Precauzioni contro i fanatici (per salvarsi l’anima)

Ci sono persone non in grado di pensare. La loro scatola cranica è semivuota e le pareti sono intonacate con un impasto a base di cacca di gallina. Quando ‘pensano’, in verità si limitano a scegliere, aprendo i cassetti del loro piccolo archivio, una frase fatta contenente almeno un luogo comune, qualcosa che sia comunque sempre ad hoc, adatto alla situazione, come per un vestito. Dopo averla tolta dal cassetto, la pronunciano o la scrivono, certificando e perpetuando così ogni volta la vacuità loro e del sistema di cui fanno parte. Chi realmente pensa, chi cerca ogni volta di entrare in sintonia con un’esperienza che si trova a vivere, o di afferrare il senso di un fenomeno a cui gli capita di assistere, denudandosi al suo cospetto, non può aver nulla a che fare con quelle persone e dovrebbe accuratamente evitare di mischiarsi con esse, per salvaguardare la propria preziosa integrità. E la propria anima, soprattutto.

(ringrazio Werner Herzog, Totò e Peppino De Filippo per avermi dato, sia pure del tutto inconsapevolmente, sostegno morale e ispirazione nella stesura di questo piccolo testo; qualcuno capirà come e perché, tutti gli altri se ne facciano una ragione)

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Piante in cammino e ciottoli che volano

Due esperienze con il lavoro di Andrea e Raffaella

Ho avuto modo di collaborare con Andrea Caretto e Raffaella Spagna in più di un’occasione durante gli anni di e/static, particolarmente nello spazio espositivo blank. Soprattutto due di questi progetti hanno lasciato una traccia profonda, nella storia di e/static e in quella mia personale, ed ebbero luogo a distanza di circa sei anni uno dall’altro: il primo, l’installazione Soil Practice, nel 2009, l’altro una performance, Mineral Altar, nel 2015. Due progetti diversi fra loro, che però mostrano caratteri comuni, e per quanto riguarda quelli dissimili, essi possiedono una reciproca complementarietà, e mi paiono esemplari del particolare modo di ‘fare arte’ di questi due autori, in grado di ben rappresentare le linee essenziali, portanti, di tutto il loro lavoro.
In linea generale le opere di Caretto e Spagna hanno sempre una forma instabile, che muta si può dire continuamente, e ogni possibile immagine che voglia documentarle è bensì un frammento dell’insieme, che è semmai multiforme e non si può mai afferrare con un solo sguardo ma soltanto immaginare. Ovviamente se ne può parlare, o scrivere, e chi ascolta o legge può farsene un’idea; ma l’approccio migliore è sempre quello diretto, il fatto di trovarsi fisicamente al cospetto dell’opera, in un momento della sua vita, soprattutto mentre loro la stanno creando. Meglio ancora, avere l’opportunità – come spesso è possibile fare – di lavorare con loro alla realizzazione di un’opera. Che, appunto, non ha una forma definita una volta per sempre, ma può assumerne un numero spesso potenzialmente infinito, finché la sua vitalità è in atto, finché i due, spesso con la collaborazione del cosiddetto pubblico, se ne prendono cura in molti modi. Ma non poche delle loro opere, una volta attivate, riescono a procedere del tutto autonomamente, senza alcun intervento esterno, umano, che faccia seguito a quello o a quelli iniziali.


È il caso di Soil Practice, emblematica per il fatto di comprendere molte delle modalità principali del particolare approccio di Andrea e Raffaella alla creazione. Inaugurata il 16 aprile 2009, l’installazione comprendeva un certo numero di manufatti (vasche in acciaio modulari di forma rettangolare, per contenere terriccio o acqua), quindi alcuni strumenti tecnologici – ma di un tipo alquanto elementare – in grado di sostituirsi all’azione umana sul lungo periodo, per fornire l’indispensabile regolare fornitura di acqua. Le vasche venivano quindi riempite, appunto con terriccio o acqua, dopodiché – e qui subentra il coinvolgimento di altri autori, che collaborano con i due alla creazione –, il 28 maggio, in occasione di un nuovo incontro pubblico, tutti i presenti erano invitati a mettere i noccioli dei frutti appena mangiati in una grande zolla di terra arata. Che era stata appena aggiunta agli altri elementi per dare avvio, anche lì, alla crescita che si sarebbe protratta fino all’inizio di autunno, mettendo in atto la modalità principale, quella della crescita appunto, peraltro del tutto incontrollabile dai due, ma soltanto favorita, in remoto (dopo l’attivazione di un sistema di irrigazione munito di temporizzatore). Durante quel lungo periodo (in tutto più di cinque mesi) una imponente trasformazione ebbe luogo, affatto spontaneamente, senza sosta, e del tutto avulsa dal tempo convenzionale inventato e utilizzato dagli uomini, eludendo qualsiasi rispetto degli orari di apertura del luogo, un grande terrazzo a cui si accedeva dallo spazio espositivo.
Sono state fatte centinaia di immagini per documentare l’opera, in qualunque ora del giorno, e se si confrontano le prime, scattate ad aprile, con le ultime, di settembre, risulta a tutta prima difficile capire che si tratta delle stesse cose in momenti diversi della loro vita, le varie zolle, l’aiuola di terra sterile e la vasca piena d’acqua. Soltanto le fattezze del luogo, il grande terrazzo aperto su due lati, e quelle dei contenitori – le vasche di cui sopra – aiutano, con la loro relativa fermezza, a stabilire una connessione attraverso un ragionamento che supplisce alla natura ingannevole dei dati forniti dalle apparenze.


Qualche anno dopo, fra il dicembre 2014 e il gennaio 2015 Andrea Caretto e Raffaella Spagna, durante una residenza a Krems, in Austria, percorsero ripetutamente le rive del Danubio nella Wachau, raccogliendo centinaia di pietre modellate nel tempo dal fiume, che le aveva spostate da un luogo all’altro, lentamente ma senza sosta, sempre modificando la loro forma e disperdendole in quell’ambiente caotico. La raccolta di Caretto e Spagna – che scelsero ogni pietra fra mille altre presenti in ognuno dei siti esplorati – aveva determinato un passaggio da quel caos a un sistema ordinato, anzi a una serie di sistemi, perché le pietre potrebbero appartenere a più di una classe, a seconda che si consideri la loro forma, il colore o la grandezza, eccetera. E così come il caos a cui precedentemente appartenevano le pietre della Wachau aveva tutte le caratteristiche della provvisorietà e dell’impermanenza, anche questa nuova ordinazione, o queste nuove ordinazioni operate dai due artisti, non sono definitive, non venendo le pietre costrette a permanere indefinitamente in una collocazione stabile e rigidamente fissata. Di volta in volta, esse possono essere deposte – ma non fissate – su un supporto di varia forma e dimensione, creando sempre nuove costellazioni secondo criteri variabili, perché non rigidamente codificati.
Sabato 4 luglio 2015, a blank, Andrea e Raffaella rievocano e rappresentano in una forma nuova la loro azione di ricerca e raccolta delle pietre nella Wachau. Una certa quantità delle quali viene preventivamente accantonata in un angolo dello spazio, nascosta da un grande telo bianco che impedisce al pubblico presente di vederle prima dell’inizio della performance. Lì vicino, un grande tavolo rettangolare avrebbe accolto tutte le pietre estratte a turno dai due performer dal loro provvisorio deposito, sotto il telo bianco. Così, per circa 40′, una danza lenta e muta – soltanto l’intermittente e lieve tintinnare delle pietre quando talvolta si toccavano turbava il silenzio – si svolgerà davanti agli occhi degli astanti, mentre i due, scalzi, tolgono i sassi dal caos nell’angolo, riponendoli sul tavolo a formare nuove composizioni: un breve percorso dal buio dell’indistinto alla chiarezza di un sistema ordinato.

Se nel caso della performance si ha a che fare con dei ciottoli, oggetti inanimati che possono mutare forma o posizione soltanto per effetto di un’azione esterna, in Soil practice tutta l’attività venne compiuta autonomamente (con il contributo di sole, pioggia, vento), e incontrollabilmente, dalle piante, e gli autori si limitarono ad assegnare un luogo al lungo processo e ad attivarlo quindi. Due modalità diverse fra loro che mi sembrano però complementari. Per quanto riguarda invece le somiglianze, entrambe le opere – o per meglio dire, operazioni – di Caretto e Spagna, anche quando stanno, o avvengono, in un interno, hanno sempre un forte legame con un altro luogo, o molti luoghi, esterni, e questo legame – generalmente comprovato dalle apparenze – le rende libere, per cui viene naturale pensare che si trovino lì, in uno spazio chiuso, soltanto provvisoriamente, senza esservi vincolate in modo immutabile1. Il terrazzo, accessibile dallo spazio espositivo, era esposto all’azione di tutti i fenomeni naturali che avrebbero propiziato il processo di crescita dell’installazione. Nella performance, pur non essendo ostentato il legame fra le pietre e la loro provenienza – il letto del Danubio – esso è reale, immanente, e per chi ne viene a conoscenza, anche successivamente, la percezione dell’opera risulta subito assai più ampia, più completa e profonda.
È insomma, quella di questi due autori, un’arte libera dai condizionamenti dello spazio espositivo convenzionale, anche quando, occasionalmente, ha luogo al suo interno.

1 Infatti, in chiusura del progetto, il 21 settembre 2009, tutte le piante cresciute sul terrazzo verranno portate, o riportate, nel loro ambito di competenza, diciamo così: un ambiente naturale dove continuare la vita iniziata lassù.

(scrissi questo testo nel marzo 2023 dopo avere accolto l’invito di Andrea Caretto e Raffaella Caretto che stavano allora iniziando a preparare il loro libro, Bright Ecologies; il testo non venne poi utilizzato in quanto eccedeva sensibilmente il limite delle 3000 battute – limite di cui peraltro non ero a conoscenza)

La lingua

In ogni caso, quel che è avvenuto è la perdita del rapporto poetico con la lingua e la sua sostituzione con un rapporto strumentale in cui colui che crede di usare la lingua ne è invece senza avvedersene usato.

Giorgio Agamben

(da Popoli che hanno perduto la lingua, pubblicato lo scorso 11 ottobre in Una voce, su quodlibet.it)

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Come si è arrivati a questo punto

Ha ancora senso esporre1 un’opera d’arte, cosiddetta? E se sì, deve essere per forza in un luogo deputato, al chiuso, asettico e depurato? Un luogo dove si deve andare, lo si deve raggiungere sapendo che una volta arrivati ci troveremo delle opere d’arte, oppure una performance.
È stato così per lungo tempo, a partire da un certo periodo, ma prima non era proprio la stessa cosa, c’erano altri modi di proporre le opere d’arte visiva, ad esempio nelle chiese, oppure nelle piazze o in altri luoghi pubblici, e allora era anche possibile imbattersi in esse, senza averlo voluto fare e senza neppure averlo previsto (quindi senza aspettative, e sorpresi da esse, spesso). Ma ora, già da un paio di secoli (con i Salons parigini), esistono certi luoghi deputati, dove si mostrano le opere d’arte. Sappiamo bene cosa è successo in seguito, la nascita delle gallerie vere e proprie, con tutti i comportamenti, o riti – di natura prettamente borghese – che sono venuti come conseguenza (orari di apertura, inaugurazioni, ecc.). Poi, nel secondo dopoguerra, soprattutto negli Stati Uniti, l’utilizzo di certi spazi ex-industriali, quindi atipici rispetto alla norma, in termini di vastità e di volume degli spazi; un uso che si estese ben presto anche all’Europa e che favorì ovunque lo sviluppo di certe modalità realizzative, con opere bi o tridimensionali, e poi le prime installazioni, cosiddette. Ma questa tendenza, nella sua fase iniziale, essendo spontanea, aveva una sua freschezza e autenticità, qualità che si persero quando certi spazi vennero via via ‘normalizzati’, ripuliti e resi sempre più asettici, ad esempio con la consuetudine sempre più adottata del colore grigio dei pavimenti e del bianco delle pareti, fino ad arrivare allo stravolgimento (o aberrazione) del cosiddetto white cube, che operò il definitivo estraniamento – dopo l’esordio dei Salons – dell’arte dalla vita reale, che si svolge, imprevedibile e scarsamente controllabile, all’esterno di certi luoghi.
Ecco, io trovo che dare ora per scontato – come si fa da parte di quasi tutti– che l’arte visiva debba trovarsi lì dentro, ripetendo usi e clichè in atto ormai da decenni e quasi immutati, è qualcosa di pernicioso, perché si tratta di una non scelta, un comportamento acritico e oggettivamente passivo, che perpetua uno status quo ormai da tempo svuotato di senso. Anche perché nel frattempo, mentre si assisteva al progressivo imporsi, quasi incontrastato, del white cube, e al proliferare delle gallerie e dei musei (o non-musei, ovvero non più luoghi di conservazione ma molto spesso di intrattenimento) fino alla definitiva aberrazione delle fiere d’arte, si verificavano anche altri fenomeni, che avrebbero dovuto aprire gli occhi a molti sui rischi legati al prevalere del cosiddetto sistema dell’arte, proponendo alternative inusitate e soprattutto credibili. Dapprima le esperienze di artisti illuminati, e soprattutto coraggiosi, che presero a ignorare i luoghi deputati per dare forma ad ‘azioni estetiche’, molto spesso effimere, là fuori nel vasto paesaggio, lontano anche dalle città, non soltanto dalle gallerie e dai musei. E a partire dai primi anni ’70, gli happening e le performance, che potevano avere luogo ovunque, e soprattutto in maniera imprevedibile, spesso quasi di nascosto, imitando analoghi fenomeni attuati nel mondo naturale altro dall’uomo da parte di animali, piante o fenomeni atmosferici. Non era neppure raro che una performance non avesse spettatori, o ne avesse pochissimi, magari uno soltanto (vedi il caso di Tehching Hsieh e delle sue performance la cui esistenza era attestata da un solo testimone, che ne garantiva la veridicità2). Ma sempre esse avvenivano senza preavviso o quasi, ovunque, e spesso era perfino difficile capire che si era in presenza di un tale evento, che iniziava improvviso e finiva anche allo stesso modo, e il performer – generalmente, ma non sempre, lo stesso autore – poteva sparire alla fine, senza neppure aver stabilito alcun contatto con i presenti. Quella era una direzione giusta da seguire, sviluppandola, essendo materiata e attuata all’insegna dell’imprevedibilità, dell’incertezza, e soprattutto avendo una natura effimera e transeunte, dato che spesso non lasciava neppure alcuna traccia di quanto era appena accaduto. Come accade quando siamo testimoni – o compartecipi – di un evento naturale che ci coglie improvvisamente, inatteso, mentre siamo occupati a fare qualcosa, camminando, guardando fuori dalla finestra, mangiando o bevendo qualcosa stando seduti a un tavolo, o qualsiasi altra attività che ci tiene impegnati in una azione di routine. Certamente, il ‘difetto’ (rispetto alle regole del mercato, tutto fondato sulla commercializzazione di oggetti) di certe performance o azioni all’aperto o comunque al di fuori da musei o gallerie, stava proprio in quella che era la loro reale qualità precipua, la non oggettualità, che le rendeva, appunto, inadatte a uno sfruttamento commerciale, a differenza di quadri e sculture. Ma si capì ben presto come aggirare l’ostacolo, documentandole con foto o video, quindi oggetti commerciabili, che mantenevano sì un legame con l’azione da cui provenivano, ma erano bensì altro da quella, essendosi raffreddate e cristallizzate. Ancora peggio, in tempi più recenti, è stata l’omologazione, o normalizzazione, delle performance, che vengono annunciate spesso con largo anticipo, comunicandone il titolo, quindi l’ora di inizio, poi la durata, e infine, addirittura, una loro sinossi (come per un film), in grado di togliere loro ogni residuo di imprevedibilità e privandole della proprietà di sorprendere, di inquietare anche, e di operare un effettivo sovvertimento della routine che attanaglia quotidianamente, in modo pressoché ineluttabile, tutti. Tutto ciò che era programmatico, si può dire per definizione, in tutte quelle performance e quegli happening pionieristici, che spesso non venivano neppure documentati e il cui ricordo, spesso e volentieri, sopravviveva soltanto nella memoria dei presenti quel giorno mentre accadevano.

Baudelaire e altri suoi sodali Decadenti (cosiddetti), come si sa, coniarono l’espressione épater la bourgeoisie, per significare l’urgenza e la necessità ineludibile di sovvertire l’ordine borghese precostituito, scandalizzando i suoi rappresentanti. Che in effetti andavano su tutte le furie di fronte a certe provocazioni, almeno fino al primo dopoguerra, grazie all’azione delle avanguardie artistiche attive nei paesi europei preminenti. Poi qualcosa cambiò, i borghesi iniziarono a trovare aspetti eccitanti in certe manifestazioni, e smisero ben presto di scandalizzarsi, trovando in esse occasioni atte a distrarli dal trantran quotidiano, casa-ufficio-chiesa, interrotto da qualche rara occasione festiva. Contemporaneamente si capì che certe opere d’arte visiva, che pure nelle intenzioni degli autori dovevano provocare un effetto (blandamente) turbativo dell’ordine borghese, dopo essere state accettate e metabolizzate dalla borghesia stessa potevano anche acquisire un valore venale. Iniziò così a prendere piede il fenomeno del collezionismo, attività quasi esclusivamente esercitata da persone abbienti, con un surplus di denaro che poteva essere speso per generi voluttuari o per cose apparentemente del tutto inutili, come appunto le opere d’arte. Si sa come sono poi andate le cose, e ormai da decenni l’arte visiva, quella più fragrante, più ‘nuova’ (almeno apparentemente) si potrebbe dire venga realizzata proprio per arrivare a quei rappresentanti della borghesia abbiente, professionisti (medici, avvocati, notai, eccetera) che, siccome si annoiano, oppure svolgono professioni redditizie ma sgradevoli, dapprima possono distrarsi, e magari provare un piccolo brivido ammirando certe opere, e poi, dopo averle acquistate, le trasformano in capitali, spesso più sicuri di quelli tradizionali, come la cartamoneta o le azioni. Un circuito chiuso sempre più irrigidito ed esclusivo, un vero e proprio sistema di potere in grado di svalutare e sminuire sempre più le qualità spirituali (quando ci sono) delle opere d’arte mentre potenzia quelle mondane, prosaiche, come può essere appunto il loro valore economico, stabilito dal mercato – espressione identificativa e diretta di quel sistema. Il quale agisce di concerto con le istituzioni museali, strumentalizzandole, proprio per aumentare il valore delle opere, grazie al lavoro indefesso di una moltitudine di professionisti del campo, non soltanto i galleristi, ma anche e soprattutto, si direbbe, i curatori, i critici, i direttori di museo.

Con progetti come campo volo [v. qui], ad esempio, e poi La collera delle lumache [v. qui], si è cercato di restituire ad eventi generalmente consumati e devitalizzati dall’abitudine, certe caratteristiche di imprevedibilità, prima, e di volatilità, durante, atte a suscitare una curiosità preventiva, quindi a innescare un senso di attesa, infine stimolando la massima attenzione nel corso dell’evento. Quando chi è presente sa bene che esso non verrà ripetuto, che quella cosa, quelle cose, si vedranno soltanto quell’unica volta, per due ore, due e mezza al massimo, e poi mai più. Tentativo quasi sempre riuscito, anche se alcune volte volte meglio di altre. Non è moltissimo, forse, ma già qualcosa: il luogo espositivo – chiamiamolo così per semplificare – subiva in quelle occasioni un positivo effetto di rivitalizzazione, diventava meno sicuro e prevedibile, come un qualcosa di ignoto a cui avvicinarsi con cautela e una certa circospezione, quasi pericoloso, in un certo senso. Per una volta non ci si andava tanto per obbedire a una routine, aspettandosi le stesse cose di sempre, da esperire attraverso gli stessi, abusati meccanismi di fruizione e percezione. Non c’era più molto di scontato, si sapeva soltanto il nome dell’artista, o degli artisti, nient’altro, a parte l’indirizzo del luogo, il giorno e l’ora.
Perché è così, il mondo dell’arte non è diverso da tutto il resto, in questa società. Dove tutto deve essere regolato, controllato, scandito da orari e da comportamenti all’insegna della consuetudine, della ripetizione indefinita degli stessi riti, degli stessi gesti. Ciò che accade con il linguaggio stesso, parole che si sovrappongono alle cose, ovvero si frappongono fra noi e quelle, rendendole inaccessibili, incorporee anche quando sono davanti a noi, a pochi passi, ma irrigidite come cadaveri. L’arte occupa una casella all’interno di un sistema bloccato, immobilizzata lì per poter essere manipolata e strumentalizzata come si fa con le cose inanimate, o con certi animali domestici. E il suo compito parrebbe essere quello di indurre nelle persone che ne “fruiscono” (brutta parola ma rende l’idea, in un mondo in cui si dà per scontato che si facciano le cose sempre e soltanto per trarne un piacere – meglio se consolatorio –, strumentalmente quindi) la stessa condizione di immobilità, la stessa attitudine ad essere controllate, manipolate, sempre più private della propria indipendenza, della propria libertà di agire e di pensare in modo autonomo, svincolato da quella morsa. Si applica a tutto l’etichetta ‘arte contemporanea’ – un’espressione che non significa niente – e da lì in poi tutto va bene, si va lisci come l’olio: gli spazi espositivi tendono a somigliarsi tutti, le cose esposte sembrano essere state appena estratte da appositi scaffali, sono copie di prototipi creati decenni fa, nei casi migliori appena un po’ modificate, giusto per dare loro una parvenza di novità. Non accade mai niente di nuovo, e come potrebbe? Il contenitore è quello, le formule sono sempre le stesse, il linguaggio poi è l’aspetto peggiore, gestito com’è da professionisti3 che, con un comportamento ottuso e corrivo, utilizzano certi termini in modo pedissequo, acriticamente, soprattutto per guidare il pubblico, portandolo per mano lungo sentierini lastricati e accuratamente spazzati, come se ne vedono attorno a certe villette asettiche e fatte in serie. Si vuole soprattutto, sempre, omogeneizzare (come con i cibi per i neonati, per renderli più facilmente digeribili), normalizzare, togliere ogni asperità, ‘spiegare’ sempre tutto, quindi togliere mistero. Il risultato di tutto questo insano fervore è la chiusura mentale causata dall’assuefazione a praticare certi luoghi partecipando ai riti vacui e immutabili che vi vengono celebrati, diventando così, quasi sempre senza rendersene conto, oggettivamente conniventi.
Come è possibile perpetuare questo andazzo? Perché sentire il bisogno di andare all’ennesima inaugurazione, per vedere cose già viste e straviste, ascoltare sempre le stesse frasi insulse? Sì, certo, si vede gente, si possono combinare cose, allacciare relazioni, ma cosa c’entra l’arte con tutto questo4? Proprio niente, quasi sempre, e le eccezioni sono del tutto inconsistenti, non possono spostare i termini della questione.

(ho iniziato a scrivere questo testo lo scorso 29 aprile, chiudendolo infine, dopo alcuna integrazioni e mofifiche, oggi 13 ottobre)

1 Il dizionario online Oxford Language, come prima definizione del termine dà: Offrire alla vista o all’attenzione altrui, mettere in mostra. “esporre la merce in vetrina”. L’esempio indicato è altamente significativo, direi.

2 Fa eccezione quella, durata un anno come le altre, che vedeva Hsieh vivere costantemente all’aperto, fuori da qualsiasi spazio chiuso. In quel caso, molti, anzi moltissimi, avendo la performance avuto luogo a New York, lo videro, ma nessuno sapeva che lui stesse eseguendo una performance.

3 Un certo professionalismo (una stortura che Ivan Illich aveva ben individuato già diverse decine di anni fa, scrivendo sull’argomento pagine molto efficaci) è la vera piaga del mondo dell’arte attuale, o meglio, degli ultimi trent’anni almeno. Curatori, direttori di museo, galleristi, editori ‘specializzati’ (con i loro stolidi e perniciosi editors), fotografi, allestitori, e last but not least, gli stessi artisti, o presunti tali. Molti dei quali troppo spesso ‘si adeguano’, obbedendo a qualsiasi diktat, anche i più scomodi, e adattando il proprio lavoro in modo da conformarlo agli standard richiesti dal sistema, per non essere ‘cacciati dal tempio’ e avere anche loro almeno un piattino di minestra. Ovvero, la possibilità di partecipare a una collettiva di una certa risonanza, se non addirittura di fare una personale in galleria; ma anche per essere inseriti in una pubblicazione di settore, o perfino avere un’opera nello stand di una fiera. Insomma, tutto è possibile, tutto è lecito, pur di ottenere “visibilità”.

4 Domanda che ne provoca quasi in automatico un’altra: ma che cos’è l’arte?

Terra in cielo


Nel taoismo il Cielo (天 Tiān) è considerato il luogo del continuo, incessante mutamento delle cose. Quando nel 2009 Alndrea Caretto e Raffaella Spagna allestirono Soil Practice sul terrazzo di blank si poterono concretamente vedere, durante i cinque mesi di durata dell’installazione, gli effetti dell’azione celeste. Data la posizione del sito, aperto su tre lati ed esposto all’azione di sole, vento e pioggia, un numero incalcolabile di semi, provenienti soprattutto dai due viali alberati nelle vicinanze, trasportati dal vento lo sorvolavano, e una parte si posò sulle varie aiuole e sulle zolle inserite nel pavimento. Dove crebbero senza posa, giorno e notte – la stagione, da aprile a settembre, è la più propizia – e infine, divenute ormai piante rigogliose che non potevano più stare nelle vasche metalliche, vennero tolte da Andrea e Raffaella per essere portate in aperta campagna, dove avrebbero continuato a crescere liberamente, ancora mutando, incessantemente, secondo la regola del cielo.
In quei cinque mesi, ogni volta che salivo i due scalini per uscire sul terrazzo dove Soil Practice stava vivendo la sua breve intensa vita, subito dopo avervi messo piede era già cielo.

(ho scritto questo testo a novembre del 2023 rispondendo a una richiesta degli amici Raffaella Spagna e Andrea Caretto, che stavano allora preparando il loro libro Bright Ecologies, recentemente pubblicato; sul quale libro il testo compare in una forma parzialmente – e arbitrariamente, senza il mio consenso – modificata da chi ha curato la pubblicazione)


POSTILLA

Era stato uno dei miei pochi dubbi: ciò che dovevo mettere dopo il punto in fondo al terzo periodo, quello chiuso da “…nel pavimento”. Inizialmente avevo messo “Lì”, ovviamente per ‘scavalcare’ “nel pavimento” e collegarmi alle “aiuole” e alle “zolle”. Ma non ne ero molto convinto, perciò optai, definitivamente, per l’avverbio “Dove”, che secondo me assolveva ottimamente tale funzione. Fra l’altro, a mio parere, con quel “Dove” in qualche modo riuscivo ad agganciarmi a tutto, ovvero a zolle, aiuole e pavimento, perché quello era il luogo di Soil Practice, un tutto organico, un sistema creato a organizzato proprio lì, che prendeva lo spazio occupato da ogni piastrella come modulo per le parti che vennero inserite nel pavimento: due zolle, un’aiuola di terra sterile, una vasca piena d’acqua e un grande mucchio di terra arata.
Questa è la motivazione che mi spinse a fare certe scelte, in accordo col mio modo peculiare di organizzare i testi che scrivo, quasi sempre molto brevi: scegliere con cura le parole e la punteggiatura per fare in modo che il testo risulti una sorta di luogo unico, dove tutto ha un suo preciso senso. Un po’ allo stesso modo si costruisce una casa: le fondamenta prima, poi i muri maestri con porte e finestre, quindi il pavimento, o i pavimenti, e i muri divisori, infine il tetto. Ogni elemento nel suo posto, a svolgere la sua funzione essenziale, coordinata con quelle svolte da tutti gli altri.
Per chi ha letto i miei testi, anche soltanto una parte di essi, ciò dovrebbe risultare chiaro, per gli altri può essere più difficile. Ma è purtroppo impossibile che chi si muove da sempre all’interno di un sistema chiuso e ripetitivo come quello della cosiddetta arte contemporanea, abituato a utilizzare un proprio gergo ‘professionale’ e a servirsi di schemi mentali e linguistici rigidi, possa entrare in sintonia con il mio modo di scrivere e quindi con questo testo in particolare. Ci vorrebbero umiltà, sensibilità, apertura mentale, elasticità, e quando queste qualità vengono tutte a mancare la possibilità di entrare in sintonia con il mio testo non può verificarsi.
Ma ritorniamo alla questione cruciale: perché “Dove” e non un altro avverbio, come “Qui”. C’è anche un altro aspetto molto importante per me, almeno quanto quelli appena esposti. Bisogna considerare la natura particolare del testo Terra in cielo, scritto di getto e sorretto da un tono in bilico fra prosa e poesia, vagamente arcaico, ma anche gestuale, selvatico, che troverebbe la sua dimensione naturale in una lettura ad alta voce. Così, dopo aver accertato che sul piano semantico “Dove” funziona mentre “Qui” non funzionerebbe, si deve tener conto di un altro elemento in gioco: il suono. La ‘d’ di “Dove” è dura e forte, la si sente infrangersi contro la dentatura anteriore, soprattutto quella posta in alto, come se volesse scappar fuori dalla bocca a tutti i costi. All’opposto, la ‘q’ di “Qui” è molle, liquida, esce con facilità dalla bocca che la pronuncia perché non la forza ma la accarezza bensì. “Dove” si deve dire ad alta voce, “Qui” si sussurra, quasi lascivamente. Perciò, considerando che il punto in chiusura del terzo periodo doveva stabilire una micro-pausa (ma nell’estetica giapponese) fra quello e il quarto, la mia scelta, sicura e inderogabile, in favore di una consonante invece che di qualsiasi altra. Perché, insomma, il “Qui” ad inizio periodo indebolisce il testo, gli toglie gran parte della vitalità, appunto, selvatica, che gli volevo dare, che aveva fino a quel punto e che avrebbe mantenuto con il mio “Dove”.

18 ottobre 2024

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L’inganno

Apparentemente, grazie all’arte – quella visiva tanto quanto il cinema, la musica e la letteratura – possiamo ancora esperire dimensioni altre rispetto a quella dominante, razionale, scientista, tecnologica. Pare così possibile avere visioni o vivere esperienze straordinarie, vitali, vivere insomma come si viveva secoli fa, rischiando spesso la vita ma traendone la massima intensità.
Attenzione, si tratta di un inganno, peraltro evidente: sono surrogati di tali esperienze quelle che crediamo di vivere ora guardando un film, assistendo a un concerto o leggendo un libro, visitando un museo o una galleria. Così facendo ci allontaniamo sempre più dalla vera vita, là fuori, dove tutto continua ad accadere secondo antichissime e implacabili regole, perciò fa freddo o caldo, piove, grandina o nevica, si fa fatica, anche molta, si soffre, e proprio perciò, di quando in quando, si va in estasi.

(28 settembre 2024)

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Ho sempre saputo

ついに行く道とはかねて聞きしかど
昨日今日とは思わざりしを

I have always known
That at last I would
Take this road, but yesterday
I did not know that it would be today.


(Traduzione di Kenneth Rexroth)

Ho sempre saputo
che alla fine avrei
preso questa strada, ma ieri
non sapevo che sarebbe stato oggi.

Ho scoperto questa poesia di Ariwara no Narihira, peraltro molto famosa, grazie a Junko Wada. Si dice che sia l’ultima scritta dal poeta prima di morire, per cui egli qui alluderebbe alla sua stessa morte, ormai imminente e inevitabile. È tipica, ed esemplare, dell’approccio buddista alla vita, improntato alla consapevolezza dell’impermanenza di tutte le cose.

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