Le installazioni ‘immersive’ della cosiddetta arte contemporanea sono una discendenza diretta di certi ‘baracconi’ dei luna-park. Ce ne erano di diversi tipi un tempo ormai lontano (quando frequentavo i luna-park, moltissimi anni fa) e non so bene se essi esistano ancora, o ne siano state create nuove tipologie. Allora c’erano svariate “case delle streghe”, o “castelli dei fantasmi”, che avevano l’obiettivo di sorprendere, stupire e soprattutto spaventare. Poi c’erano quelli, più semplici, direi proprio ‘minimali’ che giocavano sull’alterazione della percettività dei visitatori, e il più emblematico, direi, era la “casa degli specchi e dei vetri”, un labirinto dove era molto facile perdersi, ingannati, appunto, da pannelli di vetro che fingevano aperture e da specchi che confondevano chi vi veniva riflesso (soprattutto quando, in quei punti, l’illuminazione lasciava molto a desiderare). Uscirne, dopo diversi minuti, era sempre un sollievo, dopo aver provato ansia, inquietudine, perfino angoscia cercando una via d’uscita verso l’aperto che a volte sembrava del tutto introvabile.

Ora, con l’ausilio di proiezioni video e/o di emissioni audio, all’interno di ambienti in ombra – o anche, talvolta, nella piena oscurità – succede un po’ la stessa cosa, e la gente, dopo aver pagato il biglietto d’entrata (come allora, nei luna-park) cerca qualche minuto di innocuo spaesamento, di inquietudine ‘a tempo’ – finché si sta lì dentro – aggirandosi in qualcuna di queste installazioni immersive.
Probabilmente, il primo artista visivo a creare certe installazioni essendo consapevole della loro filiazione da certi ‘baracconi’ è stato Bruce Nauman. Ricordo, per averle visitate molti anni fa, quelle in forma di corridoio, dove, con il solo ausilio di un monitor video (e di una videocamera accuratamente posizionata, nascosta alla vista dei visitatori) si poteva vivere un’esperienza sia pur breve, o brevissima, ma davvero spaesante, ‘fastidiosa’, e soprattutto non consolatoria. Perché, a differenza di quei ‘baracconi’, dai quali si poteva uscire, dopo un tempo più o meno lungo di sforzi e disagi, e tornare ad assaporare l’aria libera, rassicurante, del mondo al di fuori, da questi si usciva, sì, anche molto più facilmente, ma portandosi dentro un certo malessere, accusato là dentro e dal quale non era per niente facile liberarsi. Chi li ha visitati capirà cosa sto dicendo, pensando ad esempio al doppio corridoio (due paralleli, uno all’andata e uno al ritorno, per uscirne) che aveva in fondo un monitor in cui si vedeva la nostra nuca. Si facevano acrobazie, si provava ad essere rapidissimi per sorprendere un invisibile avversario (noi stessi…), ma niente, sempre e soltanto la nostra nuca vedevamo, e l’angoscia provata poteva essere intensa, per cui ci si affrettava a uscire da lì, scoraggiati e frustrati. Ricordo anche i molti ambienti, del tutto spogli, spesso illuminati da quel tipo particolare di lampade usate nei tunnel automobilistici, che eliminano la possibilità di vedere i colori, e tutto quel che vediamo è in bianco e nero, leggermente virato sull’arancio (il colore effettivo della luce di tali lampade). Alcuni, che non avevano porte né aperture, erano inclinati rispetto al suolo in modo da creare su almeno un lato un’apertura che consentiva l’accesso, sia pure piegando la schiena e le ginocchia, invero scomodamente.
La caratteristica, insomma, di tali ‘ambienti installativi’ è quella di non permetterci di sfuggirvi con la nostra abilità, con le nostre doti mentali e fisiche, essendoci posti problemi di fatto insolubili, a differenza di quegli altri. Che, in buona sostanza, avevano il preciso compito di creare dei surrogati di realtà, mimando situazioni di pericolo, o quanto meno di difficile soluzione, che la realtà vera, là fuori, propone con sempre minore frequenza agli uomini (con l’eccezione di quelli coinvolti in guerre – quasi soltanto al di fuori del mondo occidentale – o travolti da fenomeni fisici di terrificante intensità e potenza, come terremoti, inondazioni e altri eventi distruttivi eccezionali, come gli incidenti d’auto e i crolli di ponti o case). Da molti decenni chi vive in questa società è sempre più sottoposto a un processo esponenziale di anestetizzazione e la vita ormai è soltanto più sopravvivenza, eliminati (almeno apparentemente) tutti o quasi tutti i rischi, ma anche la varietà di occasioni che ha sempre costituito, nel corso di tutta la storia dell’umanità, il contesto necessario a chiunque per crescere, rispondendo a una continua sollecitazione con una continua, incessante diversificazione, privilegiando l’intensità e qualità della vita piuttosto che la sua durata e la sua (illusoria, peraltro) sicurezza, come sta avvenendo ora, da un bel po’.

Avevo iniziato a scrivere questo testo pensando al caso di Apitchapong Weerasethakul, il noto autore thailandese che da una ventina d’anni si muove, con sempre maggior disinvoltura, fra due campi (almeno), ovvero fra il cinema vero e proprio – con lungometraggi proiettati all’interno di sale o visibili in privato su vari dispositivi – e l’installazione artistica, generalmente di tipo immersivo, o la performance. Spesso, in un suo film, si inizia a seguire una linea narrativa – o più linee narrative in contemporanea – che d’improvviso si interrompe per lasciare il posto a immagini o situazioni che paionio ammiccare a tali installazioni o performance, e che possono avere un qualche nesso con quella o quelle storie oppure non averne alcuno di evidente. In questo modo, si spegne, o quanto meno si attenua di molto, l’intensità della nostra attenzione, che viene distratta e perfino disinnescata da certe sorprendenti intromissioni. Ci si sente un po’ svuotati, come sempre in seguito a un rilassamento, ma si assiste comunque – sia pure piuttosto passivamente, mentre prima il nostro coinvolgimento era ben maggiore – a quelle nuove situazioni, incongrue, quando non incompatibili, rispetto a quelle precedenti. Apparentemente, tale modalità è mutuata dai sogni, dove, com’è noto, tutto avviene quasi sempre all’insegna dell’incoerenza e della inconsequenzialità. Epperò accade poi spesso che certi segmenti dei suoi film vengano traslati, più o meno integralmente, all’interno di spazi espositivi, per lo più museali, dove sembrano trovare la propria sede naturale, che gli dà modo di manifestare l’innata natura di ambienti in cui sia possibile esperire situazioni di presunto, fallace, pericolo, o comunque di spaesamento, come quelli che considero i loro progenitori, quei baracconi dei luna-park di un tempo. Ad apparentarli piuttosto strettamente, secondo me, è proprio il fatto che – a differenza degli ambienti scomodi e disturbanti di Nauman – il loro fine è o consolatorio oppure meramente ‘entertaining’, per darci emozioni effimere che, appunto, surrogano quelle reali – sempre vissute con un forte senso di rischio e di fatica e difficoltà – che ci sono state sottratte, e che non non possiamo quasi mai vivere nella vita di tutti i giorni. In questo senso ora sto cominciando a vedere l’opera di A. W. in un modo diverso da prima, quando mi meravigliava e mi affascinava per la sua diversità (anche se film come Lo zio Boonme che si ricorda le vite precedenti e Tropical Malady mantengono ancora la loro forza, proprio per il fatto di costituire, ognuno, un corpo variegato ma integro, non spurio come altri, e possiamo continuare a vederle come dei sogni, sia pure lontani da noi) e trovo sospetta la sua forte porosità, se non proprio promiscuità, nei confronti della cosiddetta arte contemporanea. Che, a differenza dei suoi film, tutti generalmente girati fuori, nel mondo reale, spesso con attori non professionisti, ha luogo nel chiuso di ambienti deputati a quell’uso, luoghi istituzionali, gallerie, musei, biennali e fiere d’arte. Finendo, ineluttabilmente, per riproporre il fenomeno di quegli antichi baracconi, che offrivano occasioni a buon mercato per vivere esperienze fittizie e superficiali con un doppio fine: divertire prima, anche con situazioni di apparente (ma tutto sommato assai limitato) rischio, e quindi consolare. Anche così, io credo, si collabora all’immane opera di anestetizzazione in corso nel mondo, soprattutto nella sua parte occidentale, già da molti decenni, e in continua intensificazione e crescente, irresistibile, efficacia. Un’opera che sembra avere come fine la progressiva sottrazione di ogni spazio di libertà per ogni uomo sulla Terra, tutti infine dominati e controllati continuativamente e ovunque, ma senza che essi (cioè noi…) nemmeno se ne accorgano, perché, appunto, anestetizzati1. Apparirà, forse, stupefacente che certe conclusioni possano provenire da una nuova visione dell’opera di questo autore, per molti, quasi per antonomasia, un campione della o delle libertà, rappresentante dei diversi e degli emarginati. Diciamo che ho iniziato a insospettirmi notando la crescente frequentazione da parte sua dei luoghi istituzionali dell’arte cosiddetta contemporanea, mostrandovi spesso parti, magari un po’ modificate, dei suoi film. Ma soprattutto quando – come in Syndromes and a Century, nella seconda parte soprattutto – mi accorgo, vedendo o rivedendo un suo film, che mancano, quasi del tutto, le situazioni in grado di farci provare una certa sensazione di disturbo, di inquietudine che non si può facilmente risolvere, ma a cui si finisce per arrendersi. Quegli aspetti, insomma, che erano emersi con forza nelle sue opere più riuscite, soprattutto Lo zio Boonme… e Tropical Malady (la straordinaria seconda parte), dalle quali, quando mi capita di rivederle, ricavo sempre nuovi stimoli e sottili trasalimenti, e hanno poco o nessun carattere deliberatamente consolatorio.
Ma anche fermandosi al di qua di certi limiti (“rimanendo ai fatti”, come si suol dire), io credo che si possa dire una cosa: il cinema è sogno, da sempre, non esiste niente di più simile, nessuna espressione artistica va così vicina, fino a, spesso, identificarcisi, alle dinamiche oniriche, come il cinema (grazie soprattutto al suo essere composta di immagini e suoni). Perché mantenga questa caratteristica essenziale andrebbe mantenuta, e preservata, la distanza fra il film proiettato e lo spettatore (peraltro già messa in discussione dalla modalità cosiddetta ‘Dolby Surround’, con l’uso dei sistemi di emissione sonora 5.1 e i diffusori sparsi un po’ ovunque per avvolgere lo spettatore), e non annullata come accade in certe installazioni cosiddette immersive, che vorrebbero dare l’illusione a chi le visita di trovarsi proprio dentro al cinema, ovvero nel sogno. Altrimenti, ineluttabilmente, si finisce, consapevoli o meno, per fare dei parchi a tema, tante piccole disneyland, dove la magia del cinema va perduta, proprio perché quella distanza vi è annullata; dove si pretende di avverare il sogno, passando dall’erotismo – che è connaturato alla visione cinematografica – alla pornografia, ovvero dalla sublimazione alla consumazione.

Possibile che A. W. volesse deliberatamente fare tanti piccoli segmenti di una disneyland atipica, con diversi personaggi e situazioni, più adatti, queste e quelli, ai nostri tempi (più contemporanei)? Penso e spero di no, anche se probabilmente non si è (ancora) reso conto che tutto il grande mondo della cosiddetta arte contemporanea – soprattutto la parte più ricca, quella più vicina alla punta della piramide: ricchi musei, grandi biennali e fiere – questo è: un’immane disneyland, che dilatandosi a dismisura deve per forza annullare (fagocitandolo) anche il cinema così come era dalla sua nascita e come l’abbiamo conosciuto e amato per circa un secolo*.
*: Vedere voce Le sale cinematografiche su Enciclopedia del Cinema Treccani, di Gian Piero Brunetta
1 Forse l’obiettivo di tutta l’arte contemporanea – come sistema – è di fornire un surrogato sempre più convincente della realtà, una sorta di sdoppiamento grazie al quale viene a materializzarsi un ambito in cui succedono (si vedono succedere) tutte le cose che di qua, nella vita reale, non succedono più, anche se quasi nessuno pare essersene accorto. Non è più come prima, quando quadri e sculture stavano ‘al loro posto’, ora, da quando si fanno installazioni sempre più grandi e ingombranti, oppure performance brulicanti di ‘attori’, l’arte cosiddetta contemporanea occupa molto spazio sottratto alla vita e si propone come spettacolo in cui viene rappresentata una vita virtuale, a cui i visitatori assistono inermi, passivi.
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