
Nata ieri (Born Yesterday) è un vecchio film, l’avevo visto da bambino in televisione. Tutto quel poco che mi ricordavo era legato alla protagonista, Judy Holliday, i suoi atteggiamenti da svampita e quella inconfondibile parlata (nel doppiaggio di Rina Morelli, che pare imitasse bene la voce dell’attrice americana, anche se non ho mai visto quella versione). Il film – rivisto ieri sera – in gran parte regge ancora bene, anche se crollerebbe, o poco meno, senza la protagonista, che è certamente perfetta per la parte (già interpretata in teatro, a Broadway). Lei, Holliday, apparentemente non fa nessuno sforzo, sembra proprio così, svampita e spontanea sempre, tanto è vero che il personaggio le si appiccicò addosso per tutto il resto della carriera. Anzi, due anni dopo l’uscita del film, convocata da una commissione senatoriale (istigata dal famigerato documento Red Channels, pubblicato dal periodico di estrema destra Counterattack) perché sospettata – insieme a, fra gli altri, i più famosi: Orson Welles, Leonard Bernstein, Harry Belafonte, Aaron Copland, John Garfield, Lisa Sergio, Dashiell Hammet, Alan Lomax, Charlie Chaplin… – di “attività anti-americane”, vale a dire di essere comunista1, scelse, con grande intelligenza e spregiudicatezza, di recitare come se fosse davvero Billie Dawn (la nata ieri del film), parlando con lo stesso particolare tono di voce squeaky (stridulo), sgranando frequentemente gli occhi e sorridendo ammiccante spesso e volentieri. Non ho mai potuto vedere una registrazione di quella audizione – ammesso che esista, penso di sì – ma da quanto ho letto lei se la cavò alla grande. Negò di essere mai stata una commie e di aver neppure mai sostenuto certe organizzazioni ritenute, a torto a ragione, comuniste, ma non esitò a dichiarare (un po’ come nel film, quando finalmente apre gli occhi, capisce che razza di uomo è Broderick Crawford e osa fargli una lezione su cosa siano la democrazia e i diritti inalienabili della gente comune e quanto lui sia spregevole) che, pur non avendo niente a che fare con loro, ritiene che gli si debba riconoscere il diritto di pensarla diversamente da altri, riconosciuto dalla Costituzione americana. Insomma, ebbe molto coraggio, dissimulato dietro la maschera dell’oca, la ‘nata ieri’ incolta e superficiale, provocando così spesso simpatia e ilarità fra i presenti all’audizione, compresi i membri della commissione. Tutt’altro che stupida, però, come il film stesso alla fine rivelerà, trionfalmente, quando lei e Paul Verral (William Holden) si libereranno del bieco Harry Brook / Broderick Crawford neutralizzandolo e correndo quindi verso l’agognato matrimonio. Judy Holliday, insomma, uscì vincitrice dalla temuta audizione e pare che dopo non ebbe più fastidi, a differenza di tanti blacklisted da Hollywood, che ebbero la carriera stroncata, oppure dovettero emigrare verso il Regno Unito o l’Europa. Ovviamente l’esperienza le costò in termini di sforzo nervoso, perché dovette essere molto brava per non insospettire coloro che la interrogavano, e soprattutto non irritandoli sentendosi presi in giro.
Dopo, parlandone con un amico, un attivista dei diritti civili se ben ricordo, affermò di non essersi affatto vergognata di assumere quella parte; semmai, fu sempre molto fiera del fatto che evitò accuratamente di rivelare i nomi di sospettati di comunismo (“I didn’t name names”), obiettivo precipuo di certe audizioni. Una trappola in cui caddero, per viltà o perfino per canaglieria, non pochi suoi colleghi, o altri esponenti dell’ambiente hollywoodiano (casi emblematici quelli dei registi Elia Kazan e Edward Dmytryk).
C’è un momento nel film, verso la fine, quando Billie ha ormai aperto gli occhi e deciso di rompere con il suo ingombrante fidanzato, che già era arrivato al punto di picchiarla per costringerla a firmare certi documenti compromettenti. Finalmente liberatasi di ogni paura e di ogni ritegno, gli grida in faccia “Nazista!”, provocando la sua reazione sgomenta, dato che non riesce a rendersi conto del significato del termine e se si tratti di un insulto. In verità Billie, nella versione originale grida bensì “Fascista!”, epiteto ben più adatto al personaggio, un prepotente e un prevaricatore abituato a soverchiare il prossimo senza disdegnare l’uso della violenza. Eravamo nel 1950, in Italia il fascismo era caduto da sette anni, da cinque si era in una repubblica fondata, anche, sull’antifascismo; eppure, la potente censura italiana, piena di ex-fascisti ricondizionati (per usare un termine molto in uso attualmente), sempre pronta a intervenire per tagliare e, appunto, censurare, spietatamente, non si fece alcuno scrupolo di alterare il dialogo del film. Perché non era ammissibile, già nell’Italia del dopoguerra, nominalmente antifascista, che in un film, sia pure americano, qualcuno usasse il termine per quello che effettivamente è, o era: un giudizio molto severo, anzi un insulto.
Ho scoperto questa cosa soltanto dopo aver visto il film, mentre facevo una ricerca su internet per approfondirne la conoscenza. Una scoperta spiacevole, che lascia l’amaro in bocca, ma anche molto istruttiva.
1 In verità erano quasi tutti semmai anti-razzisti, pacifisti, oppositori della Spagna franchista e della bomba atomica, ecc


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