commuoversi

Come è dolce commuoversi. Non si sceglie di farlo, spesso non si vorrebbe neppure, ma niente, ci si commuove. E poi è bello proprio per questo, perché non si sceglie di farlo, neppure si vorrebbe, ma poi è dolce farsi vincere dalla commozione.
Le lacrime tentano di fuoruscire, noi resistiamo, ma non sempre, a volte non è proprio possibile. Oppure è proprio che non vogliamo resistere, così le lasciamo scorrere, e ci bagnano le guance.
È davvero strano che quando ci si commuove venga fuori questo liquido, che poi ci scorre sulla pelle. Ed è sempre piacevole sentirlo scorrere, forse perfino quando si piange di dolore.
In questo caso è difficile apprezzarla, quella sensazione, che pure veramente proviamo, come un sollievo.

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Un immane non-luogo

Diversi anni fa un sociologo-antropologo francese coniò l’espressione “non-luogo” riferendosi a posti come i terminal degli aeroporti, i centri commerciali o i corridoi di spostamento nelle stazioni ferroviarie o della metropolitana1. Luoghi neutri, di passaggio, ai quelli è quasi impossibile assegnare un valore di durata e di affettività, o di affettività nella durata, insomma un legame fra noi e quelli. Così, a partire da qualche lustro fa, si è iniziato a fare uso di certi dispositivi portatili in grado di stabilire legami, sia pure effimeri e in buona parte virtuali, con altre persone in altri luoghi, proprio per compensare le mancanze di cui sopra. Nel tempo, e molto rapidamente, c’è stato un effettivo capovolgimento (verrebbe quasi di citare la nota espressione di Illich, corruptio optimi pexima, che definisce la situazione in cui una cosa buona, positiva, da un certo momento in poi si trasforma in male, in qualcosa di negativo), per cui l’uso intensivo e totalizzante, per moltissimi, di quei dispositivi, ovunque e sempre, ha di fatto reso qualsiasi luogo, anche quelli con i quali tutti, sia individui sia collettività, avevano stabilito, da lungo tempo, un legame molto forte e radicato, altrettanti non-luoghi, a tutti gli effetti. Ciò accade perché si verifica uno stravolgimento, o sradicamento, insomma una rottura del legame fra le persone e quei luoghi, e chi usa certi dispositivi sempre e ovunque non è più, non è mai dove fisicamente si trova, ma è trasportato altrove, in un ambito virtuale frequentato da altri suoi simili, persone che stanno fisicamente lontano da lui/lei (oppure anche molto vicino, affiancati). In questo modo, attraverso questo venir meno di certi legami, e con la trasformazione da luogo a non-luogo, tutto può succedere a certi luoghi, ovvero alle città e al paesaggio in cui si vive. Si abbattono antiche costruzioni, si tagliano alberi, spesso di interi viali o di boschi, si aprono strade – spesso del tutto inutili alla collettività, ma soltanto a certi potenti realtà economico-industriali – dove prima c’erano boschi o campi: nessuno ci fa caso, al massimo uno sguardo distratto o un pensiero fugace prima di re-immergersi nel mare del nulla digitale, dove tutti sono (ovvero credono di essere) insieme, ma da nessuna parte, in un nuovo immane non-luogo.

Perché è questo, io credo, il punto: la differenza fra luogo e non-luogo può essere assai labile, trattandosi di situazioni impermanenti e relative. Un luogo è tale perché una comunità, oppure un individuo, ha sviluppato nel tempo legami affettivi con esso, e allora anche un terminal di aeroporto, oppure una scala mobile in un centro commerciale, prototipi del non-luogo secondo Augé, possono assurgere alla condizione di luogo. Analogamente, un’antica piazza, un bosco, una casa in cui si è vissuti a lungo, possono perdere la qualità di luogo se una comunità o un individuo se ne distanzia sempre più, al punto di trovarvisi senza rendersene conto, oppure passivamente, insensibilmente, quando la sua attenzione e quindi i suoi legami affettivi con tali realtà saranno venuti meno.

1 Ammetto di non avere mai letto uno di quei libri ma di essermi fatto un’idea attraverso l’uso che dell’espressione si è fatto e ancora si fa, anche da parte di persone sicuramente autorevoli. È una mia lacuna, dovrei forse colmarla, per evitare di essere impreciso o ripetitivo. Insomma, per evitare di affermare cose che già potrebbero trovarsi nei libri di Marc Augé.

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