Tre volte Ana

Spesso si dice o si scrive a proposito del capire un’opera d’arte – pittura o scultura, letteratura o cinema – o perfino una persona o un luogo. Capire deriva dal latino càpere, e più indietro da una parola greca, kàptein che significa ‘prendere’ o anche, dopo un tortuoso percorso fra vari idiomi nel corso di molti secoli, ‘afferrare’, quindi anche ‘contenere’ (da cui la ‘capienza’ di un contenitore).
Insomma, si cerca di prendere, afferrare, bloccare qualcosa che si muove, o che tende naturalmente a farlo, per imprigionarlo in una forma che si vorrebbe perpetua, immutabile. In verità, possiamo soltanto entrare temporaneamente in contatto – anche per un attimo – con un’opera, una persona, un luogo, in un determinato momento della sua vita e della sua storia. Rivedendoli, ritornandoci, dopo qualche tempo, non sono più quell’opera, persona, luogo, ci accorgiamo che sono qualcos’altro e non possiamo pretendere di capirli, ovvero di farli coincidere con la forma in cui ci apparvero la prima volta, e poi le volte successive. Non capire, non afferrare, non bloccare, bensì stabilire una relazione che determina in noi un’impressione, ogni volta una del tutto nuova, che aggiungendosi a tutti le precedenti contribuisce a creare un’idea, affatto multiforme e contraddittoria, di quell’opera, persona o luogo.


Verso la metà di Cerrar los ojos, un film (uscito nel 2023) di Victor Erice vediamo apparire un volto che ha qualcosa di familiare, anche se ci vuole qualche secondo per rendersi conto che appartiene ad Ana Torrent. Quegli occhi, che lasciarono un segno indelebile in chi vide il primo film di Erice, El espíritu de la colmena, non sono più così spalancati, cinquant’anni sono trascorsi, un tempo molto lungo e all’epoca lei aveva soltanto sette anni. Allora ogni loro sguardo esprimeva stupore, audacia, inquietudine e tristezza, spesso tutte queste cose insieme, mentre ora si sono stretti, come se gli fosse ormai impedito, per sempre, di spalancarsi.
Questa apparizione è uno dei primi segnali che ci mettono, io credo, sulla strada giusta per individuare il senso dell’ultima opera (finora) di Erice, che tratta del tempo, della sua azione costante e implacabile sulle persone, che cambiano esteriormente ma rimangono sempre avvinte a tutte le esperienze vissute, a tutti coloro con cui le hanno condivise, ai luoghi in cui sono avvenute. È un’opera sui legami invisibili fra presente e passato.
Anche il personaggio della Torrent si chiama Ana, come nello stesso primo film, quando aveva sette anni, e dove pure inizialmente ne aveva un altro. Ma a un certo punto durante la lavorazione Erice decise che i quattro protagonisti (Ana, la sorella maggiore e i loro genitori) si dovessero chiamare ognuno con il proprio vero nome, dopo essersi accorto che la bimba era sconcertata e confusa non riuscendo a capire per quale motivo tutti avessero un altro nome1. E così, «Yo soy Ana», dirà nella seconda parte di questo film incontrando il padre (che non la riconosce) per la prima volta dopo vent’anni. E «Yo soy Ana» aveva già detto cinquant’anni prima, nel primo film di Erice. Due volte Ana, anzi tre, perché la prima è lei, Ana Torrent, che contiene e rappresenta le altre due: come cucire insieme, con lentezza, accuratamente, tre vite – una reale e due immaginarie – nell’arco di mezzo secolo. Ma cos’è mezzo secolo? Un soffio davanti a uno specchio, che si appanna per pochi secondi. Durante i quali tutto viene ricordato, anzi rivissuto.
La Torrent stabilisce un altro legame forte fra i due film, il primo e l’ultimo di Erice, perché in entrambi chiude gli occhi – attivando un’altra vista, più profonda e più pura, soprattutto più libera, che va oltre le apparenze – e sempre in un momento cruciale. La prima volta alla fine, gli occhi della bimba chiudendosi creano una separazione fra lei e noi che la guardiamo, chiudendo di fatto anche il film. La seconda, Ana li chiude dopo aver rivisto il padre (quasi sempre assente nella sua vita anche prima) ricomparso dall’oblio dopo vent’anni, durante i quali era stato dato per morto. Perciò il titolo del film, che pure ci mostra questo gesto fatto da un’altra persona, la giovanissima figlia del vecchio ebreo nel film incompiuto di vent’anni prima (La mirada del adiós, ovvero Lo sguardo dell’addio) che apre e chiude Cerrar lo ojos, parrebbe piuttosto riferirsi ai due momenti di Ana Torrent, separati da cinquant’anni della sua vita reale e apparsi in due film di finzione.
Sembra proprio essere, Cerrar los ojos, un film su Ana Torrent, anche. Ma si deve aver visto prima di questo (o anche dopo) il primo di Erice, El espiritu de la colmena, per rendersene conto. Il cinema come registrazione del mutamento in cui incorre una persona in cinquant’anni della sua vita, dall’infanzia alla mezza età. Quindi non soltanto finzione ma anche realtà, e i due livelli – ciò che accade in questo film – si intersecano, lavorando in osmosi.

Infine, ancora una volta, ed è la terza su tre film di Victor Erice, assistiamo a una vicenda di relazione fra una figlia e suo padre. In questo caso sono addirittura due figlie e due padri, idivisi fra Cerrar los ojos e La mirada del adiós. È quanto meno possibile che questo aspetto riguardi da vicino proprio lo stesso autore, della cui vita privata, peraltro, io non so niente.

1 Qualcosa di simile accade, ad esempio, in Sotto gli ulivi di Kiarostami (incidentalmente, un autore che credo Erice apprezzi molto) e in Pane e fiore di Makhmalbaf. In entrambi, gli attori, non-professionisti che nel primo caso devono interpretare sé stessi, non riescono a fingere e si rifiutano di compiere, sia pure all’interno di un film, gesti che non compirebbero mai nella vita, e vogliono essere chiamati con il loro vero nome.

ps: ho scoperto pochi minuti fa, mentre mi accingevo a pubblicare questo testo, che nel 2011 Erice realizzò, all’interno di un progetto collettivo dedicato alla tragedia di Fukushima, 3.11, A Sense of Home, un corto di 3′ intitolato Ana, tres minutos. Ovviamente, con Ana Torrent.

Ritorno a Paris, Texas


Credo di aver visto Paris, Texas quando era uscito nei cinema, nel 1984, o forse nel 1985, dipende da quando uscì in Italia, perché credo che andai subito a vederlo. Era quello un momento topico della mia vita, quando tutto stava cambiando per me e fu come ripartire da zero. Infatti da lì in poi, proprio a partire da quell’anno, dopo la grave crisi del 1983, la mia vita fu diversa, quasi completamente (nel senso che non cambiai lavoro – anche se fui trasferito fuori Torino, in una piccola città). Vedere quel film fu un’esperienza scioccante, già a partire dall’inizio, ma soprattutto la parte finale, quella nel peep-show. Ricordo ancora bene che non riuscii a fermare le lacrime, là da solo nel cinema (non credo ci fosse molta gente, doveva essere di pomeriggio): evidentemente mi immedesimavo nella vicenda di Travis, era come se vedessi me stesso rappresentato da quel personaggio. In ogni caso, si trattò di un’esperienza così intensa, quasi devastante, psicologicamente, che decisi di non rivederlo mai più, unico fra tutti i grandi film di Wenders, diciamo fino a Il cielo sopra Berlino (tutti gli altri venuti dopo per me contano poco, molti non li ho neppure mai visti).
Questo finché qualche giorno fa, trovando su internet una versione di ottima qualità, ho deciso di scaricarla: prima o poi l’avrei rivisto. È successo ieri e mentre lo guardavo ho avuto la strana sensazione, da un certo punto in poi, che non fosse lo stesso film e soprattutto la mia percezione era molto diversa da quella di allora, per quel che mi ricordavo. In particolare, avevo completamente rimosso la figura di Hunter, il figlio di Travis e Jane, in verità fondamentale, perché senza di lui non sarebbe successo niente: ritrovandolo dopo quasi quattro anni, quasi per caso, il padre capisce, sia pure non subito, cosa dovrà fare, per il bene del figlio più che per il suo. Questa mia dimenticanza non me la so spiegare, è davvero strana, anche perché Hunter stabilisce un nesso molto importante con Alice, la protagonista (quando credo avesse la stessa età) di Alice nelle città, sicuramente uno dei film di Wenders che amo di più. Forse, chissà, me ne ero reso ben conto già allora e la cosa non mi piacque, come se ci fosse una sovrapposizione fra i due personaggi che non approvavo, per qualche motivo. Fatto sta che ieri sera mi sono dapprima stupito vedendo apparire Hunter, poco dopo l’inizio del film, e soprattutto mi sono stupito dopo accorgendomi della sua importanza nello sviluppo della vicenda (mentre da subito avevo pensato che non l’avremmo più visto, una presenza episodica e marginale, senza conseguenze). Quindi, quando ho capito che sarebbe stato al centro di tutto ciò che sarebbe seguito alla sua prima apparizione, per me è stato come vedere un altro Paris, Texas, del tutto nuovo, come se Hunter fosse stato, chissà come, infilato nel film dopo il 1984.
Perciò si è creata una strana situazione dentro di me, tornato dopo circa quarant’anni a guardare un film che mi aveva davvero sconvolto quella volta, ma che non riconoscevo, non del tutto, soprattutto a causa del bambino, che allora non c’era. E questo fatto ha determinato in me una sorta di scompenso, la presenza di una mancanza, ovvero l’assenza di qualcosa che ho perduto e non potrò mai più ritrovare.
Peraltro, non potrò mai più rivedere il film come quella prima volta, mai più provare le stesse intense emozioni (ma altre certamente sì, come ieri sera), perché non sono più quello, è passato troppo tempo e in quegli anni l’intensità delle mie esperienze era tale da non potersi realmente ricordare, o meglio rivivere, anche perché non mi è mai più capitato niente del genere, e soprattutto non potrebbe capitarmi mai più.
Ma la mia impossibilità di capire, di provare le stesse emozioni di allora, io credo vada soprattutto attribuita all’apparizione (per me è stata tale, ieri sera) di Hunter, per la sua centralità nella storia: non ho mai vissuto la sua esperienza, non posso quindi immedesimarmi in lui, come invece mi fu facile, allora, farlo con quella dei suoi genitori, soprattutto con Travis, per ovvi motivi.
Forse soltanto alla fine, quando, dopo qualche minuto di studio, di naturale esitazione, il bimbo si avvicina alla madre e finalmente la abbraccia (liberando anche lei dalla tensione e dalla paura di essere rifiutata, come castigo per la sua fuga) mi sono realmente, per qualche attimo, commosso. Ma, io credo, in un modo del tutto nuovo, ben diverso da quella prima volta.
In verità ci potrebbe essere un’altra spiegazione della mia rimozione del personaggio Hunter, e forse capisco perché non mi sia venuta in mente prima. È perché mi fa sentire molto a disagio, mettendo a nudo un senso di colpa che avevo inconsapevolmente sepolto in me per tutti questi anni.

14 settembre 2024

Parole allo sbando

Vorrei parlare di una tendenza attuale, molto diffusa, all’uso e soprattutto all’abuso di certi termini. Ad esempio, il verbo ‘declinare’, in cui mi sono imbattuto recentemente mentre leggevo la presentazione di un libro di Peter Handke: “(i suoi lavori) lo impongono prepotentemente nel panorama internazionale, declinando in una maniera particolarissima la svolta performativa e post-drammatica che segna il teatro di quegli anni.”
È l’ennesima volta che mi succede, sia leggendo sia ascoltando, e ogni volta mi blocco, perplesso. Ho fatto pochissimo latino (e anche male…) moltissimi anni fa, ma ricordo ancora bene che ‘declinare’ si usava sempre in relazione a un termine, “declinare la parola tale, o la talaltra”. In tempi assai recenti, si è iniziato a usarlo spesso e volentieri, secondo me a sproposito, come se fosse giusto e necessario farlo. Perché questo impulso così pressante? È chiaro che si tratta di una moda, ogni epoca ha i suoi termini e le sue espressioni ricorrenti. Ma consideriamo quel passaggio dalla presentazione di un libro di H.: dove sta il senso? A me sembra che questo vezzo di usare il termine in questione arrivi al punto di forzare la realtà delle cose, che infatti viene alterata dalla sua presenza. A scuola il professore ci diceva: «Declinami questa parola», ci dava un compito, e stava a noi eseguirlo, dopodiché si veniva giudicati, a seconda che lo avessimo svolto bene o male. In questo caso potrebbe sembrare (è un paradosso il mio) che qualcuno avesse assegnato a Handke un preciso compito, «Declinami, per favore, la svolta performativa e post-drammatica che segna il teatro di questi anni». O magari se lo era dato egli stesso… Ma certamente non è andata così, questa è bensì l’opinione di chi ha scritto quella nota, che forse voleva assolutamente utilizzare il verbo ‘declinare’. Io insomma dubito che Handke intendesse, programmaticamente, declinare la svolta performativa e post-drammatica che segna il teatro di quegli anni (ma sarà poi vero che ci fu questa svolta? non sono in grado di dirlo, ahimè, perciò do per vera l’affermazione): semplicemente, voleva fare qualcosa nel teatro (lui narratore) e gli venne fuori così, secondo le sue attitudini. Mentre invece quel “declinando …”, sembra attestare un’intenzione precisa e una presa di posizione deliberata. Trovo che certe affermazioni siano discutibili perché fatte a posteriori basandosi su dei documenti – dato che chi le fa non c’era allora, molto tempo fa – cercando quindi di stabilire delle linee di condotta e mettendo così in essere un’operazione assai poco convincente, perché arbitraria. “Ecco, facciamo un po’ d’ordine”, sembra pensare colui o colei, mettiamo tutto e tutti a posto, nel rispettivi cassetti, o scaffali.
Quel che voglio dire è che un termine come ‘declinare’, nelle varie forme verbali, usato in questo modo inevitabilmente stravolge il senso del contesto in cui viene applicato, che perciò in qualche modo si adatta ad esso. Ovvero, siamo noi che leggendo o ascoltando, involontariamente, a causa della presenza ingombrante e perentoria di tale termine, stravolgiamo il senso delle cose, perché altrimenti, se diamo a ‘declinare’ il suo senso appropriato, che lo riterrebbe adatto soltanto a certe situazioni (in numero assai limitato) la frase collassa, insomma perde senso.
Ma cosa realmente significa ‘declinare?

Declinare: intr. e tr. [dal lat. declinare, comp. di de– e clinare «chinare, piegare»; in alcune accezioni (v. oltre), dal fr. décliner]. – 1. intr. (aus. averea. Piegare, volgersi verso il basso; […] In grammatica, enunciare ordinatamente le forme che un sostantivo, un aggettivo, un pronome assumono nella declinazione… (Treccani)
gramm. flettere un sostantivo, un aggettivo, un pronome o un articolo secondo lo schema della sua declinazione. (De Mauro)
ma anche: rifiutare, spec. con cortese diniego: declinare un invitoun’offertadeclinare ogni responsabilità, evitare di assumerne. (De Mauro)
Declinazione: In morfologia, per declinazione si intende la flessione di un nome, aggettivo, pronome o articolo secondo il genere, il numero e il caso. Il concetto di declinazione è dunque simile a quello di coniugazione, che riguarda però i verbi. La declinazione riguarda, nella lingua italiana, solo genere (maschile e femminile) e numero (singolare e plurale); il caso viene sostituito dall’uso delle preposizioni. Vengono declinati sostantivi, aggettivi, articoli e pronomi. (Wikipedia)1.

Peraltro, ci sono tanti altri esempi analoghi, come quello di ‘resilienza’, ultimamente, a torto o a ragione, usatissimo, mentre fino a pochi anni fa appariva molto raramente. Vuol dire che determinate azioni o situazioni che definirebbe non esistevano? non si resisteva prima? non si agiva o reagiva con pazienza e tenacia trovandosi in situazioni molto difficili? Oppure ‘ricerca’, a sua volta utilizzato spesso impropriamente, come evidenziò, magistralmente, Giorgio Agamben in un suo intervento di qualche anno fa.
È il caso, questo di ‘declinare’, di un termine che da un certo momento in poi viene usato impropriamente, da un numero consistente di persone, in un modo che richiama da vicino un altro uso del tutto improprio, e frequentissimo, quello di ‘piuttosto’ («piuttosto che…»). Tendenze che nascono non si sa bene come e poi proliferano per emulazione, forse perché emanano il fascino perverso di tutto ciò che pare nuovo e inusitato, e pazienza se è privo di senso.
In verità, questa è una di quelle parole il cui senso originario è stato stravolto e sostituito da un altro, vago, che viene legittimato, attraverso un uso intensivo e diffuso, dagli appartenenti a una determinata cerchia. Chi non vi appartiene e legge correttamente il vero senso del termine non capisce, e viene perciò escluso dalla cerchia, finché non deciderà di stare al gioco e fingerà a sua volta di capire. È insomma un caso emblematico di come si possa formare una ideosfera2, ovvero un ambito esclusivo all’interno del quale una comunità di persone si esprime e comunica utilizzando un gergo che non ha cittadinanza al di fuori di tale ambito. Ma il fatto di parlarlo e usarlo nella scrittura determina di fatto una divisione netta fra chi sta dentro e chi sta fuori. È una cosa che aveva bene intuito decenni fa Ivan Illich quando parlava del potere già allora sempre più soverchiante dei professionisti, ovvero degli specialisti che si organizzano in cerchie esclusive in cui ci si esprime, appunto, con un gergo comprensibile soltanto a loro, e che diventa così uno strumento di potere utilizzato per stabilire delle gerarchie fra loro, i professionisti, e gli altri, gli esclusi, spesso anche subordinati, in vari modi.
Lui parlava soprattutto di medici, insegnanti, ingegneri, esperti dell’assistenza istituzionalizzata; in questo caso si tratta di ambiti inerenti a un sapere specialistico, come la critica letteraria e artistica, quest’ultima relativa alla cosiddetta arte contemporanea, dove fra le altre cose ormai si parla quasi esclusivamente la lingua inglese, quella del potere politico-economico globale. A cui peraltro effettivamente pertiene tale ambito professionale.

1 Riporto soltanto alcuni esempi, ma in realtà non sono riuscito a ritrovare neppure un’affinità con il senso di uso corrente del termine in alcun dizionario consultato, anche fra quelli ‘tradizionali’, cartacei, indisponibili online.

2 Ho trovato il termine all’interno di un libro che raccoglie gli atti di un corso di Roland Barthes sul cosiddetto ‘neutro’ (Le neutre). Spero di averlo usato in questo testo con sufficiente proprietà.

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Il primo suono

Verrà il tempo in cui tutti si comporteranno come folli e vedendo qualcuno non comportarsi allo stesso modo gli daranno contro dicendo: «Sei matto!», – perché lui non è come loro. (Sant’Antonio del Deserto)

Subito dopo la rovinosa caduta dell’aerostato, un cavallo a terra si gira sulla schiena e scuote le zampe in aria, come esultando.
Sui due lati del fiume: da una parte, in primo piano, i tre monaci, dall’altra i soldati-sgherri che procedono lentamente a cavallo nella stessa direzione; su un cavallo, appoggiato come un sacco, braccia e gambe distese, sta il buffone, appena picchiato.
Mentre Andrej (Rublev) e Danil discutono stando su una strada che si estende a perdita d’occhio nella pianura, circondata da campi fioriti, si vede in lontananza arrivare un cavaliere. Loro continuano a discutere, piuttosto animatamente, e a un certo punto il cavaliere gli passa accanto, galoppando di gran carriera. Nonostante le nostre aspettative, lui sembra non avere niente a che fare con loro, come passando di lì per puro caso (e loro stessi non lo degnano di un’occhiata).
Nel fiume, la donna nuda nuota verso una possibile libertà, passando vicino, quasi incrociandola, alla barca con sopra Rublev, che non si gira a guardarla. La mdp la segue ancora per un po’, tralasciando la barca, lei continua a nuotare, finché esce dall’inquadratura una volta per sempre.
Andrej e Foma sono nel bosco, discutendo, e d’un tratto vediamo una biscia entrare nell’acqua. Poco dopo Andrej, che l’ha vista, chiama l’altro per mostrargliela, parla sottovoce e sorride.
Ruscello inquadrato subito dopo la morte di Foma, colpito da una freccia quando si credeva in salvo, dopo essere fuggito da Vladimir; una carrellata lenta da destra verso sinistra.
Ma già prima, alla fine dell’aggressione nel bosco (accecati degli artigiani che avevano lavorato nella casa del Duca lasciandolo insoddisfatto) si vede una sequenza simile, inquadrato il ruscello mentre qualcosa di bianco – forse latte, o piuttosto colore? – si diffonde lentamente nell’acqua.
Il viso di Duročka inquadrato col teleobiettivo mentre la campana oscilla; lei sorride dolcemente subito dopo il primo rintocco.
Quando la campana finalmente suona, e poi continua a farlo, nel generale tripudio, Boriska e tutti i lavoranti rimangono silenziosi, sfiniti, con un’espressione grave nello sguardo: se non avesse suonato ci avrebbero rimesso la testa, questione di un attimo, bastava che il primo rintocco non si verificasse, che non si udisse alcun suono.
Infine, subito dopo la rassegna di icone, i quattro cavalli sulla riva del fiume, visti da lontano, sfocati, mentre riposano, liberi. Intanto la pioggia cade su di loro, noncuranti.

Credo che la parte della campana (ottava e ultima del film, introdotto da un prologo e chiuso da un epilogo) sia la più intensa, la più commovente e travolgente che abbia mai visto al cinema. Ovviamente anche ciò che la precede è di alto livello, nonché essenziale per apprezzarla compiutamente; ma questi quaranta minuti circa rasentano la perfezione1, raggiunta nei pochi attimi prima del primo rintocco e poi immediatamente dopo (il sorriso di Duročka colto con una zoomata che si infila fra i tralicci e le corde della struttura che sostiene la campana). Ma il vero culmine, per me, il momento in cui mi arrendo completamente – si potrebbe dire che mi inchini, ciò che in verità ho fatto l’altra sera, spontaneamente, rimanendo in ginocchio davanti allo schermo per quasi tutta la durata dell’episodio – travolto dalla commozione e dall’entusiasmo insieme, è quando Boriska, accasciato a terra in lacrime, confessa ad Andrej, che lo ha preso fra le braccia per consolarlo, di avere agito completamente ‘senza rete’, millantando di conoscere il segreto della fusione appreso dalle labbra del padre morente. «Quel bastardo non me l’ha voluto dire, se l’è portato nella tomba!», dice fra i singhiozzi. Improvvisamente tutto ci appare in una luce nuova, una luce fortissima che cade su tutto quanto ha preceduto quel momento, capiamo così che il ragazzo aveva deliberatamente intrapreso un’impresa disperata, sapendo bene che il probabile fallimento avrebbe voluto dire farsi tagliare la testa, a lui e a tutti i suoi collaboratori. Ne fui fortemente colpito la prima volta che vidi il film, conservando sempre dell’esperienza un ricordo intensissimo, indelebile. E ogni volta che lo rivedevo (almeno quattro contando l’ultima) rivivevo la stessa emozione, più o meno come la prima volta: un miracolo che si ripeteva ogni volta identico, un po’ come il sangue di San Gennaro a Napoli.
Ciò che non ricordavo, in verità, è proprio l’inizio dell’episodio, quando vediamo per la prima volta Boriska seduto contro il muro diroccato della sua casa, solo, del tutto sfiduciato, apparentemente privo di emozioni e di speranza nel futuro. Parla con un cavaliere, che non vediamo, gli dice che è rimasto solo al mondo, la pestilenza ha ucciso tutta la sua famiglia, compreso il padre fonditore di campane.
Si riscuote, subitamente, quando apprende che il cavaliere è un messo del Principe e sta cercando un fonditore per costruire una nuova grande campana per la cattedrale. Decide in un batter d’occhi di giocare la sua carta, con un coraggio e una determinazione folli, affermando quasi con veemenza di conoscere il segreto della fusione trasmessogli dal padre. Ora mi rendo conto che questa decisione improvvisa si può anche spiegare con il fatto che il ragazzo non aveva più nulla da perdere, e se mai avesse vinto quella folle sfida sarebbe rinato, piuttosto che rimanere una nullità, un reietto solo al mondo, abbandonato da tutti.

Ma l’artista, il creatore di opere molto belle e create dal nulla, che infondono benessere ed energia positiva nella gente, deve sempre faticare, penare e addirittura, come in questo caso, rischiare la vita. La sua soddisfazione per aver adempiuto al proprio compito è fugace, quando c’è, spesso neppure c’è, perché manca sempre la certezza, ovvero c’è ma è talmente esile e fugace rispetto alla mole immane del lavoro, della fatica. Ma questo è il compito, dare forza e gioia di vivere agli altri, attraverso le proprie pene, il lavoro sfiancante, la fatica. Perciò Andrej e Boriska continueranno insieme per adempiere la propria missione di artisti, di creatori di bellezza che verrà apprezzata da altre persone.

1 Grande la mia sorpresa quando ho sentito qualcuno fuori dall’inquadratura parlare in italiano. Inizialmente non capivo, ho pensato a uno strano difetto del file (?), e il mio sconcerto è perfino aumentato quando subito dopo ho ripreso a udire le voci parlanti in russo (sottotitolato in inglese) come in tutto il resto del film. Ciò che ha un pochino interrotto il crescendo delle mie emozioni, arrivando nei pressi del primo rintocco, che poi mi è quasi sfuggito, parendomi non così sonoro. Evidentemente mi era rimasta impressa la prima visione del film, doppiata in italiano, quando non potevano certamente sorprendermi delle voci fuori campo in italiano. E quella volta, per questo motivo, vissi l’ascolto del primo rintocco della campana con un’intensità ineguagliabile, e irripetibile.

Contro le immagini

L’attitudine sempre più radicata, soprattutto nell’ambito della comunicazione, cosiddetta, a dare la prevalenza alle immagini ha portato a una visione bi-dimensionale della realtà, tutto viene posto su un unico piano, che, per quanto vasto possa essere, manca sempre della terza dimensione: la profondità. Sia spazialmente sia temporalmente, non ce n’è alcuna, non emerge quel che è stato e non si vede più, ma ancora c’è, ovvero agisce sul presente, sulla situazione attuale, quella che si vede facilmente, anche da molto lontano, grazie ai mezzi di comunicazione di massa, sempre più potenti e invasivi. Che, appunto, lavorano soprattutto – anzi, quasi esclusivamente – sulle immagini1, le quali sono impotenti a fornire un accesso alla profondità, la terza dimensione. Ciò che invece sarebbe possibile, in linea teorica, alla scrittura testuale, sia pure a prezzo di un grande sforzo. Perché lo stesso linguaggio assume spesso apparenze ingannevoli, si usano con noncuranza, irriflessivamente, termini di cui non si sa, o non si ricorda (comunque non si tiene presente) l’origine, il perché iniziale, originario appunto. Quindi, per poterlo usare efficacemente si deve avere la massima cautela, evitando le scorciatoie e l’uso automatico, non consapevole, di termini che sono stati nel tempo sempre più distorti e piegati alle esigenze dei poteri e portano quindi a una visione o percezione distorta della realtà2.
Attualmente fra le immagini e il linguaggio testuale è spesso in atto un rapporto di servilismo reciproco, che priva entrambi gli strumenti della propria autonomia. Ma mentre le prime continuano a invadere, occupandolo, lo spazio della comunicazione, cosiddetta – e l’obiettivo finale pare essere quello del dominio assoluto – il secondo si riduce sempre più, si auto-mutila, e a forza di semplificazioni e abuso di acronimi e di frasi fatte svuotate di senso è ormai diventato una specie di rovina, un simulacro dell’antica ricchezza e complessità. A rappresentare egregiamente questo stato di cose, nei notiziari video, la riga di testo, in caratteri minuscoli, che corre, da destra verso sinistra, sotto immagini in movimento molto più vaste, enormi a paragone – come i sottotitoli in un film in lingua originale – che attirano tutta l’attenzione dell’osservatore. Probabilmente, quasi nessuno la legge più, e ben presto sparirà, come un residuo inutile, un costo di produzione aggiuntivo, da tagliare senza pietà né rimorso alcuno.
Io credo che l’unico modo per eludere il potere delle immagini – ma anche il nostro potere su di esse – sia di non dare loro alcun significato, di non assegnare loro alcuna valenza simbolica. Un’immagine andrebbe considerata alla stregua di un animale o di una pianta, protagonista di una vita propria senza alcun nesso con la nostra e di cui poco sappiamo. Un’immagine insomma non ci deve rappresentare, e sarebbe bene che non rappresentasse mai alcunché. E nel caso di inserimento in un testo, di qualsiasi natura e su qualsiasi medium, l’ideale, per la libertà e l’indipendenza di entrambi, è una certa reciproca incongruenza.

1 Una definizione fra le tante di immagine potrebbe essere questa: la cristallizzazione di un istante di tempo, qualcosa a cui qualcuno (fotografo o pittore) ha assistito, in taluni casi partecipato. È stato un fenomeno transeunte, in continua modificazione, fino alla sua scomparsa; ora rimane la sua rappresentazione – supportata dal ricordo – in forma, appunto, di immagine. Che non ha molto a che fare con quello, perché è morta, raggelata per sempre, mentre quello era vivo – nato dal nulla, si è sviluppato ed è quindi scomparso, divenendo invisibile. Perciò esso può essere soltanto ricordato, da chi era lì. In definitiva: l’immagine e il fenomeno (in senso ampio, l’oggetto) che essa rappresenta, cristallizzandolo, sono due mondi separati, nella migliore delle ipotesi paralleli. Bisogna stare molto attenti a non confonderli. Soprattutto a non sovrapporli, ciò che peraltro è impossibile (vedi El sol del membrillo, un film del 1992 di Victor Erice).

2 Ciò che vale, ovviamente, anche per le immagini, facilmente riducibili a luoghi comuni da consumare nel breve tempo della loro apparizione di fronte al nostro sguardo. Su tali luoghi comuni si regge tutto l’impianto di stravolgimento della realtà, un sistema di schermi che tende a sottrarla alla nostra pura percezione.

(scritto lo scorso 12 luglio)

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