mc Guire (il reporter impersonato da Stewart) è talmente inusitata da apparire quasi folle ma forse proprio perciò riesce convincente, sia per il pubblico sia per gli altri personaggi all’interno del film. Teniamo ben presente che Call Northside 777 è stato girato nel 1948, poco meno di vent’anni prima di Blow-Up, il grande film di Antonioni. Eppure succede già la stessa cosa: da una foto che parrebbe banale e insignificante, successivi macro-ingrandimenti arrivano a svelare un segreto che vi era celato. In questo caso da circa dodici anni, mentre nel film di Antonioni non erano trascorse che poche ore fra il momento in cui la foto fu scattata e quello in cui l’ultimo, fatale ingrandimento ci mostra la verità nascosta, pur essendo sempre stata lì, di fronte ai nostri occhi (e a quelli di David Hemmings, soprattutto).
1 Non tutti i grandi divi di Hollywood fecero questa scelta, quantomeno non in maniera così drastica. Humphrey Bogart, se pure apparve sempre in parti di duro, però affascinante, qualche (rara) volta ne fece di negative, di gangster spietati e brutali. Cary Grant, anche se era sempre riconoscibile alla prima occhiata (stessa pettinatura e stesso aspetto fisico per decenni) fece anche, di quando in quando, personaggi non così positivi, e comunque una certa ambiguità traspariva sempre dalle sue espressioni, era anzi un po’ la sua cifra. Ma così altri, e lo stesso Fonda, già anzianotto, con Sergio Leone interpreterà per la prima volta un personaggio negativo a tutto tondo. Il caso di Stewart è davvero particolare, credo, proprio perché ci teneva a non deludere mai il suo pubblico, perciò non rischiò praticamente mai. E questo è forse stato il suo vero limite in quanto attore, peraltro sicuramente bravo.
E F

Non chiedetemi dove andremo a finire perché già ci siamo.
Vivere è diventato un esercizio burocratico.
Coraggio, il meglio è passato.
Gli italiani sono sempre pronti a correre in soccorso dei vincitori.
Basta alzarsi un mattino alle sette e uscire di casa per capire che abbiamo sbagliato tutto.
Quando l’uomo non ha più freddo, fame e paura, è scontento.
L’evo moderno è finito. Comincia il medioevo degli specialisti. Oggi anche il cretino è specializzato.
La civiltà del benessere porta con sé proprio l’infelicità.
Ennio Flaiano
un catalogo di sguardi (dalla finestra)
















La vernalizzazione
(…) lo sfacelo di ogni istituzione non soltanto politica che stiamo vivendo non ci rende necessariamente impotenti: è sempre possibile trovare nel passato e custodire anche nelle condizioni più avverse il seme vernalizzato che al tempo opportuno non mancherà di dischiudersi.
G. AGAMBEN (da Tra attori e burattini, su Una voce, 19 novembre 2024)
Precauzioni contro i fanatici (per salvarsi l’anima)
Ci sono persone non in grado di pensare. La loro scatola cranica è semivuota e le pareti sono intonacate con un impasto a base di cacca di gallina. Quando ‘pensano’, in verità si limitano a scegliere, aprendo i cassetti del loro piccolo archivio, una frase fatta contenente almeno un luogo comune, qualcosa che sia comunque sempre ad hoc, adatto alla situazione, come per un vestito. Dopo averla tolta dal cassetto, la pronunciano o la scrivono, certificando e perpetuando così ogni volta la vacuità loro e del sistema di cui fanno parte. Chi realmente pensa, chi cerca ogni volta di entrare in sintonia con un’esperienza che si trova a vivere, o di afferrare il senso di un fenomeno a cui gli capita di assistere, denudandosi al suo cospetto, non può aver nulla a che fare con quelle persone e dovrebbe accuratamente evitare di mischiarsi con esse, per salvaguardare la propria preziosa integrità. E la propria anima, soprattutto.
(ringrazio Werner Herzog, Totò e Peppino De Filippo per avermi dato, sia pure del tutto inconsapevolmente, sostegno morale e ispirazione nella stesura di questo piccolo testo; qualcuno capirà come e perché, tutti gli altri se ne facciano una ragione)
Piante in cammino e ciottoli che volano
Due esperienze con il lavoro di Andrea e Raffaella
Ho avuto modo di collaborare con Andrea Caretto e Raffaella Spagna in più di un’occasione durante gli anni di e/static, particolarmente nello spazio espositivo blank. Soprattutto due di questi progetti hanno lasciato una traccia profonda, nella storia di e/static e in quella mia personale, ed ebbero luogo a distanza di circa sei anni uno dall’altro: il primo, l’installazione Soil Practice, nel 2009, l’altro una performance, Mineral Altar, nel 2015. Due progetti diversi fra loro, che però mostrano caratteri comuni, e per quanto riguarda quelli dissimili, essi possiedono una reciproca complementarietà, e mi paiono esemplari del particolare modo di ‘fare arte’ di questi due autori, in grado di ben rappresentare le linee essenziali, portanti, di tutto il loro lavoro.
In linea generale le opere di Caretto e Spagna hanno sempre una forma instabile, che muta si può dire continuamente, e ogni possibile immagine che voglia documentarle è bensì un frammento dell’insieme, che è semmai multiforme e non si può mai afferrare con un solo sguardo ma soltanto immaginare. Ovviamente se ne può parlare, o scrivere, e chi ascolta o legge può farsene un’idea; ma l’approccio migliore è sempre quello diretto, il fatto di trovarsi fisicamente al cospetto dell’opera, in un momento della sua vita, soprattutto mentre loro la stanno creando. Meglio ancora, avere l’opportunità – come spesso è possibile fare – di lavorare con loro alla realizzazione di un’opera. Che, appunto, non ha una forma definita una volta per sempre, ma può assumerne un numero spesso potenzialmente infinito, finché la sua vitalità è in atto, finché i due, spesso con la collaborazione del cosiddetto pubblico, se ne prendono cura in molti modi. Ma non poche delle loro opere, una volta attivate, riescono a procedere del tutto autonomamente, senza alcun intervento esterno, umano, che faccia seguito a quello o a quelli iniziali.

È il caso di Soil Practice, emblematica per il fatto di comprendere molte delle modalità principali del particolare approccio di Andrea e Raffaella alla creazione. Inaugurata il 16 aprile 2009, l’installazione comprendeva un certo numero di manufatti (vasche in acciaio modulari di forma rettangolare, per contenere terriccio o acqua), quindi alcuni strumenti tecnologici – ma di un tipo alquanto elementare – in grado di sostituirsi all’azione umana sul lungo periodo, per fornire l’indispensabile regolare fornitura di acqua. Le vasche venivano quindi riempite, appunto con terriccio o acqua, dopodiché – e qui subentra il coinvolgimento di altri autori, che collaborano con i due alla creazione –, il 28 maggio, in occasione di un nuovo incontro pubblico, tutti i presenti erano invitati a mettere i noccioli dei frutti appena mangiati in una grande zolla di terra arata. Che era stata appena aggiunta agli altri elementi per dare avvio, anche lì, alla crescita che si sarebbe protratta fino all’inizio di autunno, mettendo in atto la modalità principale, quella della crescita appunto, peraltro del tutto incontrollabile dai due, ma soltanto favorita, in remoto (dopo l’attivazione di un sistema di irrigazione munito di temporizzatore). Durante quel lungo periodo (in tutto più di cinque mesi) una imponente trasformazione ebbe luogo, affatto spontaneamente, senza sosta, e del tutto avulsa dal tempo convenzionale inventato e utilizzato dagli uomini, eludendo qualsiasi rispetto degli orari di apertura del luogo, un grande terrazzo a cui si accedeva dallo spazio espositivo.
Sono state fatte centinaia di immagini per documentare l’opera, in qualunque ora del giorno, e se si confrontano le prime, scattate ad aprile, con le ultime, di settembre, risulta a tutta prima difficile capire che si tratta delle stesse cose in momenti diversi della loro vita, le varie zolle, l’aiuola di terra sterile e la vasca piena d’acqua. Soltanto le fattezze del luogo, il grande terrazzo aperto su due lati, e quelle dei contenitori – le vasche di cui sopra – aiutano, con la loro relativa fermezza, a stabilire una connessione attraverso un ragionamento che supplisce alla natura ingannevole dei dati forniti dalle apparenze.

Qualche anno dopo, fra il dicembre 2014 e il gennaio 2015 Andrea Caretto e Raffaella Spagna, durante una residenza a Krems, in Austria, percorsero ripetutamente le rive del Danubio nella Wachau, raccogliendo centinaia di pietre modellate nel tempo dal fiume, che le aveva spostate da un luogo all’altro, lentamente ma senza sosta, sempre modificando la loro forma e disperdendole in quell’ambiente caotico. La raccolta di Caretto e Spagna – che scelsero ogni pietra fra mille altre presenti in ognuno dei siti esplorati – aveva determinato un passaggio da quel caos a un sistema ordinato, anzi a una serie di sistemi, perché le pietre potrebbero appartenere a più di una classe, a seconda che si consideri la loro forma, il colore o la grandezza, eccetera. E così come il caos a cui precedentemente appartenevano le pietre della Wachau aveva tutte le caratteristiche della provvisorietà e dell’impermanenza, anche questa nuova ordinazione, o queste nuove ordinazioni operate dai due artisti, non sono definitive, non venendo le pietre costrette a permanere indefinitamente in una collocazione stabile e rigidamente fissata. Di volta in volta, esse possono essere deposte – ma non fissate – su un supporto di varia forma e dimensione, creando sempre nuove costellazioni secondo criteri variabili, perché non rigidamente codificati.
Sabato 4 luglio 2015, a blank, Andrea e Raffaella rievocano e rappresentano in una forma nuova la loro azione di ricerca e raccolta delle pietre nella Wachau. Una certa quantità delle quali viene preventivamente accantonata in un angolo dello spazio, nascosta da un grande telo bianco che impedisce al pubblico presente di vederle prima dell’inizio della performance. Lì vicino, un grande tavolo rettangolare avrebbe accolto tutte le pietre estratte a turno dai due performer dal loro provvisorio deposito, sotto il telo bianco. Così, per circa 40′, una danza lenta e muta – soltanto l’intermittente e lieve tintinnare delle pietre quando talvolta si toccavano turbava il silenzio – si svolgerà davanti agli occhi degli astanti, mentre i due, scalzi, tolgono i sassi dal caos nell’angolo, riponendoli sul tavolo a formare nuove composizioni: un breve percorso dal buio dell’indistinto alla chiarezza di un sistema ordinato.
Se nel caso della performance si ha a che fare con dei ciottoli, oggetti inanimati che possono mutare forma o posizione soltanto per effetto di un’azione esterna, in Soil practice tutta l’attività venne compiuta autonomamente (con il contributo di sole, pioggia, vento), e incontrollabilmente, dalle piante, e gli autori si limitarono ad assegnare un luogo al lungo processo e ad attivarlo quindi. Due modalità diverse fra loro che mi sembrano però complementari. Per quanto riguarda invece le somiglianze, entrambe le opere – o per meglio dire, operazioni – di Caretto e Spagna, anche quando stanno, o avvengono, in un interno, hanno sempre un forte legame con un altro luogo, o molti luoghi, esterni, e questo legame – generalmente comprovato dalle apparenze – le rende libere, per cui viene naturale pensare che si trovino lì, in uno spazio chiuso, soltanto provvisoriamente, senza esservi vincolate in modo immutabile1. Il terrazzo, accessibile dallo spazio espositivo, era esposto all’azione di tutti i fenomeni naturali che avrebbero propiziato il processo di crescita dell’installazione. Nella performance, pur non essendo ostentato il legame fra le pietre e la loro provenienza – il letto del Danubio – esso è reale, immanente, e per chi ne viene a conoscenza, anche successivamente, la percezione dell’opera risulta subito assai più ampia, più completa e profonda.
È insomma, quella di questi due autori, un’arte libera dai condizionamenti dello spazio espositivo convenzionale, anche quando, occasionalmente, ha luogo al suo interno.
1 Infatti, in chiusura del progetto, il 21 settembre 2009, tutte le piante cresciute sul terrazzo verranno portate, o riportate, nel loro ambito di competenza, diciamo così: un ambiente naturale dove continuare la vita iniziata lassù.
(scrissi questo testo nel marzo 2023 dopo avere accolto l’invito di Andrea Caretto e Raffaella Caretto che stavano allora iniziando a preparare il loro libro, Bright Ecologies; il testo non venne poi utilizzato in quanto eccedeva sensibilmente il limite delle 3000 battute – limite di cui peraltro non ero a conoscenza)
La lingua
In ogni caso, quel che è avvenuto è la perdita del rapporto poetico con la lingua e la sua sostituzione con un rapporto strumentale in cui colui che crede di usare la lingua ne è invece senza avvedersene usato.
Giorgio Agamben
(da Popoli che hanno perduto la lingua, pubblicato lo scorso 11 ottobre in Una voce, su quodlibet.it)
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