
La foto, bellissima, del bimbo piccolo che tocca con un dito, con grande delicatezza, il capo emergente del Vertical Earth Kilometer [che tradurrei come chilometro verticale terrestre] di Walter De Maria, a Kassel, l’ho trovata sulla pagina svedese di Wikipedia dedicata a quest’opera. Non so quando sia stata scattata, magari trent’anni fa (se non addirittura proprio nei giorni di documenta 6, nel 1977), ora quel bimbo è un uomo (oppure una donna) adulto, magari alto un metro e ottantacinque, è cresciuto, anzi avrà ormai smesso di crescere. Il Chilometro intanto è rimasto fermo, intatto e immutato, sempre lì dove è stato infisso: due situazioni collegate, affini, complementari, ma inconciliabili fra loro. Perché un essere umano si muove, cresce e cambia, e a un certo punto finisce, il tondino di ottone no, niente di tutto questo. Ma lui/lei lo tocca, e forse in una certa misura contribuisce, in maniera infinitesima, ad usurarlo, e se ogni giorno molte persone facessero la stessa cosa, toccassero lì, il chilometro, dopo milioni o miliardi di anni, si consumerebbe, considerando che le persone (ma non soltanto le persone, qualsiasi essere vivente, le stesse intemperie), stando lì nei pressi, con le loro azioni, sia pure involontarie, alla lunga provocherebbero anche un abbassamento del terreno intorno al tondino, sempre maggiore, fino ad arrivare al termine opposto, ora così lontano dal suolo, immerso nel buio più profondo.

Non credo di avere mai visto la faccia emergente del Kilometer, anche se potrei esserci passato vicino, l’unica volta in cui visitai Kassel, nel 1997, venti anni dopo la sua installazione, là dove ancora si trova, nella piazza di fronte al Fridericianum. Potrei addirittura averla calpestata senza avvedermene, dando così il mio contributo a quell’utopica operazione di consunzione.
Vidi invece, l’unica volta in cui andai a New York, il Broken Kilometer realizzato da De Maria due anni dopo. Si può dire sia la stessa cosa, anche se in questo caso il chilometro è diviso in 500 tondini di ottone tutti uguali fra loro, ognuno lungo due metri, largo due pollici (poco più di 5 cm). In questo caso l’energia – non soltanto virtuale, o immaginata, ma reale – dell’opera è come dissipata, attraverso tale minuto frazionamento. O meglio, si trasforma, agendo ora come peso che insiste sul pavimento della sala nella Dia Art Foundation dove è allestita dal 1979. In questo caso, l’opera, privata della sua estensione massima, che le permetteva di entrare nella Terra per un chilometro, è come se avesse acquistato in mobilità1, anche se soltanto presunta, immanente, dato che – per quanto se ne sa – nessuno l’ha mai più spostata da dove si trova, forse neppure una delle sue 500 parti costitutive, peraltro piuttosto pesanti (circa 35 kg)2.
Sicuramente la scelta di De Maria, di realizzare questa versione ‘scoperta’ del Kilometer (volendo, si potrebbero mettere i cinquecento tondini tutti in fila, in modo che si tocchino sui due capi, per ottenere un solo tondino lungo un chilometro) fu del tutto sensata, per mostrare un’altra faccia dell’idea, un’altra possibilità. E quest’opera – nelle sue due versioni – apparentemente così algida, così distante dalla misura umana, a noi aliena e quasi ostile, mi sembra rappresentare molto bene, in maniera non esplicita – e non didascalica –, bensì ineffabilmente, certi caratteri dell’essere. È quindi, indiscutibilmente secondo me, un’opera attinente alla sfera del pensiero, prettamente filosofica.
1: qualche commentatore ha scritto su come i cinquecento tondini, allineati in cinque file parallele di cento, paiano danzare.
2: in verità, ogni due anni tutti i tondini vengono accuratamente lucidati da Patti Dilworth (moglie di Bill, colui che si occupa della cura della Earth Room, dello stesso De Maria) fino a diventare, secondo le sue stesse parole, “… così pieni di luce da non sembrare nemmeno più metallo. È quasi calore radiante. Talmente bello, qualcosa come un bagliore mormorante.”
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